Buddha, Socrate e Pirrone:

dallo scetticismo al misticismo

 

di Attilio Quattrocchi

Buddha

Buddha

Nota introduttiva

 

Buddha, Socrate e Pirrone: bisogna riconoscere che è davvero inusuale accostare pensatori almeno apparentemente così diversi tra di loro per epoca storica, contesto geografico, ambito culturale ed elaborazione concettuale. Eppure, a nostro parere, l’Illuminato indiano (563 ca – 486 ca a.C.), il Maestro ateniese (470/469 – 399 a.C.) ed il padre dello scetticismo (365 – 275/270 a.C.) seguirono un percorso intellettuale e spirituale sostanzialmente univoco.

Infatti interpretarono la prassi filo-sofica, cioè la pura speculazione razionale, solo come un necessario preludio al conseguimento della vera Sofìa, quella mistico/iniziatica accessibile solo con strumenti intuitivi sovrarazionali.

Essi videro nella consapevolezza dei limiti delle nostre capacità sia percettive che razionali la base per poter accedere ad un grado più elevato di esperienza conoscitiva, capace d’inoltrarsi nel dominio della metafisica oltre gli angusti limiti della mente.

Questo piccolo studio vale a tratteggiare in estrema sintesi le affinità sul tema della conoscenza dei tre percorsi di pensiero e a collegarli con alcune nostre personali riflessioni aventi una finalità puramente ‘operativa’.

Queste, infatti, sono state concepite a vantaggio di chi sente nell’impulso alla Conoscenza un elemento fondamentale del proprio consapevole ed intenzionale vissuto esistenziale.

Solo chi si accosta alla filosofia con tale disposizione d’animo concependola come la si sentiva nel mondo classico e nel mondo antico in generale, cioè come un prassi ‘ontologicamente’ realizzativa e non come un vuoto esercizio di speculazione concettuale troverà forse un qualche giovamento da questo scritto.

Inizieremo il nostro percorso con Socrate e a lui costantemente ritorneremo per il ruolo fondamentale che ha ricoperto nella storia della filosofia e della cultura occidentali.

 

socrate

Socrate visse la sua vita come un esame incessante di se stesso e degli altri, come una ricerca aperta del Sapere, convinto che la Verità non debba essere concepita come una meta – impossibile da raggiungere dall’uomo per la propria strutturale finitezza – quanto come un processo, un cammino che avvia ad una consapevolezza sempre più profonda ed universale.

 

Ed è tale la natura indagatrice della mente da fargli sperare (come afferma sia nell’Apologia che nel Fedone) che tale percorso possa continuare persino in una vita ultraterrena dell’anima tanto è consustanziale ad essa quell’anelito conoscitivo.

 

Così per lui la filosofia, animata e stimolata dal dubbio critico, è cosa tutta ‘umana’, nobilmente umana, poiché proprio attraverso la dialettica del pensiero ed il superamento grazie ad essa sia di ogni rigidità dogmatica che della stessa presunzione di un sapere assoluto, essa ci avvia non solo alla costruzione di un mondo terreno più giusto ma anche allo spazio sacro, intuitivo e sovrumano della ‘sofia’.

Socrate afferma chiaramente che la vera Sapienza - la Sophìa, appunto – appartiene e si riferisce allo spazio metafisico, al mondo degli dei, e quindi per sua natura è ineffabile.

Per questo non ha mai voluto insegnare una ‘dottrina’ che tentasse di chiarire con procedure ‘logiche’ i grandi problemi cosmologici, ontologici e metafisici.

Egli lo afferma con estrema chiarezza ai suoi stessi giudici: “Io non sono stato maestro mai di nessuno; soltanto, se c’è persona che quando parlo o attendo a ciò che credo il mio ufficio, desidera ascoltarmi, sia giovane sia vecchio, non mi sono mai rifiutato… che poi tra quelli che mi praticano, uno diventi galantuomo o non lo diventi, non sarebbe ragionevole che ne avessi lode o biasimo io, che non ho mai promesso insegnamento a nessuno, né alcuna cosa ho mai insegnato” (Apologia, 33a-33b).

Socrate, come ogni autentico Maestro, è perfettamente consapevole che la sofìa non si può ‘comunicare’ dialetticamente ma solo ‘conseguire’ come frutto di una personale, intensa ed autentica ricerca all’interno della propria anima.

Questa appassionata indagine ha un’origine ed una finalità religiose poiché è Apollo stesso a comandarla con il suo celeberrimo precetto: Conosci te stesso.

Platone nel suo dialogo intitolato Alcibiade I (129e-133b) espone molto chiaramente il pensiero del suo Maestro facendogli pronunciare le seguenti parole: “Colui che ammonisce di conoscere sé stessi ci ordina di conoscere la nostra anima… Possiamo noi indicare nell’anima una parte più divina di quella ove risiedono la conoscenza ed il pensiero? … Questa parte dell’anima è simile al divino, e, se la si fissa s’impara a conoscere tutto ciò che vi è di divino, intelletto e pensiero, si ha la migliore possibilità di conoscere sé stessi nel modo migliore”.

L’indicazione ‘tecnica’ di Socrate e la sua finalità ‘mistica’ sono quindi esplicite: bisogna ‘fissare’ l’anima, cioè volgere l’attenzione all’anima, per scoprirne la natura ‘divina’, cioè l’origine ed il fondamento metafisico. Con questa pratica introspettiva ci s’innalza dalla filosofia alla sofìa, dalla razionalità alla contemplazione metafisica.

Quando egli si apparta, s’immobilizza e tace, come spesso faceva, ci manda pertanto il suo messaggio più profondo: la saggezza culmina nel silenzio. Ed è in quello spazio interiore che il dèmone gli parla.

Bisogna ammetterlo: Socrate è sostanzialmente un mistico.

Non c’è contrasto tra il Socrate mistico e quello razionale perché il maestro ateniese sa che bisogna usare la ragione nel domino che le è proprio e che proprio usandola si finisce per trascenderla.

La sua stessa ‘missione’ inizia allorché il dio di Delfi lo definisce come l’uomo più sapiente e gli indica così il compito di sciogliere quell’enigma (sentendosi Socrate tutt’altro che saggio) dando però la traccia del cammino da percorrere col suo sacro motto: Conosci te stesso.

A tale missione il pensatore ateniese consacrerà la sua vita sino all’estremo sacrificio.

All’inizio della sua ricerca il pensatore cerca di comprendere il senso del responso oracolare.

Finisce per darsene ragione nel momento in cui capisce che la sua ‘sapienza’ è ‘umana’ ed è l’unica da cui può partire ogni autentica ricerca gnoseologica: essa consiste appunto nel ‘sapere di non sapere’, cioè nell’aver preso coscienza di quei limiti conoscitivi di cui altri, che stoltamente si considerano sapienti, sono ignari.

Non c’è ricerca – nel senso che non inizia neanche – se non si è consapevoli dei propri limiti conoscitivi e pratici.

Ma chi conquista tale condizione interiore è il solo che può essere considerato un ‘filosofo’ in quanto si rende conto di dover intraprendere un cammino della conoscenza che si avvia verso una meta lontanissima ma per noi essenziale, quella della ‘divina sofìa’.

La ricerca dovrà esser condotta con coraggio, determinazione, umiltà e sano senso realistico, si realizzerà nel confronto con gli altri, avanzerà nella misura in cui si renderà la propria anima quanto più possibile ‘ottima’ e ‘virtuosa’.

Non è una ricerca ‘intellettuale’ è una ricerca ‘esistenziale’, dunque anche morale.

Per Socrate troppo spesso gli esseri umani vivono in una condizione d’inconsapevole ignoranza da cui però devono uscire; se non giungono a farlo per loro spontanea iniziativa e con le loro sole forze ben venga un ‘maestro’ un ‘educatore’ che li ‘metta in crisi’ e li faccia ‘sanamente dubitare’.

In effetti Socrate pensa che il suo percorso verso la conoscenza sia in qualche modo ‘esemplare’ e ritiene di poter aiutare gli altri a superare quelle difficoltà intellettuali e spirituali che lui stesso da giovane aveva dovuto affrontare. Egli aveva iniziato la sua ricerca filosofica nell’ambito del pensiero ‘naturalistico’ ma presto se ne era distaccato avendo compreso che è impossibile all’uomo trovare e ‘definire’ attraverso l’esperienza sensibile, la logica e la scienza l’essenza del mondo: è un compito che va ben al di là delle nostre forze.

Seguendo così il comando di Apollo Socrate abbandona l’indagine naturalistica e indirizza la sua ricerca su se stesso ovvero sull’uomo o, per meglio dire, su ciò che gli è proprio: la coscienza, l’anima, il logos.

Ma il segreto del comando di Apollo è che proprio attraverso l’autoconoscenza, l’introspezione, l’uomo può cogliere il ‘divino’ e pervenire alla ‘sofìa’, alla scienza del sacro.

Tutti gli strumenti della ricerca filosofica di Socrate: la prassi del dialogo interno e di quello interpersonale, l’uso dell’ironia, della maieutica, del dubbio, lo stesso metodo della corretta definizione, sono così solo la preparazione all’ auspicato e ‘naturale’ esito iniziatico, alla scoperta della dimensione sacra dell’anima, alla scoperta del ‘dio interiore’.

Attraverso il dialogo Socrate esercitava quella sottile ‘arte maieutica’ (dell’ostetrica) con cui, imitando su un più alto piano quella materna, si proponeva di far partorire le anime che lui giudicava già ‘gravide’.

Se l’arte dialettica del pensatore ateniese è l’arte di porsi e di porre le domande cercando sempre le ragioni contrarie ad ogni affermazione per poter ascendere grado a grado nella conoscenza ampliandola e giungendo ai suoi stessi limiti, è evidente che la ‘molla’ della dialettica è il dubbio.

Senza di esso non ci sarebbe progresso conoscitivo né progresso spirituale. Anzi, per Socrate il progresso conoscitivo è di per sé già progresso spirituale, poiché questo non si realizza con l’abdicazione del pensiero di fronte ad una qualche irrazionale e subrazionale fede ma solo con un’attività razionale che dalle forme del mondo sensibile vada in virtù della sua stessa ‘forza’ verso ciò che è oltre di esse.

Il dubbio, però, determina anche quello stato emotivo d’incertezza in cui ci getta la mente quando si mostra capace di opporre ad ogni dottrina un’altra, almeno apparentemente, altrettanto fondata.

Ma tale condizione turbata dello spirito rappresenta anche una ‘crisi’ capace di determinare una crescita interiore; per Socrate quello stato di smarrimento è necessario ed è inevitabile allorché l’individuo inizia a liberarsi dalle sue false certezze: per questo motivo Platone nel Menone paragona il suo Maestro ad una ‘torpedine marina’ che intorpidisce chi la tocca.

La stessa parola ‘crisi’ ci indica il fermento interiore che si accompagna alla riflessione capace di revocare in dubbio le ‘certezze’ ed i modelli di vita acquisiti.

La parola deriva dal latino crisi(m), a cui corrisponde il greco krìsis, deriva dal verbokrìnein che significa appunto ‘distinguere’, ‘analizzare’, giudicare’, ‘decidere’, per cui la ‘crisi’ si configura esattamente come un atto di scelta e di decisione, un atto interiore di ragionato cambiamento.

Per questo anche nel lessico comune la crisi può essere indicata come ‘salutifera’, apportatrice appunto di salvezza, di progresso spirituale.

Attraverso l’ironia il pensatore ateniese afferma proprio la sua consapevole ignoranza (il saggio è tale in quanto sa di non sapere!) per stimolare l’interlocutore ad esporre la sua ‘sapienza’ sin tanto che questi non è costretto ad ammettere i propri limiti.

Per accostarsi alla verità ‘umana’ (cioè quella parziale in quanto relativa al nostro mondo di esseri finiti) così come per accostarsi alla sapienza ‘divina’ bisogna disporre l’anima ad una continua ed umile ricerca del sapere.

Per questo non si deve dimenticare che per Socrate ogni bene viene dal Logos.

Quella parte della conoscenza e del bene che sono accessibili e presenti nel mondo umano vengono dall’uso della ragione, ma quei beni possono essere colti integralmente solo nella dimensione metafisica quando si coglie l’essenza della ragione.

Infatti l’anima proprio in quanto ‘sede’ della ragione è intrinsecamente ‘divina’.

Come già prima di Socrate avevano dimostrato i sofisti con le loro antilogie (argomenti contrari) la dimensione umana della conoscenza è irrevocabilmente relativa: “l’uomo – diceva Protagora - è misura di tutte le cose”, per cui ogni suo giudizio ed ogni valutazione appartengono al mondo delle soggettive ‘opinioni’.

I sofisti furono quindi ‘maestri del dubbio’ ma il loro dubitare era spesso solo strumentale poiché la loro professione di sapienza ‘umana’ era il pretesto per un suo uso venale e strumentale per cui divennero di fatto solo maestri di retorica.

Per questo vennero bollati già da Socrate, Platone ed Aristotele come ‘pseudofilosofi’ e ‘maestri di ragionamenti capziosi’.

Tuttavia attualmente gli storici della filosofia, a ragione, considerano la scuola sofistica in maniera più obiettiva sottolineandone (oltre che la tesi ‘relativistica’ di fondo, speculativamente rilevante) la funzione di liberazione critica dal passato in nome della ragione (una sorta d’illuminismo ellenico) e la loro valutazione positiva del processo educativo (paidèia).

Di fatto anche la seconda grande personalità della sofistica dopo Protagora, cioè Gorgia, ribadì la tesi dell’agnosticimo e dello scetticismo metafisico in considerazione appunto dell’impotenza umana a trattare dell’Essere e delle strutture del Reale.

Quindi già nel contesto sofistico, quello in cui il giovane Socrate si formò, ci si convinse che un Vero Assoluto è al di là delle nostre umane possibilità.

Pertanto l’uomo consapevole di se stesso e della sua condizione non può che vivere nel dubbio.

Per ogni tesi c’è un’antitesi.

Questa è la natura della mente.

Socrate si batterà contro i sofisti non solo perché convinto che un uso accorto ed onesto della dialettica può porre gli uomini nella condizione di condividere idee e progetti volti al bene comune, cioè all’utile comune, ma si batterà anche contro il radicale agnosticismo dei sofisti sostenendo la possibilità di accesso alla Verità attraverso un percorso religioso di natura mistica.

Per Socrate il dubbio che alimenta la mente non è di per sé nemico della esperienza mistica.

Del resto, anche in questo caso ci soccorre l’etimologia a comprendere il senso profondo del nostro linguaggio e la natura della nostra esperienza esistenziale: il termine ‘dubbio’ infatti viene dal latino dubiu(m) il quale deriva appunto da ‘duo’ (in greco dyo) cioè dal termine che indica il numero due, e metafisicamente/ontologicamente la diade, la natura duale, ‘dialettica’, del mondo e del pensiero.

Ma poiché la nostra coscienza razionale vuole ricondurre tutto ad unità per cogliere quella che Eraclito chiama ‘l’armonia nascosta’, è evidente che il ‘coglimento’ di quell’unità non può avvenire sul piano della mente discorsiva, dualistica per sua stessa natura.

Per questo già nel mondo antico spesso chi voleva realizzare tale conoscenza unitaria si sforzava di utilizzare un modo conoscitivo non dialettico/mentale ma intuitivo/sovramentale, mistico appunto.

Ma per molti pensatori antichi il dubbio che relativizza o distrugge ogni dottrina non è nemico dell’esperienza religiosa e metafisica, anzi ne è il presupposto.

Perché si passi dalla dottrina religiosa all’esperienza religiosa il dubbio è necessario.

Il dubbio infatti può far sorgere in alcuni (socraticamente: nelle ‘anime gravide’!) l’esigenza di una diretta esperienza che conduca oltre il semplice ‘opinare’.

Il dubbio apre il passaggio dal ‘pensare’ alla Verità attraverso una qualche elaborazione concettuale al ‘percepirla’ direttamente come risultato di un’aspirazione noetica all’Incondizionato che si serve della mente sino ai suoi estremi limiti per poi trascenderla.

Il Logos – dirà lo stesso Platone – ha in sé la forza della trascendenza poiché la sua radice profonda, la sua essenza, è la pura Coscienza.

Nella prassi iniziatica questa può trascendere il pensiero discorsivo ed il suo automatico ed ipnotico fluire con l’atto meditativo e puramente introspettivo dell’osservarlo.

In tal modo ne prende la distanza e si disidentifica dai suoi contenuti di origine empirica.

Questa è la tecnica ‘mistica’ che accomuna le scuole iniziatiche d’Oriente e quelle d’Occidente.

Per esse noi solo così capiamo che non siamo il pensiero associativo ma la coscienza che può vedere come ‘altro da sé’ sia il mondo ‘esteriore’ che quello ‘interiore’; il quale ultimo è spesso solo un riflesso di quello esteriore perché materiato di ricordi, speranze, timori, stati d’animo tutti determinati dalle esperienze che facciamo del mondo esterno.

Per questo se si leggono con la dovuta perspicacia ed attenzione quei testi greci che hanno trattato la modalità di sviluppo dello spirito in una prospettiva metafisica risulta evidente come in essi si è sempre affermato che ‘operativamente’ la coscienza va svincolata non solo dal corpo ma anche dal riflesso nel nostro spazio interiore delle esperienze maturate nella dimensione materiale.

Tale ‘tecnica’ socratico-platonico–plotiniana è del tutto identica a quella che da sempre ha connotato la tradizione iniziatica orientale.

Platone mette in bocca proprio a Socrate le luminose parole che indicano tale processo ‘anagogico’ interiore che consiste appunto nell’isolare l’anima da ogni percezione esterna e da ogni contenuto interno propiziando così attraverso il silenzio ‘intimo’ della mente (di cui quello ‘esterno’ è solo la trasposizione ‘visibile’) l’accesso alla dimensione metafisica.

Così infatti afferma il Maestro ateniese nel Fedro: “Quando l’anima restando in sé sola volge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno e immortale” (XXVII).

Altrettanto esplicito è quel passo del Fedone in cui afferma che l’anima si deve staccare dai sensi “raccogliendosi e concentrandosi tutta in sé stessa” sino a divenir capace di “vedere da sé medesima il mondo intelligibile ed eterno” (83b) e precisa che chi “vive avendo cura dell’anima” pratica la filosofia appunto per la sua “liberazione e purificazione” (82d).

L’anima ‘isolata’, ‘unificata’, ‘concentrata’, ‘fissata’, ‘volta verso l’alto’ (questi sono i termini e le espressioni per lo più usati nella tradizione filosofico-esoterica greca ad indicare il procedimento interiore necessario per l’accesso alla trascendenza) viene ricondotta dal suo stato abituale di dispersione nel mondo della materialità alla condizione ‘originaria’, alla sua essenza metafisica.

In tal modo si realizza la sua ‘purificazione’, la sua catarsi.

Per indicare tale procedimento interiore si sono infatti usati nella tradizione mistico-iniziatica occidentale termini quali ‘anagogia’ o ‘sublimazione’.

In genere essi vengono intesi exotericamente, cioè in senso ‘figurato’, in realtà devono essere interpretati esotericamente in senso letterale, come operazione da compiere nel proprio ‘corpo sottile’.

Il termine ‘anagogia’ infatti deriva dal greco anagoghé e significa condurre, volgere (ago) l’anima, (cioè le intime ‘forze eteriche’ guidate dalla volontà e dall’immaginazione) verso l’alto (anà) e quello di ‘sublimazione’ ha lo stesso significato derivando dal termine latino ‘sublimis’ che significa appunto ‘che sta in alto’.

Bisogna quindi orientare le forze dell’anima verso i ‘luoghi superiori’ dello spirito, cioè la dimensione trascendente, separandola dalla sua abituale connessione col corpo.

Nella prassi meditativa indiana ciò significa fissare la coscienza sui chakra superiori del ‘corpo sottile’ (in genere quelli che corrispondono al ‘terzo occhio’ e alla ‘fontanella di Brahma’) centri di energia che hanno corrispondenze somatiche con la ghiandola pineale e con la sommità della volta cranica.

La tradizione mistica indiana ritiene che ‘fissando’ lì la coscienza o staccandola del tutto da ogni sensazione somatica si finisca per percepire, intensificare ed attrarre le forze animiche dei piani ‘superiori’ dell’Essere, realizzando infine lo stato estatico.

I greci indicavano tale stato di ‘elevazione dello spirito’, ottenuto sostanzialmente con la sospensione del dialogo interno in cui gli uomini abitualmente sono immersi, con il terminetheorìa.

Con esso originariamente s’indicava appunto la contemplazione mistica e l’esperienza metafisica a cui si perveniva in virtù di un’aspirazione alla conoscenza svincolata dal puro opinare e grazie ed in conseguenza dell’arresto intenzionale dell’attività associativa della mente.

Anche per i greci arrestare la mente e porsi in una condizione di pura consapevolezza consente alla coscienza d’entrare nel domino metafisico.

Non è certo un caso che l’etimologia del termine greco sia posta dagli studiosi in correlazione con due termini: theà = cose divine ed il verbo orào che vuol dire ‘vedere’.

Il mistico, il contemplativo tacciono e non hanno dottrine perché ‘vedendo’ con l’occhio dello spirito ne capiscono l’inappropriatezza, l’inadeguatezza.

La ‘natura ‘della loro esperienza è ineffabile.

Anche nella tradizione sapienziale indiana al pensiero associativo si riconosce solo un valore strumentale tanto che è significativamente assimilato a quel bastone con cui si attizza un fuoco ma che, con l’atto dell’attizzare, viene esso stesso consumato oppure a quella barca che si è utilizzata per passare un fiume ma che sarebbe insensato portare sulle spalle una volta arrivato all’altra riva.

 Platone nella sua teoria dei gradi della conoscenza (La Repubblica, VII, 531c-534a) dirà con nettezza quello che già era implicito nel pensiero del suo Maestro e distinguerà l’attività discorsiva della mente da lui indicata col termine diànoia con cui si costruisce la scienza logico-matematica del mondo fenomenico da quella più elevata e intuitiva del mondo soprasensibile per cui userà il termine nòesis.

Insomma il pensiero logico-matematico è proprio della diànoia (la ‘mente) ma la conoscenza è frutto dell’atto intuitivo del puro noùs (la coscienza) perché solo attraverso di esso si giunge con la nòesis alle radici metafisiche del reale.

Per Socrate e per Platone la vera Conoscenza è solo quella che coglie il fondamento supersensibile della ‘Realtà’.

Nel termine diànoia la preposizione dià sta appunto a significare una conoscenza che avviene indirettamente ‘attraverso’ l’uso dei concetti e dei principi dell’associazione logica e non attraverso l’atto di un diretto ed immediato ‘vedere’.

La diànoia è per Platone quell’attività riflessiva di dialogo interno attraverso cui la coscienza umana tende a svincolarsi dal modo sensibile per giungere a quello delle pure forme. Egli afferma infatti nel Sofista: ”Il dialogo interiore dell’anima con se stessa senza intervento della voce è proprio ciò che da noi è stato denominato diànoia ” (263 e).

Insomma il pensiero attraverso il quale cogliamo indirettamente la presenza delle idee come forme archetipali nel mondo sensibile è proprio della diànoia (la ‘mente discorsiva’) ma la conoscenza diretta delle idee nel mondo che è loro proprio, cioè quello spirituale, è frutto dell’atto intuitivo del puro noùs (la coscienza intuitiva).

Se si vuole fare un paragone con le dottrine orientali si può dire che la distanza che c’è in Grecia (quantomeno nel lessico platonico) tra la diànoia e la nòesis è la stessa che c’è in India tra il grado di conoscenza che si può conseguire col manas e quello che si può conseguire con la buddhi.

A questo punto è evidente che se nella prospettiva mistico/iniziatica la mente associativa va trascesa vanno naturalmente trascese anche le dottrine che essa incessantemente e dialetticamente produce.

Il dubbio, è vero, può paralizzare, sconvolgere, turbare: questo è l’effetto che produce sull’uomo di fede, cioè su colui che si affida ad un credo in cui trova la sua ‘pace’, la sua tranquillità.

Ma l’uomo di fede per realizzare tale condizione deve mettere da parte la sua intelligenza, deve fingere con se stesso soffocando o negando le sue inevitabili incertezze, i suoi laceranti interrogativi.

L’uomo di fede per rimanere tale non deve confrontarsi con gli altri, deve evitare il dialogo o farlo solo strumentalmente, fittiziamente, senza cioè mai mettere realmente e sinceramente in discussione le sue convinzioni e – ciò che per lui è la stessa cosa – se stesso, giacché questo lo ‘destabilizzerebbe’.

L’uomo di fede, se vuole rimanere tale, deve rinnegare la sua natura ‘razionale’, la sua ‘curiosità’, la sua personale capacità d’indagine e di comprensione, la sua stessa dignità di essere pensante, deve reprimere la sua aspirazione alla libertà interiore.

E nel caso in cui all’uomo di fede non faccia difetto l’intelligenza si deve concludere che la radice del suo comportamento, del suo atteggiamento è solo la mancanza di coraggio che spesso solo parzialmente gli deve essere imputata perché può essere stato oggettivamente soverchiante il gravame dei convincimenti e condizionamenti a cui sin da piccolo è stato assoggettato.

Nel suo animo operano e sono prevalenti stati emotivi e vincoli, ancor più potenti se si annidano nell’inconscio.

Ci sono legami a cui l’uomo di fede non vuole o non sa sottrarsi, legami sia interni che esterni.

Il dubbio mette in crisi le sue certezze psicologiche e per questo diviene aggressivo se esse vengono poste in discussione.

Infatti non solo lo mette a disagio e persino lo angoscia la dialettica intima e tutta personale della ricerca, ma sono ostacoli duri alla sua indagine e all’esercizio della indipendenza di giudizio anche l’opinione pubblica, la credenza diffusa e tradizionale, il suo radicamento negli usi pubblici.

Il termine greco per indicare il dubbio, aporìa, ha in effetti (come il termine dubium latino) una valenza intellettuale ed una valenza emotiva: se nell’uso ‘dialettico’ esso infatti significa ‘questione’, ‘problema’, ‘difficoltà logica’, esso in realtà significa letteralmente ‘mancanza di una via di uscita’ (pòros = luogo di passaggio, guado, ponte) e pertanto è stato sempre utilizzato per indicare la condizione emotiva che ne consegue assumendo il significato di ‘sconforto’ e ‘angoscia’.

Di ciò era consapevole non solo Socrate ma anche il generico iniziato del mondo antico se è vero che, ad esempio, nella tradizione esoterica egiziana era raccomandato al saggio di non rivelare i segreti della scienza sacra se non a coloro che ne fossero degni, altrimenti, si diceva, il risultato della comunicazione sarebbe stato solo un turbamento non auspicabile dell’animo degli interlocutori.

 

Per gli stessi motivi il dèmone del resto ammonì Socrate a non interloquire con alcuni che pur lo desideravano e questo fu anche il caso, almeno per un certo periodo di tempo, di Alcibiade.

Pirrone

Pirrone

Ma il dubbio può avere per alcuni una funzione del tutto opposta, cioè positiva, può essere anche la ‘levatrice’ che fa ‘nascere l’anima’, che la porta progressivamente alla luce.

 In tal caso la sua corrosività ‘funziona’, cioè ‘opera’ solo nei riguardi delle dottrine religiose e metafisiche incapaci da sole di appagare veramente l’animo.

A conclusione di tutte le polemiche teologiche e controversie metafisiche il saggio non prova altro che un senso di deludente ed inconcludente sfinimento.

La dialettica spirituale animata dal dubbio è allora uno stimolo potente a conseguire la diretta esperienza della dimensione sacrale e può essere guida all’anima sino a farle cogliere – oltre ogni dottrina – la Verità nello splendore della sua evidenza.

In tale atteggiamento è da vedere l’inizio oltre che l’essenza stessa del percorso mistico.

La fede è ‘necessaria’ solo per chi non sa o non vuole avere l’esperienza diretta e personale del sacro.

Il mistico sente di avere una vocazione più ‘alta’ che spesso ha maturato proprio attraverso quel senso d’insoddisfazione che si prova quando le dottrine religiose e metafisiche escogitate dalla mente discorsiva dell’uomo cadono in contraddizioni insuperabili, lottano tra di loro per una pura affermazione ‘polemica’ (quando non scatenano veri e propri conflitti…) e non escono mai dal viluppo delle loro sterili sottigliezze, dalle rete delle proprie assurdità e intrinseche contraddizioni.

Il mistico, l’iniziato non vuole più ‘pensare’, vuole ‘vedere’, sperimentare e verificare in prima persona.

Ma quando ‘vede’ capisce quanto sia difficile, se non del tutto impossibile, parlare di quella Realtà transfisica usando i comuni strumenti della logica e del linguaggio.

Così il dubbio quando diviene ‘metodico’, ‘sistematico’ ma utilizzato sempre nella prospettiva di una incessante e sincera ricerca della verità può essere considerato come un positivo strumento di progresso conoscitivo non solo nel campo della scienza ma anche in quello della ricerca spirituale In tale ultimo caso è da considerare come il necessario preludio dell’esperienza mistica.

Pertanto se la scienza e la fede (in realtà ‘le fedi’…) sono in rapporto d’insanabile opposizione la scienza e l’esperienza spirituale non lo sono affatto.

Il dubbio che fa crescere la scienza è lo stesso dubbio che dalla fede religiosa può e deve condurre l’uomo alla filosofia della religione (che si serve del dubbio per trascenderne le forme storiche contingenti) e da questa alla diretta esperienza metafisica.

Il fatto che in occidente sia prevalsa storicamente una forma religiosa tutta ‘fideistica’, irrazionalistica e di struttura dogmatica ha finito per rendere irriducibili ed inconciliabili le due diverse ‘forme’ dello spirito, le due diverse vie di ricerca: quella tutta ‘umana’ della scienza che indaga criticamente la natura ‘materiale’ del mondo diffidando di ogni ‘esperienza’ metafisica e quella ‘religiosa’ che si affida ai dati di una qualche rivelazione.

L’opposizione in tal caso è netta ed insuperabile giacché la scienza si costruisce per così dire ‘dal basso’ attraverso indagini severe, attente osservazioni, rigorose procedure di calcolo e di controllo non accettando mai una ‘verità se non dopo il debito riscontro e le doverose verifiche, per altro verso invece la religione si fonda su affermazioni che non solo sono prive di riscontro e non verificabili ma che si presentano come un sapere ‘non umano’ e non passibile per ciò stesso di dubbio critico.

Il dubbio per la religione rivelata che chiede aprioristicamente l’assenso ai suoi ‘dati’ è di per sé ‘peccato’ e la libertà di ricerca (in greco àiresis) è di per sé colpa; anzi, in qualche modo, è la colpa per eccellenza in quanto propria di chi esercitando la sua ‘eresia’ osa mettere in discussione la Rivelazione, il Verbo stesso di Dio, cioè la Verità già compiuta, già pienamente espressa…

Ma queste sono solo aberrazioni. In realtà è del tutto conciliabile la ricerca ‘naturalistica’ con quella ‘metafisica’ se si realizzano due condizioni:

1) se la ricerca religiosa si dimostra capace di servirsi del dubbio per innalzarsi oltre la molteplicità contraddittoria e la irrazionalità delle affermazioni dogmatiche ed avviare così l’uomo alla libera ricerca del mondo spirituale (che per l’essere umano è sperimentato come il fondamento del suo stesso mondo interiore) senza vincoli di credenze aprioristiche e imposizioni di istituzioni ecclesiastiche ed in tal caso la ricerca ‘religiosa’ si collocherebbe sul piano più universale della ricerca filosofica ‘metafisica’;

2) se, corrispondentemente, la scienza (uscendo fuori dagli angusti limiti dello scientismo, del materialismo e del naturalismo in cui abitualmente si rinchiude) ammette – del tutto razionalmente – la possibilità della esistenza di una dimensione metafisica del Reale. In tale caso lo ‘scienziato’ cioè il razionalista in senso più ampio, potrebbe usare così il principio del dubbio e della validazione attraverso l’esperienza di ogni sapere per volgersi del tutto lucidamente e rigorosamente verso uno spazio conoscitivo diverso da quello puramente ‘sensibile’ usando per tale ricerca lo ‘strumento’ per eccellenza, cioè la sua stessa coscienza.

 Ma non solo Socrate e la tradizione misterica a cui egli si riconnetteva seppero elaborare tale approccio alla Verità, il mondo antico in genere fu pienamente consapevole della possibilità di un tale percorso interiore, cioè di un uso ‘positivo’ del dubbio in funzione del conseguimento dell’esperienza mistica sovrarazionale.

Valgano due esempi storici per corroborare tale opinione.

In occidente è il caso appunto dello scetticismo, quantomeno di quello originario di Pirrone ed in oriente un caso altrettanto esemplare è quello del buddismo. Scopriremo, tra l’altro una poco nota correlazione storica tra le due scuole di pensiero.

Pirrone di Elide è considerato il fondatore dello ‘scetticismo’ (dal greco sképsis = ricerca, dubbio), cioè di una scuola filosofica che ha riconosciuto nel dubbio non solo l’esito di ogni lucida ed onesta ricerca filosofica ma anche uno strumento concreto ed efficace per la realizzazione di una effettiva pacificazione interiore e della stessa felicità.

Per lui la ragione umana non è in grado di penetrare l’essenza del reale. Non è così un caso che tutte le testimonianze su di lui hanno ricollegato le sue concezioni ed il suo stile di vita con quelli indiani che conobbe direttamente per aver partecipato alla spedizione di Alessandro Magno (334-324).

Grazie ad essa, si racconta, conobbe i maestri di yoga che i greci chiamavano ‘gimnosofisti’, cioè i ‘saggi nudi’, ed i ‘maghi’ della Persia, riportandone le dottrine in occidente.

 Le fonti purtroppo poco ci dicono del suo pensiero ma ne sottolineano concordemente la imperturbabilità e la grande saggezza di vita.

Alcuni studi recenti hanno più precisamente e verosimilmente collegato il suo pensiero a quello buddista, altri al giainismo ed in particolare alla dottrina syadvada, già diffusa in India proprio intorno al 330, secondo la quale l’universo può essere considerato da molti punti di vista, mentre la realtà non è espressa compiutamente da nessuno di essi.

La dottrina del pluralismo degli aspetti dell’essere ha come corollario logico quella della relatività della conoscenza, per questo appunto essa è nota in India come syadvada, cioè la ‘dottrina della possibilità’.

In base ad essa sul piano mentale, logico, ogni cosa in circostanze, luoghi e tempi diversi può essere giudicata e vissuta in modi diversi.

Da qui il radicale ‘relativismo’ a cui è condannato chiunque fondi i propri giudizi su una base meramente empirica ed individuale.

In effetti il gianismo elaborò dottrine anche molto sottili concernenti le limitate possibilità della mente umana se operante nella dimensione puramente empirico-logica.

Secondo gli antichi testi canonici lo stesso fondatore di quella religione indiana, Vardhamana, detto il Jina (il ‘vincitore del male’) e Mahavira (il ‘grande eroe’), ogni volta che veniva interrogato sui problemi dottrinari non forniva una personale risposta univoca. Preferiva piuttosto esporre i diversi punti di vista con cui il problema proposto poteva essere esaminato e giudicato.

Tuttavia egli sottolineò la possibilità di una esperienza conoscitiva sempre più ampia e fondata, per così dire più ‘oggettiva’, per colui che acquisisse la capacità di vedere la Realtà con mezzi percettivi non ordinari superando i limiti della propria individualità ‘storica’.

Per questo nella tradizione giainista si distinguono cinque specie di conoscenza, di cui le ultime tre sono per loro natura trascendentali: la prima è quella ‘ordinaria’, costruita cioè sulla sola base di dirette e personali percezioni fisiche oltre che di concetti astratti; la seconda è quella che sa avvalersi anche di conoscenze ed esperienze altrui; la terza si acquisisce quando si è capaci di ‘penetrare’ il mondo ‘materiale’ attraverso una percezione soprasensibile; la quarta si consegue con la capacità di percepire direttamente pensieri e sentimenti altrui; infine la quinta, la sola ‘assoluta’ ed ‘integrale’ si consegue con la capacità di conoscere tutti gli aspetti e gli enti della realtà al di là delle limitazioni spaziali e temporali. Va però precisato che quest’ultima può essere conseguita solo dal saggio che ha superato ogni residuo ‘karmico’.

Quanta parte di tali dottrine Pirrone abbia potuto conoscere con il suo viaggio in oriente è difficile dirlo sulla base delle fonti tuttora disponibili. È indubbio tuttavia che egli abbia quantomeno posto in occidente le basi delle dottrine (che saranno poi sviluppate nei secoli successivi da Enesidemo e Sesto Empirico) della akatalepsìa (impossibilità di comprendere le cose), quella dell’epoché (sospensione di ogni giudizio teoretico), dellaafasia (silenzio), prassi e virtù attraverso le quali si può raggiungere l’atarassìa, ovvero quella serena imperturbabilità che è sicuro segno di vita ‘divina’.

Pirrone è convinto che l’uomo debba trascendere tutti gli attaccamenti e le passioni, anche quelli intellettuali, giacché l’insensato disputare senza fine tra gli uomini porta solo lotte e turbamento.

Ogni attaccamento, ogni desiderio può essere fonte di dolore.

Il saggio guarda con distacco quelle interminabili polemiche (letteralmente ‘guerre di parole’ giacché in greco pòlemos significa appunto ‘guerra’) in cui si scontrano senza alcun costrutto eserciti rivali di metafisici ‘speculativi’.

Quindi il suo atteggiamento più che ‘agnostico’ è in realtà ‘gnostico’ in quanto ammette la possibilità di una conoscenza del Reale pur se non conseguita con gli ordinari strumenti.

Ma per lui come per i pensatori indiani il ‘reale’ non è propriamente ciò che i sensi ci attestano quanto piuttosto la superiore dimensione del ‘divino’ che è inalterabile, imperitura.

Secondo la testimonianza di Sesto Empirico, infatti, Pirrone credeva che “vive eternamente una natura del divino e del bene” (Contro i matematici, XI, 20) per cui il saggio che coglie questa verità non può che desumerne un “retto canone”, cioè avere un atteggiamento di distacco da questo mondo e dalle varie opinioni su di esso con cui l’uomo ordinario inutilmente s’irretisce.

Insomma per Pirrone le nostre opinioni sul mondo del divenire sono inefficaci ed inutili perché ‘fluttuanti’ e ‘contraddittorie’ quanto quello.

Che la sua sapienza fosse considerata ‘sacra’ ed orientata al misticismo, lo attesta infine Diogene Laerzio il quale testimonia che il filosofo “fu così onorato dalla sua patria che lo crearono sommo sacerdote” (D. L., IX, 64).

In oriente lo stesso Buddha, invitò i suoi discepoli oltre che a controllare i propri desideri ‘materiali’ anche a ‘distruggere il dèmone della dialettica’, cioè quel desiderio più sottile che si manifesta nel legame, a volte ‘viscerale’, ‘passionale’, ad una qualsivoglia dottrina che rende l’uomo incapace di ‘vedere’ la natura vera delle cose.

Una mente ‘impura’, dominata ed ‘oscurata’ da una passione non può giungere all’Illuminazione.

La moralità che consiste appunto nella capacità di dominare le passioni è una condizione preliminare non solo comportamentale ma anche intellettuale per la realizzazione iniziatica, cioè per un accesso diretto al mondo spirituale.

Tale affrancamento intellettuale ed etico è quindi la condizione preliminare per avviarsi nel cammino del Risveglio.

A tal fine nei testi buddisti spesso viene riportata una serie di quesiti speculativi sia di natura cosmologica che antropologica a cui la mente umana col suo vacuo speculare non riesce a dare risposta.

 Il Buddha (che si considerava solo come uno dei tanti esseri che anche prima di lui avevano conseguito quello stato illuminativo) così ad esempio li espose in relazione al tema della individualità umana considerata in prospettiva ontologica: “Sono io mai esistito nelle epoche passate? O non sono mai esistito? Che cosa sono io stato nelle epoche passate? E in che modo sono io divenuto quel che allora sono stato? Esisterò nelle epoche future? E in che modo diverrò quel che sarò? Ed anche il presente riempie l’uomo di dubbi: Esisto io dunque? O non esisto? Che cosa sono io? E come sono io? Quest’essere qui, da dove è veramente venuto? E dove esso andrà? Questo si chiama vico delle opinioni, gola delle opinioni, spina delle opinioni, roveto delle opinioni, rete delle opinioni in cui cadendo l’inesperto figlio della terra non si libera dal nascere, dal decadere e dal morire” (Majjh., II, I, 14-15).

Bisogna per il Buddha cercare l’esperienza al di là di ogni semplice, infruttuoso opinare e su questo punto è sommamente esplicito: “ ‘Io sono’ è un’opinione. ‘Io sono questo’ è un’opinione. ‘Non sarò’ è un’opinione. ‘Continuerò ad esistere nei mondi della pura forma’ è un’opinione. ‘Continuerò ad esistere nei mondi liberi da forma’ è un’opinione. ‘Sopravviverò cosciente’ è un’opinione. ‘Sopravviverò incosciente’ è un’opinione. ‘Sopravviverò né cosciente né incosciente è un’opinione.

“L’opinione, o discepoli, è una malattia; l’opinione è un tumore; l’opinione è una piaga. Chi ha superato ogni opinione, o discepoli, è chiamato santo sapiente”(Majj., CXL, III, 350).

E quando al saggio indiano si chiedeva quale fosse la sua ‘dottrina’ e come rispondesse ai grandi interrogativi che l’uomo si pone sulla sua esistenza e su quella di Dio egli rispondeva categoricamente: “Opinione, dottrina: ciò è remoto da chi è Realizzato. Visione, c’è questa in chi è Realizzato” (Majjh., LXXVII, II, 205).

Come ha ben notato Julius Evola: “Buddha ha respinto ogni verità che, avendo per base il solo intelletto discorsivo - vitakka - non può, appunto che avere valore di ‘opinione’, di ‘doxa’. È dai ‘ragionatori e discutitori’ che si prende la distanza, perché costoro ‘possono ragionare bene e ragionare male, possono dire così e possono dire altrimenti’, trattandosi di teorie, che sono semplicemente loro escogitazioni. E l’àfele panta (il precetto greco che significa: togli via tutto) dell’ascesi buddista non ha nemmeno il senso di un sacrificium intellectus, cioè di un voler porre da parte l’intelligenza a favore della fede, come in certa mistica cristiana. È piuttosto una catarsi preliminare, un opus purgationis giustificatesi in vista di un superiore tipo o criterio di certezza, quello che si radica in una effettiva conoscenza, assimilata analogicamente – come nella prima tradizione vedica – ad un vedere. E’ dunque un criterio di esperienza diretta” (La dottrina del risveglio, Milano, 1973, p. 55).

Per tali ragioni il buddismo più che una dottrina ed una fede è una prassi e come tale si presenta in quanto la via alla Realizzazione della ‘buddhità’ è indicata come l’Ottuplice Nobile Sentiero che l’aspirante deve personalmente percorrere tappa per tappa.

È così possibile fare un uso ‘iniziatico’ del dubbio.

Il dubbio, l’esercizio del dubbio, porta progressivamente alla consapevolezza che esistono diversi punti di vista, diversi ‘paradigmi’, sul Mondo e sulla Realtà e che ogni dottrina può essere confutata attraverso ipotesi alternative altrettanto plausibili.

 Si pensi alle sterminate quanto inconcludenti controversie teologiche che sono avvenute nel contesto religioso sia occidentale che orientale…

A conclusione di tale percorso si comprende che lo sforzo stesso di ‘razionalizzazione’ del Reale cioè di comprendere attraverso gli umili strumenti della mente l’infinità complessità del Tutto, è di per sé inutile.

Ma tale ‘crisi’ deve avere uno sbocco positivo, deve aprire il varco ad una nuova possibilità conoscitiva.

Per usare la terminologia della tradizione indiana si può dire che proprio attraverso tale maturata consapevolezza avviene nel ricercatore spirituale il passaggio dal manas alla buddhi, cioè dalla mente discorsiva, legata al piano della sensibilità, alla coscienza intuitiva, connessa al piano metafisico.

Ciò avviene orientando lo slancio conoscitivo oltre la mente, coltivando una consapevolezza senza pensieri ed educandosi ad uno sguardo lucido e penetrante sul Mondo che non si sostenga e si alimenti attraverso il flusso associativo ed automatico del pensiero discorsivo.

Si comprende così, proprio in tale ottica, la funzione ‘maieutica’, ‘catartica’ del dubbio nella prassi filosofica socratica. Esso costituisce il metodo che utilizzò personalmente per avanzare nella vita spirituale e per avviare gli altri nello stesso cammino.

Per lui il dubbio era quello stimolo al dialogo che non solo consentiva agli uomini di condividere e costruire quelle verità ‘umane’ attraverso cui realizzare la pace e la giustizia nella polis ma anche quell’impulso al perfezionamento della Conoscenza che deve condurre oltre gli stessi orizzonti del mondo umano.

Ed è tale seconda funzione, quella che avvia alla esperienza metafisica oltre i processi associativi della mente, che sarà colta e valorizzata da Platone.

Questi tuttavia, al contrario del suo Maestro, non sfuggì del tutto, com’è noto, alla tentazione di costruire un ‘sistema’ metafisico servendosi appunto della logica ‘discorsiva ma ciò facendo cadde (com’era ‘logico’!) in molte contraddizioni che colse probabilmente solo alla fine della vita allorché riservò solo a pochi ‘iniziati’ il suo corso sul Bene e definì la Conoscenza come uno stato d’illuminazione intuitiva.

BREVI CONSIDERAZIONI FINALI

 

Quanto esposto potrebbe guidarci a delle sintetiche riflessioni.

 Progredire intellettualmente, culturalmente e spiritualmente significa acquisire la capacità di assumere criticamente altri punti di vista rispetto al proprio, nel tentativo di ampliare sempre più le conoscenze e le prospettive di giudizio.

Ciò si può realizzare attraverso lo studio (evidentemente non fine a se stesso), il dialogo, il confronto, la riflessione.

L’ ‘ego’ con tale prassi si svincola progressivamente da quelle determinazioni con cui e da cui è stato costruito ‘storicamente’.

Ma è facile comprendere come questo sia un processo evolutivo ‘ad infinitum’, un compito irrealizzabile integralmente nello spazio-tempo in cui si svolge la ‘vita terrena’ di un individuo.

Siamo perfettamente coscienti, noi esseri umani, che i nostri limiti coincidono, alla radice, con gli stessi limiti delle nostre capacità percettive poiché i cinque sensi ci danno del mondo una visione molto parziale.

Corrispondentemente le forme ‘logiche’ attraverso cui opera la nostra coscienza, intimamente connessa e strutturata da quel modo di percezione, ne sono fortemente condizionate.

Tuttavia nella tradizione mistico/iniziatica, come si è visto, è stato sempre affermato che già da ‘questa ‘vita’ l’uomo può cominciare ad avere una qualche esperienza di altre dimensioni del reale e di altre modalità conoscitive se segue un percorso più diretto di quello empirico e logico.

Attraverso le potenzialità della propria ‘anima’ l’uomo può intuire il mondo in modo diverso, più ampio e profondo.

Sviluppando l’intuizione ‘noetica’ egli può ‘penetrare’ (intus-ire= andare dentro; oppure secondo un’altra etimologia in-tueri = guardare dentro) direttamente la realtà nelle sue dimensioni transfisiche e vederla da altri punti di vista, anche ‘non umani’.

La conoscenza mistico/iniziatica non solo completa quella empirico-logica ma la supera e la trascende perché essa è ‘conoscenza unitiva’, una conoscenza tendente a superare la ‘naturale’ barriera tra soggetto e oggetto.

L’iniziato ‘conosce’ una cosa perché ‘diviene’ la cosa e la sente come parte di sé, cioè di quel Sé che in tutte le tradizioni metafisiche sia orientali che occidentali non è altro che l’Uno di cui tutte le cose sono solo luminose ed effimere manifestazioni.