I Misteri Dionisiaci

 

di Attilio Quattrocchi

LE ORIGINI DEL DIO – LA DIFFUSIONE DEL CULTO – IL MITO

 

dioniso

Dioniso

Dioniso era considerato dai greci un dio di origine straniera; per lo più si riteneva il suo culto proveniente dalla Tracia, regione sita a nord-est dell’Ellade, dove era venerato col nome diSabazio.

 Anche la presenza del suo nome in antichissimi documenti risalenti alla civiltà micenea, sorta nell’Argolide e fiorita nel II millennio a.C., non può far escludere quella provenienza.

Già Omero lo nomina ma non l’inserisce nel pantheon dei grandi dèi olimpici; in effetti il tipo di religiosità estatico-orgiastica che lo caratterizza risulta sostanzialmente estraneo alla concezione religiosa del grande poeta e alla cultura che attraverso lui s’esprimeva.

Secondo diversi studiosi il suo nome significherebbe ‘figlio di Dio’ (Divòs-Nysos) e lo stesso nome mitico della madre, Semele, indicherebbe la Terra Madre secondo un etimo tracio, conservato nel termine slavo zemlja.

 Una delle ipotesi più accreditate vuole che il suo culto, attraverso la Macedonia, sia passato in Beozia, a Tebe. Questa venne sempre considerata, in effetti, la città a lui sacra per eccellenza; alcuni mitografi ve lo fecero persino nascere, ma, al di là delle leggende, è certo storicamente che proprio sul vicino monte Parnaso erano tradizionali i riti delle seguaci del dio, le ‘baccanti’, chiamate anche ‘tiadi’ o ‘menadi’.

Queste erano famose perché celebravano il culto con atteggiamenti ‘frenetici’; in effetti il termine thyàs, thyàdos deriva appunto dal verbo thyein che significa ‘agitarsi’, ‘ infuriarsi’.

Altre regioni in cui il culto dionisiaco si radicò furono la Lidia e la Frigia, nell’Asia Minore. In effetti i Frigi erano stirpe di origine tracia e quanto ai vicini Lidi sembra che proprio essi lo chiamarono Bákchos.

Forse proprio dall’Asia Minore i coloni greci della Ionia lo introdussero nell’Ellade continentale come dio della vegetazione e soprattutto del vino, la bevanda che dà l’ebbrezza, cioè uno stato euforico, di esaltazione e ‘rapimento’.

Dioniso ‘fecondò’ la Grecia con il favorire in quel popolo l’emergere degli impulsi emotivi ma il genio ellenico dimostrò tutta la sua grandezza proprio nel cercarne, nel contempo, la ‘sublimazione’.

Per elevare l’impulso emotivo a chiara vita dello spirito l’Ellade seguì una duplice via: quella filosofico-religiosa e quella artistico-espressiva.

Religiosamente le energie emozionali venivano volte verso la conoscenza religiosa, il seguace di Bacco si proponeva ‘misticamente’ di divenire una sola cosa con il suo dio poiché amandolo ed invocandolo si ‘fondeva’ con Lui. In uno stato di beatitudine supremo diveniva egli stesso Dioniso così come due amanti che quando si fondono nell’estasi d’Amore non sono più due ma un solo Essere.

Fattosi ‘dio’ l’iniziato assumeva la condizione di veggenza, felicità, immortalità propria degli dèi, usciva sostanzialmente dalla sua condizione ‘umana’ già dalla vita terrena.

L’esperienza mistica era così intrinsecamente connessa all’idea ‘filosofica’ di una Unità Sostanziale di tutte le singole forme, di una Forza di Vita che tutte le produce e dissolve, di un Significato Supremo dell’Essere che si può cogliere solo portandosi oltre la propria individualità ed oltre ogni riflessione dialettica.

Per questo l’Uno-Tutto, è l’Indicibile, cioè è il Mistero.

 

Infanzia Dioniso

Infanzia “miracolosa” di Dioniso (Musei Capitolini – Roma)

Ma Dioniso riuscì in Grecia anche a stimolare ‘profanamente’ (in quella civiltà antica la distinzione ‘moderna’ tra sacro e profano non aveva un significato ‘sostanziale’ ma solo ‘ formale’) la sublimazione delle passioni anche nell’Arte: ne vennero stimolate la letteratura, le arti figurative, la musica. Si pensi in particolar modo alla ‘tragedia’, cioè a quel genere di espressione letteraria attraverso cui si narrano vicende con esiti gravi e luttuosi atti a suscitare pietà e catarsi nello spettatore: il termine stesso rimanda alla narrazione ed al compianto per la uccisione di Dioniso ad opera dei malvagi Titani. Infatti il vocabolo grecotragoidìa era composto da trάgos (che significa ‘caprone’) e oidé, (‘canto’) proprio in riferimento al lamento funebre rituale con cui i seguaci ricordavano la morte di Dioniso, il cui simbolo ‘zoologico’ tradizionale era quell’animale.

 

Già in Tracia alcune caratteristiche del culto dionisiaco erano fissate, come quella dell’invocazione del dio a gran voce che in quella terra avveniva soprattutto sul sacro monte Nisa ove i celebranti lanciavano il loro grido di preghiera affinché il Nume si manifestasse: “Evoè” (in greco euòi, in latino euòe/euhòe).

 Riferisce lo scoliaste di Aristofane: “…Dioniso e Sabazio sono la stessa divinità; questo secondo appellativo deriva dal divino entusiasmo proprio di questo dio. Poiché i barbari (i Traci) esprimono con il verbo ‘sebàzein’ il gridare evoè. E taluni dei greci, seguendo questo costume, chiamano ‘sebasmo’ il grido evoistico” (Scol. Arstoph., Aves, 874-[8]).

Già in Tracia il culto assunse caratteri ‘misterici’ giacché si riteneva che solo attraverso una particolare iniziazione i seguaci di Sabazio potessero ‘identificarsi’ (cioè, letteralmente, ‘farsi una sola cosa’) col dio.

Il desiderio magico/mistico/religioso di ‘incorporare’ il dio si esprimeva attraverso la ‘omofagìa’, cioè attraverso il cibarsi della carne cruda di un capretto (Dioniso stesso). Il termine greco omophaghìa è infatti composto dall’aggettivo omòs, che significa ‘crudo’ e –phaghìa, da phaghein che significa ‘mangiare’.

Mangiare ritualmente il corpo del dio e berne il sangue erano i ‘simboli’ della volontà di identificazione.

Ma solo con l’iniziazione quell’atto ‘ferino’ poteva diventare ‘rito’, cioè atto con cui si propizia e si attua l’esperienza del ’sacro’.

Introdotto dal Nord in Grecia in un’epoca molto antica e quindi pressoché impossibile da documentare, il dio irradiò la sua potenza evocatrice, il suo divino ‘fervore’ dai più importanti centri politico-religiosi: da Tebe a Delfi nella parte settentrionale, ad Atene, nell’Attica, e a Creta nell’Egeo.

Ne conseguì un fiorire di leggende tale per cui già nel mondo antico si faticò non poco a individuarne un filo unico che collegasse le varianti mitologiche di volta in volta elaborate nei più diversi contesti.

Coloro che sin dall’antichità ne collegarono la figura al ciclo naturale (i ‘fisiologi’) lo interpretarono come personificazione della Natura, la cui forza selvaggia crea e distrugge per poi di nuovo creare in una vicenda ciclica perenne. Altri, seguendo una interpretazione di tipo ‘evemerista’ videro in lui nient’altro che una figura storica remota, probabilmente venuta dall’India, divinizzata col passar del tempo dalla memoria popolare.

Comunque sia, nel mito Dioniso era considerato o figlio di Zeus e Semele o figlio del re dell’ Olimpo e Persefone/Core e quindi proprio per questo inventore dell’agricoltura.

Semele e i suoi figli

Semele presenta a Zeus i due figli: Bacco e Zagreo

Nella prima versione, la più nota, la madre era essa stessa un essere umano, in particolare Semele era figlia di Armonia e Cadmo, re di Tebe.

 Semele, istigata da Era, la moglie legittima di Giove, chiese all’amante presentatosi in spoglie umane, il suo vero aspetto divino ma ne rimase fulminata; essendo tuttavia riuscita a partorire Dioniso, il piccolo venne salvato dal Padre che lo cucì in una sua coscia. Di lì a poco il piccolo ‘rinacque’, ebbe la sua seconda nascita; per questo veniva appellato ‘il nato due volte’.

Si raccontava che quando Era, la moglie legittima di Giove, venne a sapere del tradimento del coniuge, istigò i malvagi Titani ad uccidere il fanciullo dilaniandone le carni per poi divorarle. Zeus li punì fulminandoli ma dalle loro ceneri nacquero gli uomini: è per questo che essi ancora in tempi storici hanno una duplice e contrastante tendenza sia al bene che al male. Infatti i Titani stessi, avendo ‘incorporato’ Dioniso col loro orribile pasto finirono col trasmettere all’uomo qualcosa di ‘divino’.

Nell’altra versione del mito, quella in cui lo si fa nascere da Persefone egli è appellato come Zagreus e si racconta come i resti rimasti dopo il pasto titanico vennero ricomposti da Rea in una tomba di Delfi, sino a che il Padre Dio (Deus non è altri che Zeus – Divòs) lo resuscitò (è la sua terza nascita’) e lo fece ascendere al Cielo dandogli poi il suo Regno.

Proprio a Delfi, il più sacro luogo della Grecia, antiche tradizioni riferivano che prima vi giungesse Apollo la Pizia profetizzava incorporando Dioniso (Schol. Pind. , Arg. Pyth., 297); Pausania ci riferisce che la sua tomba era collocata infatti proprio all’interno del celebre tempio (Plut., De Iside, 35).

Il grande studioso Erwin Rodhe ha ipotizzato che pur essendo stato scalzato da Apollo, il fatto che la Pizia profetasse per ‘invasamento’ debba essere interpretato come un ‘residuo’ dell’antica forma oracolare dionisiaca. Infatti la mantica apollinea era tradizionalmente basata sulla interpretazione sacerdotale dei ‘segni’, cioè di eventi naturali o artificiali (cioè indotti intenzionalmente dall’uomo secondo varie ‘tecniche’) con cui si potevano dedurre le ‘intenzioni’ degli dei (Cfr. Rohde, Psiche, II, 292-293).

Nell’Attica le feste più famose dedicate a Dioniso erano le Piccole Dionisie e le Grandi Dionisie che si celebravano con la presenza di simboli fallici allusivi alla Forza generativa della Natura; Inoltre al culto erano collegate pratiche ‘ierogamiche’ con cui si intendeva ‘stimolare’ magicamente la fecondità della Terra. Del resto una tradizione analoga era presente nella stessa tradizione eleusina.

 

L’ORGIA, L’ESTASI, LA VISIONE: LE TESTIMONIANZE

 

Menade danzante

Menade danzante

 

Il culto di Dioniso aveva la sua espressione culminante nelle ‘orgie’, cioè nelle feste notturne celebrate quasi esclusivamente da donne dette Menadi (Μαινάδες), Tiadi(Θυιάδες), Baccanti (Βάκχαι), Lene (Ληναι) o Bassaridi (Βασσαρίδες), che si slanciavano in preda ad una ebbrezza sfrenata su per i monti boscosi (oreibasìa-ορειβασία), abbandonandosi a danze selvagge al suono di flauti, tamburi, e timpani divenendo capaci, nell’espressione della loro follia rabbiosa, di compiere violenze estreme sugli animali e persino su uomini.

 In tale stato di completa isteria (il termine significa ‘la malattia delle donne’ in quantohystéra significa ‘utero’) esse solevano praticare lo sbranamento, sparagmòs (σπα ραγμός), di un animale per poi mangiarne crude le carni, omofaghìa (ωμοφ αγία). Venivano chiamate ‘bassaridi’ perché si vestivano con pelli di volpe (βασσάρα); ‘nebridi’ perché spesso usavano anche pelli di capriolo (νεβρός); a volte si ponevano sul capo delle corna per imitare l’aspetto taurino o di caprone con cui il dio spesso si manifestava.

Scuotevano i loro capelli agitando selvaggiamente la testa ed erano capaci di tenere in mano dei serpenti; brandivano pugnali o impugnavano tirsi (θύρσοι) cinti d’edera e di pampini sormontati spesso da una pigna, chiamati anche ‘narteci’ (νάρθηξ), cioè ferule, canne, verghe (la ferula era usata nell’antichità greco-romana come simbolo della dignità e del potere sacerdotale; com’è noto nel medioevo il termine indicherà il bastone pastorale del vescovo cristiano; la ferula letteralmente per i romani designava la ‘canna d’India’ che era considerata come una pianta ‘straniera’; per inciso ricordiamo che una versione molto diffusa del mito raccontava che Bacco stesso fosse venuto dall’India).

Riti bacchici Pompei

Scena della villa dei misteri di Pompei raffigurante un rito bacchico

La menade ed il satiro che battono al suolo il tirso e lo scuotono sembrano alludere all’asse cerebro-spinale dell’uomo e alle sollecitazioni che si devono dare all’energia psichica che dal Basso (la Terra – il Corpo) che deve ascendere ‘serpentinamente’ (l’edera o i pampini avviticchiati a spirale) verso l’Alto (il Cielo – lo Spirito).

 Qui è collocata la pigna, la cui struttura lobata ricorda il cervello, al cui interno per di più c’è la ghiandola, l’epifisi, che ne ripete la forma e per questo appellata come ‘pineale’ (dal latino pinea).

Tale ruolo ‘esoterico’ della ghiandola pineale, considerata come il luogo ‘fisico’ in cui lo ‘spirito’ (inteso come consapevolezza) si connette al corpo, è noto anche all’antico esoterismo indù che vi riferisce il terzo occhio del ‘corpo sottile’ (l’ajna chakra).

Sempre riferendosi alla fisiologia mistica dell’India (la terra, si ricordi da cui Bacco venne in Grecia) si può notare come il chakra più elevato, corrispondente alla sommità della volta cranica, il sahasrara, venga da sempre raffigurato come un fiore di loto ‘dai mille petali’ che si apre alla Grazia del Dio nel punto esatto della ‘fontanella’ (chiamata per questo la fontanella di Brahma).

Tale raffigurazione suggerisce anch’essa la forma della pigna.

analogia cadduceo sette chakra

L’analogia tra il Caduceo e i sette Chakra della tradizione esoterica indiana

 

In realtà l’intera struttura del corpo sottile in India ripete la forma del caduceo, perché consta di un canale centrale di energie sito in corrispondenza dell’asse cerebro-spinale, noto come sushumna, e di due correnti laterali note come ida e pingala. Queste, partendo dal basso (dall’osso ‘sacro’, a cui corrisponde simbolicamente l’elemento ‘terra’), si avvolgono ad esso a spirale, come serpenti, congiungendosi all’altezza del terzo occhio.

 La forza mistica che parte dal basso per poi sublimarsi è nota come kundalini ed è raffigurata come un serpente raggomitolato attorno ad un phallus.

Kundalini è in una condizione ‘dormiente’ ma è pronta a destarsi con le opportune pratiche occulte.

Si ricordi che nella raffigurazione degli stessi faraoni egiziani era presente un simbolico serpente che usciva dalla loro fronte, proprio all’altezza della ghiandola pineale e ne raffigurava il potere sacrale.

Com’è noto, il filosofo Cartesio in epoca moderna (non senza subire, forse, influenze rosicruciane) considerò la ghiandola pineale il luogo d’incontro tra la coscienza (res cogitans) e il corpo materiale (res extensa).

 

Sempre sul piano delle rappresentazioni di valore ‘mistico’ il tirso si può collegare ad un altro ‘augusto’ simbolo, quello del caduceo (karykeion in greco e caduceus in latino).

 

Il tirso è strutturalmente identico al caduceo, cioè a quel bastone con due serpenti attorcigliati che fu emblema dell’egiziano Thoth (o Theut), identificato dai greci con Ermete (e da loro appellato Trismegisto) oltre che dai Latini con Mercurio.

 

Il caduceo nella parte alta presentava due piccole ali sia a sottolinearne il significato ‘ascensivo’, cioè la valenza metafisica, sia ad indicare la corrispondente prassi iniziatica.

 Un bastone con un serpente attorcigliato è anche simbolo antico di Esculapio (Asclepio per i Latini) il dio della medicina che guariva i corpi ristabilendo miracolosamente le energie della psiche che li sostengono.

Il caduceo è, dunque, simbolo antichissimo della struttura ‘sottile’ del corpo umano al cui interno si muovono le energie dell’anima, ed è presente persino nella civiltà mesopotamica.

L’India, la Mesopotamia, l’Egitto, la Grecia, Roma, con quel simbolo comune alludevano ad una sapienza mistica, cioè iniziatica, universale.

A volte le baccanti erano appellate ‘lene’ giacché Bacco era appellato Leneus, termine derivato da lenos, cioè dal ‘torchio’ utilizzato per spremere il vino dall’uva e Lenee erano anche chiamate le feste in Atene in onore di Dioniso.

Il loro stato di agitazione le faceva chiamare anche ‘Tiadi’ (da thyo = scuotersi, infuriarsi) e lo stesso significato aveva l’altro termine ‘Menadi’ poiché derivava dal verbo màinomai= essere pieno di ardore, di fervore, smaniare (il termine italiano ‘smania’ deriva appunto dal verbo tardo latino exmaniare con cui originariamente si indicava propriamente il comportamento di chi veniva colto da manìa).

Il carattere orgiastico del culto giunto dalla Tracia ne rese difficile e contrastata la diffusione in Grecia e non solo: nella stessa Roma, com’è noto, il senato dovette ricorrere a provvedimenti molto drastici contro gli eccessi dei Baccanali.

Di tale situazione creatasi nell’Ellade rimane traccia nella tradizione mitica la quale narrava diversi episodi da cui si poteva evincere che il dio non poteva e non doveva essere contrastato da esseri umani.

Così si raccontava come fossero impazzite le Miniadi, le tre figlie del re Mynias di Orcomeno, al punto tale che una di esse (seguita di lì a poco dalle sorelle) di nome Leucippe, per essersi opposta al dio, impazzì tanto da nutrirsi del suo stesso figlio; altrettanto accadde alle tre figlie di Preto, re di Tirinto, le Pretidi che avendo rifiutato di partecipare al culto impazzirono indulgendo in una libidine sfrenata finché il veggente Melampo non le purificò; il re di Tebe Penteo, a sua volta, per gli stessi motivi, venne ucciso dalla madre Agave uscita di senno; Licurgo, re degli Edoni di Tracia, avendo ucciso le nutrici di Dioniso, invasato uccise anch’egli suo figlio; ed in fine Orfeo stesso che non celebrò più il culto dopo la definitiva separazione dall’amata Euridice, che aveva tentato di strappare agli Inferi, venne dilaniato dalle baccanti.

Secondo Porfirio (De abs. 2, 55) e Plutarco (Them. 13) nella fase più antica del culto tracio si praticava anche il sacrificio e l’omofagia non solo di animali simboleggianti il dio, quali capretti, cerbiatti, tori ma anche di esseri umani.

La schiera sacra celebrante il rito era indicata col termine thiasos (θίασος) connesso al verbo thiasèuo (θιασεύω) che significava appunto ‘far entrare attraverso il rito la ‘forza’ del dio nell’iniziato’.

Il cristianesimo userà il verbo per indicare analogamente la ‘santificazione’ ottenuta con i propri riti ‘sacramentali’ (cioè capaci di trasmettere la ‘forza sacra’) ed il termine thiasòtesche indicava originariamente ogni membro della sacra schiera di Bacco (e, più estensivamente, anche ogni ‘adoratore’ di una qualche divinità) per indicare i seguaci del Cristo.

Del rito iniziatico bacchico in sé abbiamo poche notizie: sembra che l’adepto venisse spalmato di crusca ed argilla per poi essere pulito dall’acqua. A questa purificazione di chiaro significato simbolico seguiva la lettura di alcune formule a cui si doveva rispondere; poi gli venivano mostrati degli oggetti sacri in un cesto ed un serpente d’oro (si ricordi che le stesse menadi si diceva che impugnassero senza esserne offese i più velenosi serpenti). Infine lo stesso serpente d’oro veniva fatto passare sotto la veste dell’iniziato, introducendolo dal collo (dià kόlpou) e facendolo uscire dal lembo inferiore (testimonianze in Clemente Alessandrino: Protr. 2, 16, 2. [23]; Arnobio, 5, 21, 24; Firmico Materno, De errore prof. rel., 10 – [25]).

Se si tiene presente il simbolismo antico per il quale la veste era ‘immagine’ del corpo nella sua relazione con l’anima, (Porfirio, ad esempio, dice: “E certamente per l’anima il corpo da cui è vestita è una tunica” (Sull’antro delle Ninfe, 14) e anche nel cristianesimo si parla del corpo come della “nostra veste di carne”) si può facilmente intuire come il far passare una serpe (animale tellurico simbolo di forze oscure e correlato al phallus) però d’oro (metallo simbolo dello spirito in tutte le culture antiche) sotto la veste potesse significare né più né meno quello che gli indiani dicevano di fare nelle loro iniziazioni attraverso la serpe raggomitolata (Kundalini).

Nell’esoterismo indù questa ‘dea’, sita nel chakra corrispondente ‘fisicamente’ agli organi sessuali, deve essere ‘padroneggiata’. Dopo averla percepita e ‘suscitata’ la si deve far ascendere e discendere nel corpo dell’iniziato per consentire la purificazione delle energie vitali.

 

Queste, infatti, solo se sublimate in forze spirituali, danno accesso a mondi superiori…

 

Il Serpente, se dominato, diventa d’Oro.

 

L’iniziato padroneggia il Serpente che non è più per lui ‘mortifero’, anzi nel suo sacro entusiasmo vede finalmente il dio…

 

Del resto allo stesso simbolismo sembra doversi riferire, come si è visto, il tirso avviticchiato di pampini e d’edera con la pigna in alto…

 

Dioniso ingiunge alle menadi sfrenate di rimanere caste…

 

Così Felice Masi descrive il corteo dionisiaco mettendone in evidenza le ascendenze sciamaniche: “Si comincia con un corteo di esseri fantastici che avanzano al ritmo di una danza frenetica. Il mondo di questo dio (cioè l’esperienza che si vuole raccontare con questo mito), la “compagnia” di questo dio non è dunque il mondo umano, ordinato e quotidiano, conosciuto e rassicurante; è invece un mondo diverso, fatto di accadimenti fantastici, che sorgono da un’altra dimensione della vita o dell’anime e che si ottengono attraverso ritmi, danze, agitazione e scuotimenti frenetici della testa e del corpo e che fanno perdere i sensi. A ben vedere, sono proprio i mezzi e le tecniche – il rituale – usati da chi ricerca uno stato di coscienza diverso, e in particolare dallo sciamano, per conseguire la trance estatica e per accedere al mondo e al piano della visione e degli Esseri inumani e fantastici in cui si entra con tale trance. I timpani percossi, il suono delle siringhe, il muoversi saltellando altro non è che la rappresentazione di queste tecniche e della cerimonia sciamanica, e stanno lì a dimostrare che i popoli dove questo mito è nato conoscevano la trance sciamanica e le relative tecniche e cerimoniali di accesso” (F. Masi, “Sciamanesimo ed estasi nell’esperienza e nel mito”, da La ricerca psichica, anno IX, 2002, n. 4).

 

Naturalmente al centro del rito c’era la invocazione al dio perché manifestasse in quel luogo e in quel momento la sua invisibile presenza. Sofocle, nell’Antigone, così ce ne riporta una formula:

 

“O tu che guidi il coro
delle stelle spiranti fuoco, guardiano
delle parole notturne,
fanciullo, progenie di Zeus, manifèstati,
o Signore, assieme alle tiadi che ti seguono,
che per tutta la notte colme di manìa
danzando celebrano te, Iacco, dispensatore di doni”
(Sofocle, Antig., 1146-1152, trad. aut.; Colli, I, p.55)

 

Ma quando, infine, Dioniso scende tra gli umani, con la sua presenza consente alle menadi di avere visioni sublimi di mondi felici e di compiere miracoli:

 

“E prendendo il tirso, una baccante percuote una roccia,
onde sgorga una rugiadosa fonte d’acqua;
un’altra batte la terra con la ferula,
e per lei il dio manda fuori una sorgente di vino;
quelle poi colte dal desiderio della bianca bevanda
con la punta delle dita sfioravano il terreno
e avevano ruscelli di latte: ma dai tirsi d’edera
gocciavano dolci rivi di miele”.
(Eschilo, Baccanti, 704-711; Colli, I, p.59)

 

Era considerato proprio felice chi, uscendo dai limiti ordinari della sua coscienza attraverso le iniziazioni, s’immergeva nelle Forze della Vita di cui Dioniso è simbolo:

 

“Beato colui che ha un buon demone
e conoscendo le iniziazioni degli dèi
vive santamente e
conduce la sua anima nel tiaso
celebrando sui monti i riti bacchici
con sante purificazioni
[...]
e incoronato d’edera
onora Dioniso”.
(Euripide, Baccanti, 72-77, 81-82; trad. aut.; Colli, I, 59-61)

 

Nello stato della sacra manìa, quando il dio entra con tutta la sua potenza nei corpi si è capaci persino di prevedere il futuro:

 

“Invero questo dio è un profeta; infatti tutto ciò che è legato a Bacco
ed alla manìa induce una grande capacità mantica;
infatti quando il dio entra possente nel corpo
fa dire il futuro a coloro che s’esaltano”.
(Euripide, Baccanti, 297-301; tr. aut.; Colli, I, 61)

 

E al re Pentèo che, nell’opera euripidea, chiede al dio il modo di svolgersi delle sue orge (letteralmente: la loro ‘idea’, cioè ‘forma’), egli stesso risponde perentoriamente che nella loro essenza esse sono ‘indicibili’ (àrreta) e ciò va inteso nel duplice senso per cui non solo dovevano rimanere segrete ma che per la loro stessa natura si ponevano al di là di ogni possibilità descrittiva. Si poteva ‘profanare’ il segreto raccontandone l’aspetto ‘esteriore’, le ‘modalità rituali’ ma l’essenza del rito (come per quello eleusino) era tutta interiore, nello stato di coscienza che induceva:

 

“Ai non iniziati a Bacco (le orge) non devono essere divulgate”.
(Euripide, Baccanti, 472; Colli, I, 61)

 

Nell’opera euripidea lo stesso Pentèo dimostra di seguire l’opinione comune che vedeva le baccanti come donne semplicemente travolte da una sfrenata libidine:

 

“…… si appiattano una per una nei luoghi
solitari e assecondano le voglie dei maschi,
con il pretesto che si tratta di menadi sacrificanti,
mentre esse antepongono Afrodite a Bacco”
(Euripide, Baccanti, 222-225; Colli, I, 63)

 

A tale opinione si oppone, però, la testimonianza di un messaggero il quale racconta di essere scampato alla morte per aver tentato di violare la castità di una menade che nel momento del rito non deve soggiacere al desiderio sessuale:

 

“E io balzai fuori, volendo afferrarla e prenderla con me
e abbandonai il cespuglio dove avevo nascosto il mio corpo.
Ma quella urlò: O mie cagne frenetiche,
siamo cacciate da questi uomini; ora seguitemi,
seguitemi armate dei tirsi che stringete nelle mani.
Noi allora con la fuga scampammo allo sbranamento
delle baccanti…”
(Euripide, Baccanti, 729-735; Colli, I, 65)

 

L’entusiasmo degli iniziati deve essere spinto sino a che non si ‘veda’ il dio evocato. Così ci dice Filone:

 

“…come i posseduti dalla frenesia bacchica e coribantica giungono nell’estasi sino a vedere l’oggetto bramato.”
(Sulla vita contemplativa, 12)

 

La visone mistica è visione per identità, per cui l’iniziato diventa lui stesso Dioniso, ne è ‘invasato’; il termine greco per tale condizione è kátochos (κάτοχος) il cui significato letterale (da katà = in basso e écho = ho) si può rendere come ‘trattenuto verso il basso’, tenuto saldamente (con chiaro riferimento alla lotta), posseduto.

Si riteneva che quando infatti una forza veniva evocata con intensità di sentimento e chiara intenzione essa poteva ‘occupare’ la coscienza dell’evocatore e guidarla a cose sublimi: era la katoché (κατοχή).

Naturalmente il popolo greco riteneva, come tutti i popoli dell’antichità, che si potessero invocare Potenze del Bene e della Conoscenza ma anche Potenze infere di segno esattamente contrario.

La stessa struttura di pensiero si manifesta nel contesto del culto di Cibele: infatti col termine ‘coribanti’ s’indicavano sia gli dèi che venivano ‘incorporati’ dai suoi estatici seguaci, sia gli iniziati stessi che con danze orgiastiche si disponevano all’esperienza mistico-unitiva.

 

Analogamente l’iniziato di Bacco veniva lui stesso chiamato bácchos (βάκχος) giacché la distanza tra l’uomo e il dio, in virtù dell’ iniziazione, si considerava superata.

L’EBBREZZA ESTATICA

Il Trionfo di Bacco

Bacco (Caravaggio, olio su tela, 1596-97)

Firenze, Galleria degli Uffizi

 

L’ebbrezza bacchica veniva suscitata con mezzi atti ad eccitare: la musica concitata, la danza sfrenata, l’uso del vino o di droghe.

Per ciò che concerne la musica i Greci attribuivano quel potere evocatorio ai flauti frigi e al modo tradizionale con cui venivano utilizzati; essi infatti emettevano suoni acuti sulla base di ritmi frenetici: chi li ascoltava veniva come avvolto nel vortice di un ritmo espressivo interiore e poteva più facilmente divenire ‘pieno del dio’.

Quel modo di suonare il flauto era riferito ad Olimpo (per lo più considerato figlio di Marsia, il satiro che osò sfidare Apollo in una gara musicale) e veniva definito théia, cioè ‘divino’.

Nella utilizzazione degli strumenti musicali per indurre condizioni ‘eccezionali’ dello spirito, Marsia sembra rappresentare il potere maniaco-evocatorio e catartico del flauto mentre Apollo quello ‘quietistico’ ed armonizzante della lira. In tutti e due i casi la condizione non ordinario della psiche s’induce per un eccesso di tensione vitalistica (Bacco = il divino immanente) o per un eccesso di distensione contemplativa (Apollo = il divino trascendente).

Sempre riferendosi all’uso del flauto Platone nel Simposio (215 c) dice che esso (opportunamente utilizzato) fa cadere in uno stato di sacra possessione (katéchestai poiéi) ed Aristotele conferma tale opinione affermando (Polit., 1340 a, 10) che esso rende le anime ‘entusiastiche’ (poiéi tàs psichàs enthousiastikàs).

Platone afferma che proprio la reazione di talune persone a certi accordi e ritmi musicali poteva far individuare coloro che necessitavano delle cure catartiche e paragona il suo venerato Maestro, Socrate, al più abile dei flautisti, a Marsia, poiché con la sua parola incanta, ammalia provoca un mistico turbamento. Socrate ha l’aspetto sgraziato di un sileno, cioè di un componente del tiaso di Dioniso: (la tradizione iconografica rappresentava gli esseri come lui quali vecchi, obesi, barcollanti per l’ebbrezza del vino, con tratti del volto molto marcati) ma nasconde in sé una ‘mistica bellezza’, una grande saggezza che si comunica come forza di trasmutazione interiore.

Così ne fa fare infatti l’elogio ad Alcibiade nel Simposio:

 

“Ma, si dirà, Socrate è forse un suonatore di flauto? Sì, e ben più bravo di Marsia. Lui incantava tutti con quel che riusciva a fare col flauto, tanto che ancora oggi chi vuol suonare le sue arie deve imitarlo. Anche le musiche di Olimpo, io dico, che erano di Marsia, il suo maestro. Le sue arie, suonate da un grande artista o da una ragazzina alle prime armi, sono sempre le sole capaci di incantarci, di farci sentire quanto bisogno abbiamo degli dèi: ci viene voglia di essere iniziati ai misteri, perché quelle musiche sono divine. Tu, Socrate, sei diverso da Marsia solo in questo, che non hai affatto bisogno di strumenti musicali per ottenere gli stessi risultati: ti bastano le parole. Una cosa è certa e dobbiamo dirla: quando ascoltiamo un altro oratore, il suo discorso non interessa quasi nessuno. Ma ascoltando te, o un altro – per mediocre che sia – che riporta le tue parole, tutti, ma proprio tutti, uomini, donne, ragazzi, siamo colpiti al cuore: qualcosa che non ci fa star tranquilli si impadronisce di noi… Quando lo sento parlare il mio cuore si mette a battere più forte di quello dei Coribanti in delirio…” (Platone, Simposio, ed. a cura di M. Trombino, Roma, 2004, p. 127).

 

Oltre ai sileni e alle menadi nel corteo del dio compaiono anche i Satiri (divinità minori che si nascondono anch’essi nella natura selvaggia ma che, al contrario dei sileni, vengono raffigurati come giovani di grande bellezza che danzano seguendo le musiche orgiastiche) e le Ninfe.

Le danze potevano essere anche vorticose, al modo dei dervisci, seguaci del sufismo islamico, e venivano accompagnate dal canto corale in onore di Dioniso noto come ‘ditirambo’ (διθύραμβος), che divenne un vero e proprio genere poetico.

L’eccitazione poteva essere indotta o acuita con la bevanda sacra a Dioniso, il vino; a volte si usava anche la birra d’orzo.

Le fonti ci parlano anche della inalazione del fumo di particolari semi: indubbiamente di canape (kánnabis), era l’haschish, un estratto della ‘cannabis indica’, la canapa indiana (Cfr. Rodhe, II, 352, n.2). Tale costumi erano noti anche ai Traci, oltre che agli Sciti ed ai Messageti.

Lo stato alterato di coscienza che così veniva indotto aveva un senso ‘religioso’ solo se si sapeva utilizzare quella condizione in modo ‘anagogico’, cioè volgendo le energie psichiche così suscitate ‘verso l’Alto’; ed era questo il segreto dell’iniziazione.

Non erano insomma il vino, la danza, la musica, la droga a dare l’esperienza mistica; anzi quei mezzi usati ‘profanamente’ potevano portare solo a condizioni psichiche negative ed al degrado esistenziale; per questo bisognava distinguere nettamente la ‘sacra’ manìa da quella comune, da quella profana che porta solo abiezione ed ottundimento dello spirito.

Infatti ogni volta che si vuole far specifico riferimento a quella ‘alterazione dello spirito’ che induce esperienze ‘superiori’ la tradizione greca unisce costantemente nel suo lessico l’aggettivo ‘sacro’: la ‘sacra’ manìa, le ‘sacre’ orge. E tale distinzione era ben nota a Platone (vedasi il Fedro; su tale argomento rimane fondamentale il cap. III del testo classico del Dodds intitolato “I Greci e l’Irrazionale”).

Platone nota che lo stato eccitato delle menadi non era patologico e che la loro non era una condizione allucinatoria ma uno stato della coscienza particolare con cui avevano accesso a visioni beatifiche di ‘mondi superiori’: “Soltanto quando sono invasate le baccanti attingono a fiumi di latte e miele, e non quando sono tornate in sé” (Ion., 543 a).

In quella condizione si può diventare anche insensibili al dolore, come accadeva ai seguaci di Cibele che si ferivano l’un l’altro (Rodhe, II, p. 353, n. 4).

 

L’anima che si svincola dal corpo esce dallo spazio/tempo a cui il corpo ci lega, per questo essa diventa capace anche di profetizzare.

Tale eventi dimostravano ai Greci che l’anima può staccarsi dal corpo, può ‘uscirne’.

 

“Ma – precisa in Rodhe – l’estasi, la alienatio mentis transitoria, nel culto di Dioniso non è un incerto errare dell’anima nei domini della vana illusione: è invece una mania religiosa, una ‘santa pazzia’, in cui l’anima fuggita dal corpo, si unisce con la divinità. Ora essa è presso, è dentro il dio, nell’’entusiasmo’; chi ne è preso è ‘entheos, vive ed è nel dio; chiuso ancora nell’io finito, sente e gode la pienezza d’una vita infinita’ (Ibidem, pp. 354-355).

L’esperienza estatica dunque può volgersi verso l’Alto (la odierna psicologia direbbe: verso stati ‘transpersonali’ caratterizzati da crescita ed integrazione dell’Io) o verso il Basso (verso stati ‘subpersonali’, caratterizzati da dissoluzione e perdita d’integrità dell’Io); per questo essa è sommamente pericolosa e va guidata opportunamente, se non del tutto tenuta segreta.

Il Dodds nella sua celebre opera “I Greci e l’Irrazionale”, ha ben sottolineato il duplice aspetto del menadismo nell’ottica della tradizione greca che distingueva tra uno ‘bianco’ ed uno ‘nero’. Egli ha notato che tale distinzione è nella stessa opera di Euripide, le Baccanti, in cui mentre i Messi descrivono il menadismo ‘nero’ (quello che si esauriva in un puro isterismo collettivo con episodi di selvaggia brutalità), il Coro invece descrive il menadismo ‘bianco’, quello in cui le forze istintive liberate venivano volte verso la dimensione ‘divina’.

Il messaggio è chiaro: non si può resistere a Dioniso (la tradizione racconta molti episodi, come si è visto, di persone da Lui rese folli perché avevano tentato di opporsi al suo culto) giacché la l’Istinto è la forza stessa della Vita che anima l’Uomo, o – quantomeno – il Corpo dell’Uomo; l’insieme delle forze istintuali/emotive è l’anima ‘inferiore’, l’anima ‘biologica’ ma perché quella Forza strutturalmente legata al corpo si trasmuti in Conoscenza, in Potenza conoscitiva, cioè in Spirito, deve essere consapevolmente ‘canalizzata’ verso il mondo degli dèi e il modo con cui far questo è appunto il segreto del rito iniziatico che non va rivelato a chicchessia, non va ‘profanato’.

L’anima ‘superiore’, cioè la sua dimensione ‘noetica’, il logos, per sua natura aspira alla trascendenza poiché l’uomo non appartiene tutto al mondo ‘materiale’.

Per questo l’Eros/Istinto può e deve divenire Eros/Sofìa, cioè Filo/Sofìa, come ha insegnato Diotìma a Socrate.

LE FORZE INTERIORI DEL RITO

 

La manìa era un tratto distintivo non solo dei riti bacchici (bakchéia) ma anche di quelli di Cibele, la Madre Divina dei Frigi. In effetti dei seguaci di questa dea si diceva che diventavano entheoi (posseduti dal dio) o theophoretetoi (‘trasportati dalla divinità’) all’ascolto di particolari musiche.

Ma non tutti coloro che partecipavano al rito sapevano giungere al suo culmine mistico; è noto il detto, riportato anche da Platone: “Molti sono quelli che portano il nartece, ma pochi sono i bakchoi” (Fedone, 69 c).

Giustamente così commenta quelle antiche convinzioni il Burkert: “Anche la droga più comune, spesso identificata con Dioniso, il vino, non basta a indurre veri bakcheia: chiunque può ubriacarsi, ma non tutti sono bakchoi. Anche qui ci sono naturalmente determinate tecniche per controllare l’esperienza ” (Antichi culti misterici, Bari, 1991, p. 148). Da un potenziale abbrutimento bisognava indurre una esperienza opposta di schiarimento interiore e di beatifico fervore.

Un autore antico, Areteo, ce lo dice esplicitamente: “Questa manìa è possessione divina. Quando la condizione di manìa ha fine, gli iniziati sono di buon umore, liberi dal dolore, come se fossero consacrati dall’iniziazione al dio” (Areteo, 3, 6, 11).

Il musicologo Aristide Quintiliano interpreta il rito ispirandosi al concetto aristotelico di ‘catarsi’, secondo una linea esegetica in qualche modo più ‘razionale’ che potrebbe essere condivisa dalla psicoterapia moderna occidentale: “È questo il fine dell’iniziazione bacchica, che l’ansia depressiva (il termine da lui usato ptόiesis significa anche ‘turbamento’, ‘agitazione’, ‘paura’) della gente meno istruita, prodotta dalle condizioni della loro vita o da qualche disgrazia, venga eliminata mediante le melodie e la danza del rito in maniera gioiosa e gaia” (Aristide Quintiliano, 3, 25).

Un altro elemento fondamentale utilizzato per suscitare le forze dell’ebbrezza era anche il sesso ma anche qui va detto che esso aveva un ruolo ambivalente ed enigmatico; nella stessa iconografia antica relativa alla cerimonia d’iniziazione bacchica si mostra spesso una scena in cui all’iniziato viene mostrata la raffigurazione di un phallus collocato entro una cesta ma coperto da un velo che solo di fronte a lui viene sollevato: sembra evidente una allusione ad un segreto concernente la forza generativa (non si dimentichi che la parola ‘orgasmo’ deriva appunto dal termine ‘orge’ ed indicava sì lo stato di ebbrezza culminante che viene suscitato dal desiderio sessuale però esso era interpretato dalla tradizione esoterica sia occidentale che orientale come impulso dell’uomo a ‘completarsi’ congiungendosi ‘naturalmente’ con la donna come preludio alla mistica unione ‘soprannaturale’ con l’Uno).

È il segreto metafisico dell’Eros di cui parlerà magistralmente Platone.

È celebre a tal proposito la raffigurazione presente nelle pitture della Villa dei Misteri di Pompei ove si vede una figura femminile inginocchiata che sollevando un velo mostra un enorme fallo contenuto entro un cesto, il liknon, di fronte ad un demone alato che brandendo una frusta mostra con un gesto la sua repulsione. Nella scena successiva si vede una donna parzialmente denudata che sembra essere frustata dal demone stesso e subito dopo due figure femminili che gioiscono con movenze di danza come celebrando il rito menadico; in effetti nella ulteriore sequenza compare Dioniso.

Tutto sembra dire che se il segreto era nel sesso, il segreto stesso non era il sesso, ovvero il sesso nella sua dimensione ‘profana’, ‘biologica’, ’corporea’.

Quindi la stessa iconografia ci suggerisce che il ‘segreto’ della iniziazione bacchica era lo stesso di tanti altri ‘misteri’ antichi e moderni: la esperienza del divino la si può ottenere attraverso la ‘sublimazione’ (che è tutt’altra cosa della ‘repressione’) delle forze organiche della libido.

La figura alata degli affreschi allude alla dimensione ‘altra’, cioè ‘sacrale’, in cui l’impulso sessuale va vissuto.

A chi voglia oggi comprendere la tradizione bacchica basteranno i testi da noi prodotti per porsi con serietà e senza pregiudizi il problema di una sua fondata interpretazione.

Quello che è certo è che per il mondo greco-romano (ma non solo) al rito bacchico si riferiva un cambiamento di stato non solo psicologico – dunque una valenza ‘psicoterapeutica’ – ma anche ‘ontologico’.

 

Esso determinava la conoscenza diretta del mondo ‘divino’, o quantomeno di quel mondo ‘divino’ di cui Dioniso era il ‘simbolo’.

 Ma come interpretare ‘oggi’, in un mondo ‘desacralizzato’ quel tipo di esperienza interiore?

E’ chiaro che una esperienza si può interpretare solo ‘riproducendola’, cioè ‘rivivendola’ per poter poi riflettere su di essa.

Non si può quindi ricorrere a semplici schemi concettuali (antropologici, sociologici, psicologici, storico-religiosi) che per loro natura non possono che limitarsi a notazioni ‘formali’, dunque ‘esteriori’.

Anche nel caso dei riti bacchici è evidente che già nell’antichità ad un osservatore esterno comparivano solo come semplici ‘cerimonie’, cioè un insieme di gesti, atti, formule invocatorie comportamenti insoliti, colti nella loro ‘empirica visibilità’.

Per queste considerazioni ci sembrano intellettualmente ‘oneste’, nell’ottica di un puro studio formale, quelle conclusioni che sono state tratte dal Burkert nell’ultimo capitolo della sua opera sui culti misterici intitolato ‘L’esperienza straordinaria’: “Poiché ignoriamo il rito – egli afferma – e siamo incapaci di riprodurlo, noi non siamo in grado di ricreare questa esperienza, ma possiamo riconoscere che essa esisteva. C’era una possibilità infatti di ‘unirsi al tiaso con l’anima’ (thiaseuesthai psichan, Euripide, Baccanti, 75) e questo significava (conseguire) la felicità” (W. Burkert, op. cit., p 150).

L’esperienza iniziatica vera era dunque tutta interiore, intima e personale, una mistica ‘rinascita’; per il ‘profano’ essa fu, è e rimarrà per sempre un vero ‘mistero’.