Attilio Quattrocchi

LA PRATICA DELLO YOGA

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I FONDAMENTI

 

Yoga

INDICE

 

Premessa……………………………………………………………………………………………………………………….p. 3

LA PRATICA

Il senso della pratica yoga: l’evoluzione della coscienza…………………………………………………… p. 4

Iniziare dal corpo: il rilassamento………………………………………………………………………………….. p. 6

1 – La posizione nella pratica meditativa……. ………………………………………………………………….. p. 13

2 – Il respiro……………………………………………………………….………………………………………………..p. 14

      A – Cenni di fisiologia……………………………………………………………………………………..…………p. 14

      B -  La pratica dell’osservazione del respiro…………………………………………………………….. p. 15

      C -  Capire la connessione tra il respiro e la mente…………………………………………….…….….. p. 22

      D – Il respiro e le emozioni nella bioenergetica e nella meditazione…..………………………… p. 24

      E – I blocchi respiratori………………………………………………………………………………………….p. 31

      F – Il corretto atteggiamento psicologico nella pratica dell’anapanasati………………………p. 34

      G – Sentire l’intero corpo come un campo di energie…………………………………………………p. 34

      H – Il rapporto respiro-mente nel linguaggio comune……………………………………………….p. 37

      I – Il segreto del respiro mistico: ispirazione ed aspirazione…………………………………..…….p. 39

      L – La saggezza antica e la percezione del prana: ovvero fisica e metafisica dell’anima……p. 41

      M – Il respiro e la fisiologia del corpo sottile nella tradizione induista…………………………..p. 44

3 – La mente (dhyana yoga)………………………………………………………………………………………….p. 46

     A – Concentrazione e meditazione………………………………………………………………………………p. 46

     B – Tecnica meditativa attiva o passiva? ………………………………………………………………..…..p. 51

     C – Meditazione: un esercizio esistenziale…………………………………………………….……….…… p. 52

APPENDICE

Psicoterapia e meditazione……………………………………………………………………………………………p. 55

 

Nota: I presenti appunti sono concepiti per tracciare le linee essenziali di una metodologia realizzativa adatta ad un occidentale  moderno che voglia seguire un percorso di autoconoscenza. Per il loro carattere eminentemente pratico e sintetico si sono volutamente accantonati, in tale contesto, riferimenti dettagliati alla dottrina metafisica sia orientale che occidentale.

PREMESSA

 

 

In India con il termine ‘yoga’ (in sanscrito = unione) si è designata tradizionalmente una serie di procedure fisiche, psichiche, intellettuali, attraverso le quali si ritiene possibile per l’uomo ‘realizzare’, cioè  percepire, conoscere e vivere interiormente  la propria Essenza Spirituale.

La radice del termine yoga è, infatti, yuj che significa ‘tenere stretto’, ‘legare assieme’, ‘mettere sotto il giogo’ e indica in senso stretto una tecnica di ascesi, uno sforzo interiore, un metodo contemplativo.

La dottrina yoga  insegna che ‘ conoscendo se stessi’ si coglie, per via d’intuizione mistica, anche la  Identità sostanziale dell’Io umano con la Natura e con Dio.

Per conseguire questo fine è essenziale sviluppare (attraverso la concentrazione e la meditazione) una capacità di ‘percezione sottile’ della realtà, la facoltà, cioè, di entrare in contatto con le dimensioni metafisiche dell’Essere .

Nello yoga  è così fondamentale, sin dall’inizio, che la mente acquisisca la capacità di  ‘focalizzarsi’,  ma sia chiaro che l’oggetto della concentrazione può essere il più vario ( una funzione organica, un concetto, un sentimento, un’immagine reale o visualizzata, naturale o artificiale).

Tutte le modalità sono equivalenti.

Una tecnica è solo una tecnica e valida solo se funziona e per chi funziona; è uno strumento, non un fine.

Lo yoga non è, inoltre, una dottrina   metafisica o teologica su cui discettare e creare  inutili ed inconcludenti contrapposizioni dialettiche, ma un sistema di apertura della coscienza ed è una via mistica, dunque intrinsecamente individuale, che va vissuta in spirito di serena, obiettiva e rigorosa ricerca interiore.

Per questo un’autentica scuola esoterica asseconda lo spirito di autonoma indagine oltreché la spontaneità creativa ed espressiva di ciascun meditante, contro ogni dogmatismo dottrinale o tecnico.

L’ispirazione tollerante, illuminata ed universalistica dello  yoga deve porre il praticante chiaramente e sin dall’inizio al di là di ogni forma, anche la meno  percettibile, di  fanatismo settario. 

 

 

LA PRATICA

IL SENSO DELLA PRATICA YOGA:

 

   L’EVOLUZIONE DELLA COSCIENZA

 

La sapienza che si trova racchiusa nel corpo

  se veramente conosciuta, dà l’onniscienza”

( Shivagama, Pranavidya, 14)

 

La pratica yoga, qualsiasi ne sia il tipo, è essenzialmente  una pratica di sviluppo della propria coscienza volta alla realizzazione dell’Autoconoscenza come presupposto della conoscenza della Realtà.

Il seme della saggezza indiana, insomma, è rappresentato dallo stesso motto che è alla base della sophia greca: “Conosci te stesso”.

L’idea comune a tutte le tradizioni speculative indiane è che proprio nel corpo sono presenti ed agiscono tutte le forze che esistono ed operano nell’Universo: è l’antica convinzione della corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, dottrina ben presente e fondamentale nell’antica tradizione occidentale, sia filosofico-religiosa che magico-esoterica.

Pertanto il ‘corpo’ di cui parlano le Scritture orientali ha ben poco a vedere con quello di cui sanno gli occidentali moderni.

‘Conoscere il corpo’, vuol dire, per quanto detto, accedere al primo livello della conoscenza metafisica, significa esplorare la superficie di una corporeità totale in cui operano forze e condizioni superfisiche che di quella corporeità sono l’intima trama ed il sostegno.

Ma poiché la percezione comune del corpo è solo quella unidimensionale della materialità, sfuggono all’uomo quelle condizioni dello spirito, quelle forze che lo collocano ontologicamente oltre l’esistenza singola e storica caratterizzata da un nome (nama) e da una forma (rupa) individuali e transeunti.

Per questo l’India è convinta che acquisendo la capacità di spostare la coscienza sui piani transfisici, l’Io si sentirebbe collegato ad una vicenda ben più ampia della sua singola esistenza.

Nella tradizione della scuola filosofica del Vedanta, ad esempio, sono indicati cinque ‘involucri’ (kosha) che avvolgono l’ atman, cioè quella parte del nostro Spirito che ha una natura ‘divina’ e costituisce, per così dire, la nostra vera essenza.

Partendo dal basso il primo è costituito dalla forma corporea o grossolana è l’annamaya-kosha, letteralmente è il corpo deperibile ed illusorio( maya) fatto di cibo (anna).

Più interno, più sottile è il corpo fatto di prana, cioè il pranamaya-kosha che include le facoltà di azione e percezione.

Il terzo, ancora più interno e sottile, è il manomaya-kosha che è la sede della coscienza mentale o facoltà pensante (manas).

Il quarto è il corpo della Conoscenza, vijnanamaya-kosha, così chiamato perché composto di energie coscienziali che ci rendono capaci di intuizione metafisica.

Il quinto è l’anandamaya-kosha, cioè il corpo fatto di beatitudine (ananda), così indicato perché il Sé in questa condizione gode della pienezza del proprio essere.

Queste classificazioni, naturalmente, non vanno concepite come mere concettualizzazioni ma, conformemente alla tendenza generale della tradizione indiana, sono ‘reali’, ‘concrete’ condizioni della coscienza che vanno ricercate e sperimentate attraverso la meditazione, cioè attraverso una attiva e consapevole opera di trascendenza.

Così se si vuole andare oltre il corpo e la coscienza ad esso collegata, bisogna ‘osservare’ il corpo fisico, prenderne le distanze, separare la coscienza da esso, percepire le forza transfisiche che lo permeano per poi controllarle, tanto da non dipenderne più. Osservare il corpo fisico porta la coscienza sul piano sottile ci consente di conseguire una prospettiva diversa sulla Realtà.; in tal modo si sviluppa, si percepisce  e si coltiva il secondo corpo, quello pranico.

Analogamente, ‘osservare’, cioè ‘percepire’ il corpo energetico fatto di prana attraverso la sottilizzazione del respiro, cioè ‘fissare la coscienza sul  suo fluire tra i due poli di inspiro ed espiro (anapanasati), ci rende da esso indipendenti tanto da poterlo trascendere. Si acquisisce un grado più elevato di libertà e di gioia; in tal modo si sviluppa il corpo mentale, capace di osservare le emozioni e di guidarle, non esserne più schiavo.

La via dello sviluppo spirituale continua coerentemente con l’ osservazione del corpo mentale, cioè dei processi del pensiero; è questo propriamente lo yoga nella definizione di Patanjali: capacità di controllo e trascendenza del flusso mentale.

L’osservazione dei processi mentali sposta la coscienza sul piano del corpo della conoscenza. E’ attraverso di esso, con il suo sviluppo, che entriamo propriamente nel mondo posto al di là del piano fisico/mentale ed iniziamo ad avere esperienze propriamente ‘spirituali’, cioè metarazionali.

Osservare il corpo della conoscenza, prenderne coscienza, sviluppa conseguentemente  il corpo della beatitudine che, osservato e conosciuto a sua volta, conduce al Sé cioè all’Atman- Brahman, cioè a quella parte dell’Io che è radicato nell’Essenza divina universale o che, secondo altri, ne è l’espressione, l’emanazione o parte.

A tale livello cade ogni distinzione tra conoscitore e conosciuto; l’io empirico, individuale, storico ( in sanscrito jivatma, cioè lo spirito ‘calato nella vita’) è totalmente trasceso giacché ricondotto alla sua Sorgente, all’Uno (che l’India non ama  concepire come Dio-persona se non ad un livello più basso, più ‘popolare’, cioè essoterico).

In tradizioni diverse da quella vedantica si preferisce suddividere in tre le componenti della struttura umana; la divergenza è solo apparente perché si tratta di suddivisioni di strati di energia per cui, costituendo essa una realtà priva di una forma ‘oggettiva’, le classificazioni possono essere diverse, senza che muti la sostanza del discorso ‘pluridimensionale’.

Nella tradizione tantrica,  del Samkhya o dello stesso yoga di Patanjali, ad esempio, si preferisce parlare di tre corpi: quello ‘causante’(karana-çarira), quello ‘sottile’(sukshma-çarira) e quello materiale( sthula- çarira).

Al corpo fisico si afferma che corrisponde lo stato di veglia e la relativa esperienza del mondo materiale e fenomenico; è insomma la sede dell’Io comune.

A quello sottile è riferita la condizione del sogno, cioè quella in cui cade la comune coscienza quando, non integrata e separandosi dagli organi di senso, scivola inconsapevolmente e incontrollabilmente nella dimensione onirica.

Lo stato causante corrisponde al sonno senza sogni o sonno profondo.

Esiste anche un quarto stato (turiya) della coscienza; con esso si manifesta  fisicamente la cosiddetta ‘morte apparente’, lo stato di catalessia: è quello, profondissimo, di radicale distacco dall’organismo corporeo, proprio della condizione estatica.[1]

Qualsiasi sia la dottrina circa la forma della struttura coscienziale umana è evidente che, per la tradizione speculativa indiana generalmente intesa, ci sono in noi forme di coscienza ridotta  che sbarrano ordinariamente l’accesso alla ‘corporeità trascendente’ e alle corrispondenti dimensioni più profonde della Realtà.

Qualsiasi sia la tecnica che si segue per operare una trasformazione interiore essa  deve essere finalizzata allo sviluppo della coscienza che è anche sviluppo del suo potere di liberazione e controllo. Nel cammino dell’autorealizzazione c’è bisogno della luce della Consapevolezza che lo rischiari e dell’Energia per percorrerlo. Sophia ed Eros vanno di pari passo.

Il segreto dei misteri eleusini che la sacerdotessa Diotima rivela a Socrate nel Convito platonico è appunto questo, che l’Eros sublimato dà la Conoscenza estatica e che l’Eros per sua natura aspira alla Conoscenza ed alla Trascendenza.

La stessa ‘verità’ è espressa dalla tradizione orientale quando afferma che la forza dell’Eros, Kundalini, procedendo nell’uomo dal basso (coccige) aspira a congiungersi in alto (calotta cranica) con la dimensione conoscitiva e realizzativi della trascendenza, Shiva.

La Coscienza va dunque intesa come quella lucida appercezione dell’io che è capace di estendersi verso i mondi più sottili, cioè nella dimensione metafisica, l’Eros è la sua energia, che si manifesta con varie modalità e a diversi livelli come forza del desiderio, tensione, volontà, intento, ricerca di autorealizzazione.

L’Intento, cioè letteralmente la ‘tensione-verso’, è quell’Energia, è quell’Amore che ci fa procedere nel cammino.

Per questo tutte le tecniche realizzative sono equivalenti e, in considerazione di ciò, possono essere trascese se colte nella loro essenza, cioè se intese come modi attraversi i quali s‘intende sviluppare la coscienza assecondando e ‘nutrendo’ l’aspirazione umana verso la Trascendenza.

Possiamo sviluppare tale aspirazione semplicemente attraverso la nostra presa di coscienza della sua presenza nell’intimo del nostro io.

Procedendo nella pratica meditativa si capirà inoltre come lo sviluppo effettivo della consapevolezza implichi lo sviluppo simmetrico di un potere interiore ed esteriore di affrancamento dai vari condizionamenti che operano abitualmente nel nostro spazio interno ed esterno.

 

 

INIZIARE DAL CORPO: IL RILASSAMENTO

 

Acquisire la capacità di rilassarsi profondamente è il primo passo sulla via iniziatica yoga, ne è, in qualche modo, una premessa perché il controllo del corpo è la base per il controllo della mente.

Normalmente  noi abbiamo una percezione ‘grossolana’ del corpo; è tuttavia possibile conoscerlo più intimamente, più compiutamente, svilupparne una percezione ‘sottile’.

La consapevolezza delle forze transfisiche che agiscono nel nostro organismo e lo sostengono può consentite una vita più armoniosa; non solo più sana fisiologicamente ma anche più aperta alla esperienza spirituale.

La percezione del corpo ‘dall’interno’ ci mette nella condizione di esercitare un controllo su di esso: è questo il segreto di quello straordinario dominio che numerosi yoghin hanno dimostrato di poter esercitare sul loro organismo.

Tali capacità sono state appurate strumentalmente negli ultimi decenni dalla stessa scienza occidentale. Le ricerche scientifiche attuali sugli effetti del rilassamento yoga sono riuscite,ad esempio, a provare ‘oggettivamente’, attraverso l’uso dell’elettromiografo, la effettiva e benefica riduzione del tono muscolare; si sono riscontrati strumentalmente anche fenomeni concomitanti come l’aumento della temperatura cutanea dovuto ad un miglioramento della circolazione periferica, modificazioni del tracciato elettroencefalografico, positive variazioni del ritmo cardiaco e della tensione arteriosa ecc. In particolare lo hatha-yoga, quello che opera a livello fisico, si è scientificamente dimostrato di straordinaria efficacia nella normalizzazione dei cicli vitali e, in caso di vera e propria malattia, nella riattivazione dei meccanismi di guarigione.

Il segreto di tutto ciò, però, non può essere percepito strumentalmente, poiché il segreto è il prana, cioè una energia biologica transfisica, una ‘bioenergia’.

Gli yoghin però hanno sviluppato nel tempo una ‘scienza del prana’, hanno scoperto che le malattie funzionali dipendono da eccessi o difetti di energia che si realizzano nella struttura corporea legati per lo più alla nostra vita emozionale.

In particolare gli yoghin hanno scoperto che  là dove si verificano carenze o blocchi di energia lo stato di pieno rilassamento consente all’energia di circolare ‘perviamente’ e di esercitare così appieno il suo naturale e specifico potere di guarigione.

Il fluire libero e naturale dell’energia opera insomma come la ippocratica vis medicatrix naturae che sana il corpo e favorisce l’omeostasi, cioè la naturale capacità degli organismi viventi di mantenere stabile il proprio equilibrio dinamico.

Apparentemente la  conoscenza del corpo è un dato scontato: ne conosciamo la struttura e ne sentiamo il funzionamento.

Si può addirittura dire che, in qualche misura ‘ noi siamo il corpo’: obbediamo alle sue necessità, proviamo piacere o dolore attraverso di esso; la nostra coscienza, il nostro stato umorale sono legati ad esso.

Ma questa è solo una conoscenza ‘dall’esterno’ del corpo, considerato e percepito nella sua pura e ‘dura’ materialità.

Ma questo è tutto il corpo? E’ l’unico corpo di cui siamo fatti?

Nella scienza dello yoga concepire il corpo così equivale a presumere di conoscere l’oceano vedendone la sola superficie… Esistono delle profondità. La superficie, le onde, sono solo lo strato visibile, fenomenico. Al di là, sotto e sopra il corpo c’è un’intima pulsione vitale, ci sono emozioni, ci sono pensieri, ci sono intuizioni, ci sono altri ‘corpi’, altre condizioni di energia da cui il corpo stesso dipende. Esiste un’anima.

Il problema dell’anima in Oriente è così tradizionalmente impostato in una prospettiva pratico-realizzativa: l’anima deve essere oggetto di una esperienza potenzialmente accessibile a tutti e che possa fondarne una teoria.

La pratica del rilassamento e dell’osservazione attenta del respiro sono appunto delle tecniche con cui i saggi hanno esplorato se stessi alla ricerca dell’anima.

 

Nello yoga il nome sanscrito della postura con cui abitualmente si effettua il rilassamento  è savasana, letteralmente: la ‘posizione del cadavere’.

La sua finalità diretta ed immediata è quella di un totale rilassamento somatico ma il fine vero ed il criterio della sua riuscita è la percezione del corpo sottile cioè la realizzazione di una condizione dello spirito in cui la coscienza non ‘senta’ più il corpo fisico ma poggi sulla sola  struttura energetica di esso.

Dal punto di vista psichico alla realizzazione efficace del rilassamento corrisponde ‘automaticamente’ una condizione di benessere e pace interiore.

Solo attraverso la pratica costante tale sensazione diviene stabile, incide sul carattere, favorisce le nostre relazioni interpersonali e influenza persino la nostra visione del mondo.

Sull’ argomento è utile conoscere delle indicazioni teoriche e pratiche elaborate da alcuni maestri contemporanei per la posizione yoga più idonea al rilassamento: la savasana (letteralmente: la posizione –asana- del ‘cadavere’ – sava).

Così, ad esempio, prescrivono Yesudian- Haic:

 

L’esercizio deve essere svolto in un luogo in cui non si possa essere disturbati (quando si raggiunge una condizione di efficace rilassamento è molto fastidioso, oltre che difficile, un movimento brusco come, ad esempio, l’alzarsi ).

Bisogna aver concluso del tutto ogni processo digestivo.

Ci corichiamo supini su di una coperta posta sul pavimento, con gli occhi chiusi e le braccia posate lungo i fianchi, tenendo i piedi avvicinati ma divergenti.

Senza sforzarci, allunghiamo più che è possibile il respiro sia nella fase dell’inspiro che in quella dell’espiro: riposiamo.

Cominciando dai piedi rilassiamo ogni muscolo facendolo decontrarre attraverso un comando mentale.

Ci concentriamo successivamente su ogni muscolo del corpo: muscoli dei piedi, polpacci,  delle cosce, del ventre, delle braccia, delle spalle,del petto, del collo, della testa, poi li lasciamo coscienti; ogni muscolo deve essere perfettamente rilassato e così deve rimanere per il maggior tempo possibile.

La procedura del rilassamento deve essere ripetuta più volte fino  a percepire una  piacevole condizione di rilassamento che pervade tutto il corpo.

Non pensiamo a niente altro che alla profonda pace e alla tranquillità che ne conseguono.

Ci accorgeremo che il rilassamento fisico induce anche quello della mente.

A conclusione della seduta muoveremo progressivamente e lentamente i muscoli rilassati: il rilassamento sarà stato tanto più profondo quanto più tempo ci vorrà per riassumere il tono muscolare ordinario.

Azione salutare. – Il sistema nervoso riposa completamente. E’ l’esercizio del più completo rilassamento. Dobbiamo sapere che il rilassamento dei muscoli è per il loro sviluppo importante come l’attività! La circolazione sanguigna è ora perfettamente eguagliata e regolare in ogni parte del corpo. La circolazione nelle vene diviene più leggera; la pressione troppo alta cessa. Il cuore si sente alleggerito nel suo lavoro di spingere il sangue in circolo. Dieci minuti di profondo riposo in questa posizione, con respirazione rallentata, e la mente concentrata sulla perfetta tranquillità, può  valere più d’una intera notte di sonno. Il Savasana potrebbe anche chiamarsi ‘esercizio di passività attiva’,  con esso possiamo ottenere lo stesso stato di riposo che si ha nel sonno, però da svegli.

 

Questo esercizio chiude la serie degli Asana. Gli Yoghi raccomandano a tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, l’esercizio quotidiano degli Asana. Prima di cominciare a prescrivere il programma quotidiano dello Yoga, vogliamo trattenerci un po’ su ciò che l’uomo occidentale, nella sua vita affannata in cui non trova tempo a nulla, non ha mai conosciuto, cioè qual senso abbia nell’India la parola RIPOSARE.

 

Gli uomini dovrebbero tornare ad apprendere, poiché il sonno ristoratore non basta, quella maniera di riposare che hanno dimenticato da tanto tempo e che ora è conosciuta solo dagli uomini primitivi e dagli animali, quella quiete perfetta che lo Hatha- Yoga denomina’ rilassamento dei muscoli’.

Solleviamo un cane o un gatto che dormono! Avremo l’impressione di aver preso in mano un cencio. Flosci e del tutto rilassati sono i muscoli, come fossero pasta molle.

L’Europeo e l’Americano, se non hanno niente da fare, secondo loro, si riposano. Tutti i loro muscoli, nell’apparente posizione di riposo, sono mezzo tesi. La corrente apportatrice d’energia del Prana e il flusso delle forze rigeneratrici dell’organismo cominciano solo quando ci procuriamo per qualche minuto un riposo completo. Nell’Istituto di Lonawla risultò poco tempo fa sperimentalmente che un riposo completo (attuato secondo le tecniche yoga)  di un quarto d’ora, basta a purgare il sangue da certe tossine. Alla mattina, prima di alzarci, e alla sera, prima di prender sonno, dovremmo ogni giorno far questo esercizio di riposo totale”. [2]

 

Un altro studioso e praticante, il Kerneiz, ha dato istruzioni nel merito molto chiare:

 

Il primo esercizio, apparentemente il più semplice, è generalmente quello che presenta le maggiori difficoltà nella nostra vita occidentale, agitata dalle complicazioni materiali e morali: è il rilassamento muscolare.

Orientandovi nel modo che sarà descritto più avanti, sedetevi comodamente in una poltrona, con la schiena appoggiata sullo schienale, le mani mollemente abbandonate sul ventre, le gambe leggermente divaricate; meglio ancora stendetevi su un letto o su un divano, le braccia distese lungo il corpo con le palme rivolte in basso e le gambe allungate e lievemente divaricate. Si potrebbe credere che in questa posizione il corpo si trovi già in stato di riposo completo. Ma non è vero. Perfettamente immobili eliminate dal vostro spirito ogni preoccupazione, ogni idea estranea come se non esistesse altro al mondo che il vostro corpo seduto o disteso e concentrate lentamente il vostro pensiero sul sistema muscolare. Dopo qualche istante comincerete a sentire uno stiracchiamento doloroso e capirete che in questa posizione, che giudicavate quella di riposo assoluto, tutta la vostra muscolatura è ancora in stato di semi-tensione, come tesa in vista di uno sforzo possibile e improvviso. Allora sempre con calma, sempre con lentezza, senza alcun’altra preoccupazione, immaginate i vostri muscoli ancora più distesi, completamente distesi. Lasciatevi invadere da questa idea di muscoli distesi fino a quando non percepiate al contrario tutta la vostra carne come una massa inerte e molle. Dovete avere allora l’impressione che il vostro peso è aumentato e che voi poggiate pesantemente sulla poltrona o sul divano…

Non cercate di fare uno sforzo di volontà per ottenere il rilassamento muscolare. Fate in modo di rappresentarvi unicamente questo rilassamento. Vi accorgerete che appena un’idea estranea entra nel vostro spirito, ad essa corrisponde sempre una lieve contrazione muscolare. Fate la guerra a queste idee estranee, riportate senza tregua il vostro pensiero all’idea dei muscoli distesi. Soprattutto non vi impazientite se il risultato non è (ed evidentemente all’inizio non lo sarà mai) quello che voi desiderate. Senza dispiacere, senza nervosismo, rappresentatevi sempre il risultato come già raggiunto. In altre parole, non dovete fare altro che evocare in voi una sensazione, come quella che l’ipnotizzatore suggerisce all’ipnotizzato. Per rendere più facile ottenere il rilassamento muscolare, si consiglia qualche volta di procedere per gradi: a questo scopo si comincia col rilassare, ad esempio, il braccio sinistro; si passa poi successivamente al braccio destro, ai muscoli del tronco, alla gamba sinistra, alla gamba destra, poi ai muscoli del collo e della testa. Per certe persone questo metodo è più facile. In ogni caso non bisogna sperare di riuscire in questi esercizi senza numerosi tentativi e molta costanza. Consiglio ai miei lettori di dedicarci almeno un mese, prima di procedere  ad altri esercizi.

Allo stato normale il movimento sembra seguire istantaneamente all’atto di volontà: io voglio alzare il mio braccio e immediatamente lo alzo. In realtà trascorre sempre un tempo apprezzabile, e misurabile, variante da individuo a individuo, fra il volere un atto e la sua esecuzione. Di solito si tratta di qualche frazione di secondo.

Questo tempo aumenta proporzionalmente con il rilassamento muscolare. Il muscolo disteso è incapace di eseguire istantaneamente l’ordine del cervello; se dunque, in stato di rilassamento, voi volete ad esempio alzare il braccio, bisognerà che i muscoli di questo braccio tornino dapprima al loro normale stato di semi-tensione. Il tempo necessario sarà la misura del rilassamento ottenuto. Se questo è sufficientemente completo (almeno sufficientemente per i primi esercizi), ci vorrà circa un minuto per eseguire un movimento volontario. Se esso fosse assoluto, ci vorrebbero almeno cinque minuti.

Indipendentemente dal suo ruolo primordiale nell’allenamento occulto, il rilassamento muscolare presenta notevoli vantaggi nella vita normale: esso permette infatti di riposarsi in pochi minuti di una grande fatica…

Infine, meno un muscolo è contratto meno ossigeno consuma. Più il rilassamento è completo e meno l’organismo ha bisogno di ossigeno, così che si può arrivare a restare per un tempo maggiore senza respirare o respirando appena”.[3]

 

 

In numerose conversazioni tenute con i suoi discepoli il maestro indiano Osho, già noto come Bhagwan Shree Rajneesh, ha affrontato il tema del rilassamento con altrettanta chiarezza dando esplicite indicazioni procedurali:

 

“Adesso chiudi gli occhi. Chiudili lentamente. Rilassa il corpo. Lascialo completamente sciolto, come se non avesse più vita alcuna. Ritira tutta l’energia del corpo; portala all’interno. Non appena l’energia va all’interno, il corpo si scioglierà.

Ora comincerò a dare suggestioni… ti informerò che il corpo si sta sciogliendo, che stiamo diventando silenziosi… Senti il corpo che si scioglie. Lasciati andare. Va’ dentro di te, come una persona che entra in casa sua. Va’ all’interno, entra… il corpo si rilassa… lascialo andare completamente… lascia che sia senza vita, come morto. Il corpo si rilassa, il corpo si è rilassato, il corpo si è completamente rilassato.

Adesso suppongo che tu abbia completamente rilassato il corpo, che abbia abbandonato ogni presa su di esso… se il corpo cade, va bene; se si piega in avanti lasciatelo fare. Lascia che accada tutto ciò che dovrà accadere; tu rilassati. Assicurati di non trattenere niente. Dai un’occhiata dentro di te, per assicurarti che non stai trattenendo nulla… dovresti essere in grado di dire: «Non sto trattenendo nulla. Mi sono lasciato andare completamente».

Il corpo è sciolto e rilassato; il respiro rallenta, s’acquieta. Sentilo… il respiro si rilassa… lascialo andare completamente. Lascia andare anche il tuo respiro, non lo controllare più. Il respiro rallenta, s’acquieta. Il respiro si è acquietato, è rallentato…

Il respiro è rilassato… anche i pensieri si rilassano. Sentilo… i pensieri diventano silenziosi… lasciati andare… hai lasciato andare il corpo, hai lasciato andare il respiro, ora lascia andare i pensieri. Allontanati…va’ dentro di te totalmente, allontanati anche dai pensieri.

Tutto è diventato silenzioso, come se tutto all’esterno fosse morto. Tutto è morto… tutto è silenzio… solo la consapevolezza interiore rimane… una lampada ardente di consapevolezza; tutto il resto è morto. Lasciati andare, lasciati andare completamente… come se non esistessi più. Lasciati andare totalmente… come se il corpo fosse morto, come se non ci fosse più. Il respiro è immobile, i pensieri sono immobili, come se fosse sopraggiunta la morte. E va’ dentro di te, va’ totalmente all’interno. Lasciati andare, lascia andare ogni cosa. Lasciati andare completamente, non trattenere nulla. Sei morto.

Senti come se tutto fosse morto e solo una lampada restasse accesa all’interno; il resto è morto. Ogni altra cosa è morta, cancellata. Perditi nel vuoto per dieci minuti, sii un testimone. Continua ad osservare questa morte. Ogni altra cosa intorno a te è scomparsa. Anche il corpo è ormai indietro, è alle tue spalle, molto lontano; lo stiamo semplicemente osservando. Continua a osservarlo, resta un testimone. Per dieci minuti continua a guadare all’interno.

Guarda dentro di te… tutto il resto sarà morto, all’esterno. Lascialo andare… sii completamente morto. Continua ad osservare, resta un testimone… lascia andare ogni cosa, come se tu e il corpo foste morti. Il corpo è immobile, i pensieri sono immobili, solo la luce della consapevolezza resta a osservare; solo colui che osserva, il testimone, resta. Lasciati andare… lasciati andare… lasciati andare completamente.

Qualsiasi cosa accada, lascia che accada… lasciati andare completamente, continua solo a guardare all’interno e a lasciare andare ogni altra cosa. Abbandona completamente il controllo…

La mente è diventata silenziosa e vuota … è diventata silenziosa e vuota… è completamente vuota…

Continua a guardare all’interno, guarda dentro di te con consapevolezza; tutto è diventato silenzioso. Il corpo rimane dietro, remoto; la mente rimane dietro, solo una lampada rimane accesa, una luce di consapevolezza, solo quella luce continua ad ardere…

Adesso, lentamente, fa’ alcuni respiri. Continua ad osservare il tuo respiro… A ogni respiro il silenzio diventerà più profondo. Respira lentamente, tenendo lo sguardo fisso all’interno; resta un testimone anche del respiro. La mente diventerà ancora più silenziosa… Respira lentamente, poi apri con delicatezza gli occhi. Se sei caduto all’indietro, prima fa’ un respiro profondo e poi alzati lentamente. Non avere fretta se non riesci ad alzarti o ad aprire gli occhi… prima respira profondamente, poi apri gli occhi lentamente… Alzati lentamente. Non fare nessun movimento brusco, alzandoti o aprendo gli occhi…” .[4]

 

Il rilassamento del corpo, se praticato con efficacia, può di per se stesso costituire una via alla più profonda meditazione, un modo per accedere alla nostra dimensione spirituale. Osho lo afferma esplicitamente:

“Inizia il rilassamento del corpo partendo dal tuo letto, ogni notte, e nel giro di qualche giorno riuscirai a capirne il trucco. E una volta che avrai conosciuto quel segreto – nessuno te lo può insegnare, dovrai cercarlo nel tuo stesso corpo – allora, perfino durante il giorno, in qualsiasi momento, ti potrai rilassare. Ed essere un maestro di rilassamento è una delle esperienze più ineffabili che esitano al mondo. E’ l’inizio di un viaggio incredibile verso la spiritualità, perché quando vivi in un assoluto stato di abbandono, non sei più un corpo.

Non hai mai osservato un fatto semplicissimo: diventi consapevole del tuo corpo solo quando esiste qualche tensione, qualche sforzo, qualche dolore? Sei forse consapevole della tua testa, quando non hai mal di testa?

Se tutto il tuo corpo è rilassato, ti dimentichi semplicemente di essere un corpo. E in quella dimenticanza del corpo risiede la rimembranza di un nuovo fenomeno che è nascosto nel corpo: il tuo essere spirituale.

Lasciarsi andare è la via per conoscere di non essere un corpo, bensì qualcosa di eterno, di immortale.

Nel mondo non è affatto necessaria alcuna religione. E’ sufficiente la semplice arte di lasciarsi andare, e  ogni essere umano diventerà una persona religiosa. Religione non è credere in Dio, religione non è credere nel papa, religione non è credere in alcun sistema ideologico.

Religione è conoscere ciò che è eterno dentro di te: ciò che è la verità della tua esistenza, ciò che è la tua bellezza, la tua grazia, il tuo splendore.

L’arte di lasciarsi andare è sinonimo di esperienza dell’ immateriale, dell’ incommensurabile: il tuo autentico essere”.[5]

 

Osho ha sottolineato il concetto che il rilassamento organico, somatico, è un passo iniziale necessario per giungere alla quiete interiore, è insomma un primo passo nella giusta direzione. Per accedere alla pratica meditativa non possiamo che partire dal corpo perché è lì che si colloca attualmente la nostra coscienza:

 

Nel rilassamento parti dalla circonferenza; è lì che esistiamo, e possiamo iniziare solo dal punto in cui siamo. Rilassa la circonferenza del tuo essere: rilassa il tuo corpo, rilassa il tuo comportamento, rilassa le tue azioni. Cammina in maniera rilassata, mangia in maniera rilassata, parla in maniera rilassata. Rallenta ogni processo. Non aver fretta e non essere frenetico. Muoviti come se l’intera eternità fosse a tua disposizione; di fatto, è a tua disposizione. Noi siamo qui fin dall’inizio e saremo qui fino alla fine…e in realtà non esiste alcun inizio, né c’è una fine. Siamo sempre stati qui, e saremo sempre qui.

Le forme continuano a cambiare, non la sostanza; gli ornamenti continuano a cambiare, non l’anima…  Dovrai rilassarti partendo dalla circonferenza. Il primo passo è rilassare il corpo. Ricordati quanto più ti è possibile di guardare il corpo, osserva se esiste qualche tensione, da qualche parte: nel collo, nella testa, nelle gambe. Rilassale consapevolmente. Va’ semplicemente in quella parte del corpo, e ritmicamente, dille con amore: ‘Rilassati!’

E ti stupirà, ma se ti avvicini così a qualsiasi parte del corpo, questo ti ascolta, ti segue: è il tuo corpo! A occhi chiusi, entra nel corpo dalle dita dei piedi alla testa, e ricerca qualsiasi punto in cui si annidi una tensione. Poi, parla a quella parte come se parlassi ad un amico; lascia che esista un dialogo tra te e il tuo corpo. Digli di rilassarsi, e digli:’Non c’è nulla da temere. Non aver paura. Io sono qui per prendermi cura di te, ti puoi rilassare.’ Piano piano imparerai questo trucco, e a quel punto il corpo si rilasserà.

Allora fa’ un altro passo, un po’ più profondo: di’ alla mente di rilassarsi. E se il corpo ascolta, anche la mente ascolta, ma non puoi partire dalla mente; devi iniziare al punto giusto. Non puoi partire da un punto intermedio. Molte persone iniziano dalla mente e falliscono; falliscono perché iniziano da un punto sbagliato. Ogni cosa deve essere fatta nel giusto ordine.

Se riesci a rilassare il corpo volontariamente, sarai in grado di aiutare la tua mente a rilassarsi volontariamente. La mente è un fenomeno più complesso. Una volta che avrai acquistato confidenza, quando saprai che il corpo ti ascolta, avrai una fiducia nuova in te stesso. Ora, perfino la mente ti può ascoltare. Con la mente ci vorrà un po’ di più, ma accade.

Quando la mente è rilassata, inizia a rilassare il tuo cuore, il mondo delle sensazioni e delle emozioni…si tratta di un fenomeno ancora più complesso, ancora più sottile. Ma ora ti starai movendo con grande fiducia, avrai una profonda fiducia in te stesso. Ora saprai che è possibile. Se è possibile con il corpo e se è possibile con la mente, è possibile anche con il cuore. E solo allora, solo quando hai superato questi tre passi, puoi fare il quarto. Ora puoi entrare nell’essenza più intima del tuo essere, che si trova oltre il corpo, la mente e il cuore: il centro stesso della tua esistenza. E potrai rilassare anche quella.

Quel rilassamento di certo ti dona la gioia più grande che esista, l’estasi per eccellenza, l’accettazione. Sarai colmo di beatitudine e gioirai. La tua vita avrà in sé la qualità della danza.”[6]

 

Prima di dedicarsi alla meditazione vera e propria è bene quindi acquisire la capacità di interiorizzarsi attraverso un consapevole processo di rilassamento; quanto alla posizione da assumere nel corso della seduta è sufficiente che essa sia comoda.

Poiché sin dal primo livello è necessaria una forte ‘interiorizzazione’, bisogna saper assumere una posizione corporea  confortevole (asana), tale che possa essere mantenuta agevolmente per il periodo di tempo prefissato per la seduta meditativa.

La conseguente pratica dello yoga ‘mentale’ include sostanzialmente  due livelli tra loro connessi secondo una naturale logica di sviluppo consequenziale: al primo si colloca la ‘ concentrazione ‘(in sanscrito ‘dharana’), cioè  la capacità di ‘fissare il pensiero in un solo punto’,  al secondo la vera e propria meditazione (dhyana), cioè la capacità di aprire la coscienza alle superiori dimensioni metafisiche tramite l’esclusione intenzionale dei pensieri dal campo della pura consapevolezza.

 

 

Le tre diverse fasi della pratica – come da noi prospettata – prevedono quindi lo sviluppo della consapevolezza attraverso il controllo della Posizione, della  Respirazione e della Mente.

 

1 – LA  POSIZIONE NELLA PRATICA MEDITATIVA  (ASANA)

 

Nella  tradizione orientale, in un contesto in cui le persone erano abituate sin dalla  nascita a sedere per terra a gambe incrociate, la posizione del meditante è stata sempre, pur nelle sue varianti, sostanzialmente  tale.

 

Classica è quella ‘del loto’ (padmasana): è evidente che un occidentale solo con un assiduo allenamento e con qualche rischio per le proprie giunture riesce, generalmente , ad assumerla, visto che si realizza appoggiando il piede sinistro sulla coscia destra ed il destro sulla coscia sinistra.

 

Più accessibile ad un occidentale è la  ‘posizione perfetta’ (siddhasana) poiché prevede solo l’accostarsi della pianta del piede destro alla coscia sinistra ed il poggiare del piede sinistro sulla coscia destra.

 

La più facile delle posizioni ‘meditative’ è, comunque, la ‘sukhasana’ o ‘ posizione piacevole’, riservata a coloro che sono troppo rigidi per assumere le precedenti. In questo caso il piede sinistro va posto in contatto con la parte interna della coscia destra ed il piede destro deve fare altrettanto con la coscia sinistra.

Tale asana diventa ancora più agevole se si alza il livello delle natiche ponendole su di uno o più cuscini.

 

Quantomeno all’inizio della pratica meditativa, in occidente si consente l’uso di una sedia o poltroncina. Tale prassi è opportuna e deve essere protratta fintantoché non si riesca ad assumere almeno la sukhasana, visto che qualsiasi fastidio fisico renderebbe subito difficoltosa, se non impossibile, qualsiasi concentrazione.

 

Dopo aver stabilizzato la propria postura si deve curare la perfetta verticalità della spina dorsale, ciò al fine di evitare contrazioni muscolari (conseguenti a posizioni non bilanciate) e di far scorrere così più agevolmente le energie vitali lungo l’asse cerebro-spinale. Poiché spesso in occidente, per motivi di lavoro o di studio, si è soliti essere leggermente curvi in avanti, si consiglia di piegare preliminarmente la schiena all’indietro per un po’ di secondi per elasticizzarla e farle assumere più naturalmente la posizione eretta.   Una corretta posizione della spina dorsale (dritta ma rilassata) facilita la immobilizzazione e la stabilizzazione dell’asana.; per trovare nel proprio corpo il ‘centro di gravità’ si può far oscillare lievemente il busto (avanti-indietro, destra-sinistra) o ruotarlo. Se si effettuano questi movimenti dolcemente, spostando l’attenzione all’altezza dell’ombelico, si avvertirà il momento in cui si è conseguita una posizione di ‘stabile radicamento’.

 

Le mani possono essere poggiate sulle ginocchia (indifferentemente con le palme rivolte verso l’alto o il basso) o si possono unire in grembo (l’una poggiata sull’altra e congiungendo i pollici).

 

Compiuti questi passi preliminari in un ambiente privo di luci eccessive e di fastidiosi rumori o odori, si chiudano gli occhi.

 

 

2 – IL  RESPIRO

A – CENNI DI FISIOLOGIA

Una corretta respirazione fisica è non solo la base di una piena salute ma anche il presupposto di un atteggiamento psichico corretto.

Fisicamente con l’ispirazione dobbiamo far sì che l’aria raggiunga le parti profonde del polmone per farla entrare in contatto con la membrana alveolo-capillare dove l’ossigeno passa dall’aria al sangue e l’anidride carbonica lascia il sangue venendo emessa con l’aria espirata. E’ cosi che il sangue venoso, ricco di anidride carbonica, si trasforma in arterioso,  ricco di ossigeno, cioè di un gas fondamentale per l’intero organismo.

All’interno dei polmoni avvengono insomma gli scambi gassosi necessari per la nostra sopravvivenza, tuttavia gli occidentali adulti, in genere, non respirano correttamente perché è carente o del tutto assente la fase diaframmatica della respirazione.

Infatti durante la inspirazione non si dovrebbe solo  allargare le costole ma si dovrebbe anche abbassare il diaframma per aumentare, com’è naturale, il volume dell’aria introdotta. Il diaframma è un muscolo che forma una sorta di cupola  separante il torace dall’addome; in una respirazione fisiologicamente corretta esso dovrebbe comportarsi come uno stantuffo, abbassandosi durante l’inspirazione ed innalzandosi durante l’espirazione: (l’occidentale adulto, quando viene invitato ad ispirare al massimo delle sue potenzialità pressoché sempre  fa salire e non scendere il diaframma mandando al di dentro lo stomaco ed il ventre ed allargando la sola cassa toracica…)

La capacità di escursione del diaframma è di circa 7-8 centimetri ma durante la respirazione a riposo il suo movimento è di soli 1,5 centimetri, il che significa una immissione di circa mezzo litro di aria. Nella respirazione profonda, quando quel muscolo si muove in tutta la sua capacità, la quantità di aria movimentata è di circa 2,8 litri. Per quanto detto è chiara l’importanza di una respirazione che includa la mobilizzazione del diaframma nell’atto respiratorio: proprio la scienza occidentale con i suoi rigorosi studi ha dimostrato l’importanza di quella funzione anche ai fini di una efficiente circolazione sanguigna e di una efficace digestione. Nell’arco di una giornata il diaframma movimenta una quantità di sangue quattro volte superiore a quella del cuore, provvedendo per di più alla rimozione delle stasi circolatorie della cavità addominale e del piccolo bacino (pelvi) oltre che degli arti inferiori.

E’ ormai opinione diffusa in ambito scientifico che la ridotta motilità del diaframma sia da connettersi ad una cronica contrazione muscolare dovuta a tensioni psichiche   accumulatesi in noi dal momento della nascita in poi e di cui, nella quasi generalità dei casi, noi esseri umani non sappiamo liberarci.

Possiamo farlo solo se prendiamo coscienza della situazione organica e ne capiamo le correlazioni emotive profonde.

La conseguenza è che per respirare bene bisogna saper liberare l’animo da ogni eccesso tensivo  ma è anche vero il contrario; per cui se intenzionalmente si respira in modo ampio e pacato la stessa mente  tende a distendersi favorendo così il ‘circolo virtuoso’ di una corretta respirazione. E’ facile notare come sia impossibile che una persona che respiri troppo in fretta non sia agitata anche mentalmente e come invece si possa sciogliere una tensione momentanea con uno o più respiri lenti e profondi.

La maggior parte delle persone ha necessità di rieducarsi ad un  sano e naturale atto respiratorio ma ciò non deve tradursi in una pratica di forzata ‘respirazione a mantice’; la semplice osservazione del respiro, placando anche la mente, tende a ‘riallinearlo’verso quella ‘spontaneità fisiologica che possiamo osservare nei neonati.

In essi si può vedere come l’onda respiratoria proceda dal basso verso l’alto movendosi dal bacino fino alla bocca con l’inspirazione per poi volgersi al contrario con l’espirazione.

Una respirazione sana è un’azione di tutto il corpo.

Dal punto di vista della ‘respirazione sottile’ la tradizione orientale sostiene che con l’inspiro l’energia viene assorbita e ‘succhiata’, ‘aspirata’ e fatta ‘ascendere’ verso l’alto, al contrario accade con l’espiro; la percezione e l’intensificazione di tale ‘circolazione naturale’ della bioenergia sono alla base di molte pratiche meditative.

 

E’ per questo che prendere contatto ed ‘esplorare’ la propria anima coincide letteralmente col prendere contatto con il proprio respiro e penetrarlo con la propria coscienza.

 

Per quanto detto, dunque, la tradizionale tecnica yoga dell’osservazione del respiro si propone due finalità:

1)      spostare la coscienza sul piano ‘sottile’(che corrisponde alla dimensione metafisica  più prossima a quella ‘materiale’);

2)      offrire alla concentrazione mentale un supporto agevole poiché facilmente percepibile, biologicamente ininterrotto e, quindi, sempre disponibile.

Poiché gli antichi yoghin hanno sempre affermato che “ il prana si dirige là  dove si dirige la mente “, la scienza del respiro si propone tre scopi fondamentali:

1)      l’accrescimento ed il corretto fluire della nostra energia vitale;

2)      il controllo dei nostri stati emotivi;

3)      lo stato di concentrazione mentale.

 

B – LA PRATICA  DELL’OSSERVAZIONE DEL RESPIRO

In lingua ‘ pali’ (l’idioma con cui è stato redatto l’antico canone buddista) il termine ‘anapanasati’ indica   una tecnica yoga  imperniata sulla  costante consapevolezza (sati) dell’inspiro (ana)  e dell’espiro (apana).

E’ un’antica e comprovata via di armonizzazione psico-somatica e di realizzazione spirituale, particolarmente adatta però anche ai nostri tempi per la sua semplicità ed efficacia.

Essa parte dalla constatazione  che la funzione del respiro è, tra tutte quelle vitali (si pensi al battito cardiaco, alla circolazione sanguigna, ai processi digestivi ed escretivi etc.) quella che più agevolmente può essere seguita dalla nostra coscienza e  divenire così  un naturale tramite verso le dimensioni e le energie più sottili del nostro corpo e della realtà.

L’esperienza di generazioni e generazioni  di yoghin   ha confermato   infatti che è possibile, con un’assidua pratica, passare dalla percezione puramente fisiologica, ‘materiale’, del respiro ad una  più intima e ‘sottile’ grazie alla quale non viene avvertita solo l’aria che entra ed esce dai polmoni, ma si percepisce anche la ‘forza vitale’ (‘prana’ in sanscrito,’pana’ in lingua pali) che guida ed induce il movimento fisico della respirazione.

 

Di questa ‘forza vitale’ nulla sa ancora la scienza occidentale che ne nega generalmente l’esistenza per il semplice fatto di non poterla ‘verificare’ nei propri laboratori…  Ma contro la presunzione scientista  dei moderni  si erge la concorde tradizione spirituale di tutti i popoli antichi d’Occidente e d’Oriente.

In particolar modo questi ultimi seppero elaborare numerose tecniche per lo sviluppo di una percezione ‘chiara e distinta’ di quella energia cosmica di cui l’attività respiratoria è una ‘trasposizione’ sul piano delle funzioni organiche.

Il prana – precisa lo studioso Julius Evola- non è il respiro comune ma è il respiro realizzato nel suo aspetto sottile: punto, questo, tanto essenziale quanto trascurato dalle volgarizzazioni occidentali dello yoga dove il pranayama (controllo ed arresto del respiro) spesso finisce col presentarsi come una specie di ginnastica respiratoria (che esso anche in tale forma possa essere utile nell’ambito della comune esistenza profana, ciò non cambia nulla alla cosa). Si è parlato, pertanto, della smaterializzazione e della interiorizzazione del soffio e della funzione del respiro, appunto fino ad avere l’esperienza del prana; il fatto che nei testi si parli di un prana diretto su questa o quella parte del corpo o da sentire in tutto il corpo, non nel solo apparato respiratorio polmonare, indica chiaramente che non è al respiro nella forma comune che si allude”.[7]

 

Per di più i saggi  antichi delle più diverse culture colsero la correlazione tra questo respiro sottile agente sul piano organico-vitale e le energie superiori della mente.

Questo è il motivo, in effetti, per il quale una così profonda  e fondamentale intuizione, capace di condurre  l’Uomo alle sorgenti stesse della Vita e della Conoscenza, è testimoniata costantemente persino dagli usi linguistici di tutte le più remote civiltà.

In effetti, se il termine ‘prana’ nell’antico sanscrito ha il duplice significato di ‘respiro fisico’ e di ‘respiro sottile ’(su cui ‘poggia’ la coscienza)  altrettanto accade nella lingua greca e in quella latina dacché  i termini  ‘pnèuma’ e ‘psichè’ così come ‘anima’ e ‘spiritus’ hanno esattamente le medesime valenze.

 

 

Dopo aver assunto, dunque, una postura corretta e stabile si rivolga per qualche secondo l’attenzione alla condizione generale del corpo per sciogliere eventuali tensioni muscolari; se necessario si modifichi la posizione fino a trovarne un’altra che non crei tensione.

Si sposti la coscienza verso la respirazione e si percepisca distintamente l’aria che entra nelle narici e che ne esce: è questa propriamente la tecnica ‘anapanasati’.

 

E’ essenziale che non si forzi mai il naturale ritmo del respiro.

 

Nella tradizione orientale in genere, ed indiana in particolare, la coscienza viene fissata, durante la prassi, alla radice del naso, tra le due sopracciglia, su quel punto cioè in cui la tradizione esoterica di quel paese colloca il ‘terzo occhio’, l’‘ajna chakra’, l’organo della ‘visione spirituale’. Alcuni meditanti trovano naturale durante la pratica il volgere gli occhi verso quel punto tenendo socchiuse le palpebre: in effetti può essere un  buon  espediente per la stabilizzazione della concentrazione e volgerla a fini d’intuizione conoscitiva nella pura sfera metafisica.

In altre tradizioni, come quella giapponese, ci si concentra e si  volge invece lo sguardo verso l’ombelico ( lo hara): in tal caso, corrispondentemente, il prana  viene percepito ed assimilato nella sua qualità più ‘bassa’di energia ’fisica’, di forza muscolare, non a caso tale prassi era diffusissima presso i samurai ed in genere nella pratica dello zen.

Altri effetti ancora ha tale concentrazione sul respiro se, durante tale prassi, si colloca la coscienza a livello del cuore: ciò intensifica la sentimentalità; è successo a molti mistici devozionali, anche cristiani, la cui conseguente condizione estatica si sostanzia ed evidenzia come puramente e fortemente emotiva, dunque intensa e piacevole ma per nulla lucida noeticamente.

E così via dicendo: il principio sito al fondo di tale fenomeno è che la qualità dell’esperienza ‘energetica’, cioè del prana che viene introiettato, è corrispondente al livello a cui si pone la coscienza per il semplice fatto che il prana segue la coscienza a livello della corporeità sottile collegandosi ai relativi chakra.

 

Nella tradizione del buddismo hinayana sono indicati altri cinque modi per poter collegare stabilmente la coscienza al flusso del respiro:

 

-          un primo metodo (che alcuni vogliono più adatto ai principianti) prevede che si  segua con la coscienza il respiro nel suo passaggio progressivo dalle narici alla gola, ai polmoni e poi al contrario  col movimento di espulsione dell’aria;

-          un secondo (usato sovente nelle scuole zen) consiste nel fissare la coscienza non su un punto del corpo ma sul puro conteggio dei respiri. Con il numero  ‘1’ , recitato mentalmente, si accompagna il primo ciclo inspiro-espiro, col   ‘2’ il ciclo successivo etc.; ciò fino al ‘10’, poi si ricomincia. In tale modalità tecnica è previsto che, ad ogni distrazione, si riinizi il conteggio;

-          un terzo consiste nell’accompagnare l’atto respiratorio con ‘suoni mistici’ ovvero ‘mantra’ (ad esempio: ‘ham’ per l’inspiro e ‘sah’ per l’espiro)  o parole ( inspirando si può dire ‘pace’ ed altrettanto espirando);

-          un quarto utilizza la nostra capacità di visualizzazione:si può  immaginare una corrente di energia luminosa che entra ed esce alternativamente dal nostro organismo;

-          infine si può fissare l’attenzione sulla sensazione complessiva del riempirsi con l’inspirazione e dello svuotarsi con l’espirazione.

 

Sia che la concentrazione sul  respiro poggi su di una sensazione localizzata ( narici, gola, polmoni, cuore, ventre), sia che utilizzi la visualizzazione di forme, colori, suoni o l’evocazione di sentimenti ed emozioni, l’importante è che nel corso di ogni seduta si usi una sola di tali modalità.

Però, dopo aver individuato tra esse quella per noi più piacevole e funzionale, bisogna persistere in essa nelle sedute successive.

Si scoprirà così che la costante attenzione al naturale processo del respiro ne  rallenta il ritmo e ne sviluppa la percezione sottile, descritta dai meditanti per lo più come un ‘soffio’ o ‘fremito’ leggero, oppure come un pervadente e piacevole ‘calore’, capaci di permeare l’intero organismo.

In realtà il flusso del prana è sempre presente nel nostro organismo ma si intensifica ( e/o lo si percepisce più chiaramente) quando la coscienza si focalizza su di esso.

Se si volge l’attenzione sul respiro lo si ‘innalza’, lo si rende meno ‘denso’, meno ‘corporeo’, lo si ‘spiritualizza’; il prana da forza organica si trasforma progressivamente in  forza spirituale.

Quello che si finisce per avvertire non è più il flusso dell’aria ed il muoversi della cassa toracica ma il flusso del prana nel sistema energetico sottile dell’intero organismo.

Si acquisirà un senso di benessere e di forte vitalità.

La semplice osservazione del respiro ne sublima l’energia (sublimare in latino significa appunto ‘portare in alto qualcosa’ giacché il termine sublimis indica ciò che è in alto, ciò che è elevato e nobile) cosicché l’energia biologica trasmuta (alchemicamente…) in forza della coscienza attivando i chakra superiori (il piombo diventa oro…).

 

Avviene un percepibile cambiamento del sistema energetico dell’intero corpo e si respira con l’intero organismo quella che gli antichi chiamavano una ‘ forza di luce’.

 

Si ricordi sempre che l’anapanasati ha lo scopo di sviluppare (al di là delle  differenti ma equivalenti modalità esecutive) una capacità di concentrazione che, una volta acquisita, comporta di per sé un innalzamento del livello di coscienza, cioè della propria qualità spirituale, oltre che intellettuale.

 

Il respiro per gli antichi saggi è un ponte tra il conscio e l’ inconscio, tra l’umano e il divino.

Il respiro, ‘sottilizzato’, tenderà ad assumere un andamento più regolare pacificando il mentale (manas) e superando quella aritmicità che lo caratterizza nella ordinaria vita di veglia; procedendo sempre più in profondità nella pratica si giunge ‘naturalmente’, senza sforzo, a stati estatici di sospensione del respiro.

L’esperienza yoghica sottolinea costantemente questo fenomeno: “ Chi arresta il respiro arresta anche l’attività del manas; chi ha dominato il manas  domina anche il respiro” dice un testo classico indiano, lo Hathayogapradipika  (IV, 21).

 

Una illuminante descrizione della tecnica della ‘consapevolezza del respiro’ ci è stata data proprio dal già citato Bhagwan Shree Rajneesh che si farà chiamare Osho negli ultimi anni della sua vita (1931-1990):

 

“Buddha inventò un metodo per creare dentro di sé un intimo “ sole “ di consapevolezza, ed è una delle tecniche più potenti ed efficaci. Essa non si limita infatti a creare un’intima consapevolezza, ma è tale da far sì che, simultaneamente, questa si diffonda nel corpo fino a compenetrare di sé le cellule più remote, la totalità dell’essere individuale. Il metodo escogitato da Buddha è noto come  ‘anapana-sati yoga’,  lo yoga della consapevolezza dell’inspirazione e dell’espirazione, dell’ingresso e dell’egresso del “respiro”.

Noi respiriamo, ma la nostra attività respiratoria è inconscia. Il  respiro è  prana, il respiro è l’élan vital  (“la vitalità, la vita vera”), eppure è inconscio. Non avete coscienza della vostra attività respiratoria; e se tale consapevolezza fosse necessaria per respirare, non sopravvivereste a lungo. Presto o tardi finireste per dimenticarvene. Non è possibile continuare a ricordarsi di tutto.

La respirazione è una connessione fra i nostri sistemi volontario ed involontario. Possiamo controllarla in una certa misura, possiamo anche trattenere il fiato per un po’, ma ci è impossibile arrestare permanentemente l’attività respiratoria. Anche in coma da mesi, continueremo nondimeno a respirare. E’ un meccanismo inconscio.

Buddha usa la respirazione per perseguire simultaneamente due finalità: l’una è la creazione della coscienza e l’altra tende invece a far sì che tale coscienza vada a compenetrare di sé le stesse cellule del corpo fisico. “ Abbiate coscienza della vostra respirazione”, disse. E con ciò non intendeva affatto riferirsi al  pranayama (la respirazione controllata yoghica). Si tratta unicamente di fare della propria respirazione un oggetto di consapevolezza, non certo di mutarla.

Non c’è alcun bisogno di intervenire sul ritmo respiratorio. Lasciatelo così com’è, naturale. Non mutatelo. Ma durante l’attività   respiratoria siate consci. Fate sì che la vostra coscienza segua l’inalazione dell’aria; e mentre espirate, che la vostra coscienza segua l’esalazione!

Muovetevi col respiro; riservate ad esso la vostra attenzione; fluite con esso. Non scordate neppure una singola espirazione o inspirazione. Si racconta che Buddha affermò che bastava avere consapevolezza della propria respirazione anche solo per un’ora per conseguire la illuminazione. Non ci si deve però perdere un solo respiro!

Un’ora è sufficiente. Sembra un minutissimo frammento di tempo, ma non lo è. Quando si cerchi di essere consapevoli, un’ora può sembrare un millennio, giacché solitamente non si riesce a restare consci per più di cinque o al massimo sei secondi, e anche questa è un’impresa possibile soltanto a persone molto vigilanti. La maggior parte di noi si perde quasi ogni secondo. E’ possibile che vi sforziate a seguire consciamente un’inspirazione, ma non fate neppure a tempo a completarla che siete già altrove. D’un tratto vi sovviene che state espirando, o avete già espirato…ma eravate altrove.

Essere consci della propria attività respiratoria significa inibire ogni pensiero, poiché pensare distrarrebbe la vostra attenzione. Ma Buddha non disse mai: “Cessate di pensare”. Disse soltanto: “Respirate consciamente”. Non è possibile respirare consciamente e pensare al tempo stesso. Se un pensiero si fa strada nella vostra mente, la vostra attenzione sarà sviata dalla respirazione. Basta un unico pensiero e sarete divenuti inconsapevoli del processo respiratorio.

Buddha adottò questa tecnica, semplicissima ma essenziale. “Continuate pure a fare quel che state facendo”, era solito dire ai suoi bhiksu (monaci), “ma di una cosa semplicissima non vi dovete mai scordare: rammentate l’inspirazione e l’espirazione. Muovetevi con    il    respiro;    fluite   con esso “.

Più cercherete di farlo, più vi applicherete a questo compito, e più diverrete consci. E’ arduo, è difficile, ma una volta che sarete riusciti a farlo sarete divenuti un essere completamente differente in un mondo totalmente differente: una persona diversa.

Ma ben altro è anche l’effetto del metodo. Quando inspirate ed espirate consciamente, vi venite a poco a poco avvicinando al vostro centro, poiché il respiro va a toccare il vero centro del vostro essere. Ad ogni inspirazione, il respiro va a toccare il centro del vostro essere.

Voi siete soliti pensare al respiro sotto l’aspetto fisiologico come a una purificazione del vostro sangue, come a una funzione esclusivamente fisica. Ma se comincerete a esserne consapevoli, approfondirete pian piano il fenomeno oltre il puro aspetto fisiologico, finché un giorno comincerete a percepire il vostro centro, nell’immediata prossimità del vostro ombelico.

Ciò vi sarà possibile però soltanto se muoverete assieme al respiro senza la minima distrazione; più però giungete vicini al centro di voi stessi e più trovate difficile mantenervi consapevoli. Potete cominciare dall’inspirazione. Iniziate a essere consci dell’aria inspirata dal momento stesso in cui essa fa il suo ingresso nel vostro naso. Più essa si addentrerà in voi e più la consapevolezza diverrà ardua. Sorgerà un pensiero, o un suono, accadrà qualcosa, e ve ne farete sviare.

Se riuscirete a spingervi fin dove è il centro di voi stessi, là per un breve istante il respiro cessa e c’è una pausa. Fra l’inspirazione e l’espirazione si apre un fuggevole intervallo. Quella pausa, quell’intervallo, è il centro di voi stessi.

Dovrete praticare a lungo la consapevolezza del respiro, ma quando sarete finalmente capaci di seguirlo fino in fondo, di esserne totalmente coscienti, conseguirete anche la consapevolezza della pausa  che si apre quando il respiro si arresta. Allora non ci sono più né inspirazione né espirazione. In quell’attimo indefinibile di pausa fra i moti respiratori siete al centro di voi stessi. La consapevolezza del processo respiratorio fu adottata quindi dal Buddha come un metodo per approssimarsi sempre più al centro di sé.

Mentre espirate, seguite consciamente l’esalazione del respiro. Troverete un’altra pausa. Due sono gli intervalli: uno al termine dell’inspirazione e prima dell’espirazione, l’altro quando si è esalata completamente l’aria introdotta e non se ne è ancora inalata di nuova. E il secondo è ancora più difficile da avvertire.

Là, fra l’inspirazione e l’espirazione, giungete al centro di voi stessi. Ma esiste un altro centro, il cosmico. Potete chiamarlo “Dio” se vi garba. Il centro cosmico è nella pausa che intercorre fra l’espirazione e l’inspirazione. Questi due centri non sono differenti fra di loro. Dapprima diverrete consapevoli del vostro centro interiore e quindi del vostro centro esterno; ma finirete per scoprire, in definitiva, la loro sostanziale identità. “Fuori” e “dentro” perderanno allora il loro significato.

“Seguite consciamente la vostra attività respiratoria”, afferma il Buddha, “e creerete in voi un centro di consapevolezza”. Quando ciò sarà avvenuto, la consapevolezza comincia a diffondersi fino a raggiungere le cellule più remote del vostro corpo, giacché a ogni cellula è indispensabile l’ossigeno: ogni cellula, per così dire, respira.

Gli scienziati affermano oggi che anche la terra respira. Quando l’universo inspira, si espande, e quando l’universo espira, si contrae. Nelle antiche scritture hindu   (purana) si narra che la creazione è un respiro di Brama – un’inalazione – e che l’espirazione significherà la distruzione (pralaya ), la fine del mondo. Ogni respiro una creazione.

In miniatura, su scala atomica, in voi si verifica lo stesso. E quando in voi la consapevolezza si sarà identificata con la respirazione, respirare la diffonderà in voi a livello cellulare. Allora il vostro corpo diverrà l’universo intero. Anzi, in realtà non avrete affatto un corpo materiale: sarete pura Consapevolezza”.[8] 

 

Analoghe istruzioni vennero date dallo stesso maestro in un campo di meditazione tenuto in India nel febbraio del 1973:

 

“Nei Veda è detto che il respiro è Brama. Ed è vero, è una verità espressa in modo molto sottile. Il respiro è la tua vita, ed il respiro è anche il ponte che lega la tua parte cosciente e l’inconscio, il corpo e l’anima. Questo ponte deve essere usato. Se riesci ad usare questo ponte nel modo giusto, puoi raggiungere l’altra sponda.

Non hai mai osservato che il respiro cambia col cambiare delle emozioni? Quando sei arrabbiato, respiri in un certo modo; cerca di osservare come respiri quando sei in collera e poi, quando ti senti andare in collera, prova a respirare in maniera diversa: non riuscirai ad arrabbiarti. Ti puoi arrabbiare solo con una respirazione particolare.

Quando sei innamorato, osserva il tuo respiro: il suo ritmo, la musica, l’armonia. Disturba quell’armonia e l’amore svanirà. Oppure crea quell’armonia e apparirà l’amore.

Se riesci ad essere padrone del tuo respiro – ed è una scienza profonda – diventerai padrone delle tue emozioni. Mentre fai l’amore, osserva come respiri: quella respirazione è fondamentalmente legata all’atto sessuale. Non puoi far nulla che non sia profondamente collegato al respiro.

Se non cerchi di comprendere e di usare il tuo sistema respiratorio, non potrai entrare in meditazione. Il respiro è il ponte che lega la tua parte cosciente con l’inconscio. L’inconscio continua a cambiare il ritmo della tua respirazione, quindi se diventi consapevole di questo ritmo e dei suoi mutamenti continui, puoi acquistare consapevolezza delle tue radici inconsce, di come opera l’inconscio.

Di conseguenza, tramite il ritmo della respirazione, si possono conoscere molte cose, anche nel sonno: un osservatore può guardare il tuo respiro e saprà se stai avendo un sogno collerico. Se fai un sogno erotico lo si può osservare dall’esterno: sarà evidente in quanto il tuo respiro avrà un certo ritmo.

Se osservi il ritmo di respirazione di un Buddha, vedrai che è diverso dal tuo. Resta costantemente invariato. Mentre un Buddha dorme, il ritmo non cambia mai. Quando è sveglio, sia che parli o che stia in silenzio, il ritmo rimane invariato.

Quindi durante questo campo di meditazione, ognuno di voi dovrà prestare attenzione a tre elementi nella respirazione. Innanzitutto dovete respirare profondamente, per tutto il giorno. Con ritmo ed in silenzio. Non in modo forzato, ma profondo: lentamente e profondamente. Create un ritmo silenzioso e sentitevi rilassati in quel ritmo, non siate innaturali. E conservate quel ritmo per l’intera giornata. Ogni volta che ve lo ricordate, respirate profondamente, in maniera rilassata e silenziosa, con un ritmo musicale. Sentite la musica. Il respiro ha in sé la musica!

Come seconda cosa, osservate il vostro respiro, osservatelo. Quando espirate, uscite anche voi col respiro. Seguitelo!

Se riuscite ad osservare il respiro, diventerà profondo, silenzioso, ritmico. Seguendo il respiro cambierete moltissimo, perché questa costante consapevolezza del respiro, vi distaccherà dalla mente. L’energia che normalmente accompagna il  pensiero, passerà all’osservazione. Questa è l’alchimia della meditazione: trasformare l’energia impegnata nel pensiero in osservazione.

Come cambiare l’energia impegnata nel pensiero in osservazione? Qui tornano utili gli stratagemmi della meditazione: come non pensare e osservare, come non essere un pensatore ma un testimone.

Osservate il respiro per l’intera giornata. Ma non siate tesi. Se diventate tesi, si perde lo scopo. Rimate rilassati. Limitatevi ad osservare. Giocate, non trasformatelo in un impegno.

Ogni volta che ve lo ricordate, osservate il respiro. Se ve ne dimenticate, non è un male: ve ne siete dimenticati! Ma quando ve ne ricordate, riprendete ad osservare. Accadrà. Pian piano comincerete ad osservare. E attraverso questa osservazione, la qualità dell’energia cambierà. L’osservazione non vi darà spazio per pensare, sarà un ottimo diversivo.

Come terza cosa, usate il respiro come elemento di consapevolezza sia della vita che della morte. Quando espirate, l’espirazione è associata alla morte. Quando ispirate, il respiro è associato alla vita. Con ogni espirazione morite, e con ogni ispirazione rinascete. La vita e la morte non sono due cose separate, divise: sono una sola cosa. E ad ogni istante sono presenti entrambe”. [9]

 

SINTESI  DELLE ISTRUZIONI PRATICHE

1-      Creare un ambiente favorevole alla meditazione.

2-      Assumere una posizione comoda e cercare di verticalizzare la spina dorsale.

3-      Chiudere gli occhi.

4-      Portare l’attenzione al corpo e sciogliere le tensioni che vi si percepiscono.

5-      Volgere l’attenzione al respiro e lasciarlo fluire naturalmente.

6-      Portare la coscienza verso il ‘terzo occhio’ e sentire l’aria che entra ed esce nel punto sito proprio alla radice del naso, tra le due sopracciglia.

7-      A conclusione della seduta non alzarsi immediatamente; mantenendo la posizione rilassata per un po’ di minuti ancora, cercare di percepire, anche ad occhi aperti, la positività e la piacevolezza dello stato di coscienza raggiunto.

AVVERTENZE

-          Nei primi tempi della pratica è consigliabile utilizzare un  mantra accompagnando mentalmente l’inspiro con il suono: Ham e l’espiro con il suono Sah. Il respiro però non va sintonizzato sul suono: al contrario: il suono deve sempre seguire lo spontaneo fluire della respirazione.

-          Nella pratica potrà accadere che volgendo l’attenzione all’ajna chakra gli occhi tendano spontaneamente a volgersi verso l’alto, se ciò accade lo si deve intendere come un fatto positivo perché così si facilita la stabilizzazione della coscienza.

-          La concentrazione sul respiro ed il rilassamento che ne consegue aumenteranno le pause tra inspiro ed espiro: lasciate che si verifichino senza operare alcuna forzatura; il processo è naturale perché in quella condizione il corpo ha minor bisogno di ossigeno. Un respiro più lento calma il mentale e favorisce la percezione degli stati sottili della coscienza. Nel samadhi, in effetti, si verifica in genere una sospensione del respiro molto prolungata senza che il corpo ne riceva danno.

 

  C -       CAPIRE LA CONNESSIONE TRA IL RESPIRO  E   LA MENTE

Dopo aver preso  contatto con il corpo attraverso la pratica del rilassamento e fatto altrettanto con la nostra energia vitale attraverso l’osservazione del respiro, si può passare alla consapevolezza dei processi del pensiero

 

In effetti corpo, vita e mente (sòma, psichè e nous nella tradizione greca; corpus, anima e spiritus nella latina) sono  tre gradini che vanno affrontati in successione per l’evoluzione della coscienza

L’attenzione concentrata sul  respiro ci fa ‘capire’(o, meglio, ‘sentire’) la connessione tra esso e la coscienza.

 

Il respiro è la manifestazione fondamentale della vita.

Tra due atti respiratori si svolge l’intera nostra esistenza: nasciamo con un inspiro e moriamo con un espiro.

Per questo motivo in tutte le cultura umane il respiro è sinonimo di vita.

Nei miti di creazione Dio conferisce la vita agli esseri soffiando su di loro per infondervi l’energia del respiro che s’identifica spesso con il principio stesso ( o, quantomeno, con il fondamento)  della coscienza.

In effetti i termini che usiamo per indicare il principio  della consapevolezza, cioè ‘anima’ e ‘spirito’(usati sovente in modo intercambiabile) significano nient’altro che ‘respiro’.

‘Conoscere l’anima’ significa, quindi, conoscere il respiro.

 

La psychè greca indica propriamente il respiro con cui si manifesta la vita poiché il verbo psycho significa : respirare, soffiare; la psychè indica un principio di movimento, di vita e di coscienza.

Lo stesso vale per il termine pnéuma (vento, soffio, aria, respiro) che ha la stessa radice del verbo pnéo il quale, a sua volta, ha gli stessi significati di psycho.

Sia in Platone che in Plutarco esso indica anche il principio divino immanente nell’uomo e nel cosmo (pnéuma théion). Nel Nuovo Testamento diverrà lo Spirito Santo: Pnéuma ‘Aghion.

Quanto al termine ànemos (vento, soffio) esso è collegato ai verbi anemòomai che indica l’essere gonfiato dal vento e anemìzo che significa sia ‘ventilare’ che ‘navigare sospinto dal vento’.

 

La radice di ànemos è la stessa indoeuropea (nell’antico indiano: ani-ti) del latino ‘animus’ e ‘anima’. Con tali due termini si indica il respiro ma anche la mente, la coscienza, lo spirito, lo stato d’animo, il sentimento, il coraggio, il proposito etc. ed il verbo corrispondente ‘animare’ significa ‘riempire d’aria’ ma anche ‘vivificare’,’ridar vita’, ‘dare coraggio’.

Del tutto analogamente il termine spiritus indica il soffio d’aria, il respiro, il sospiro, l’espirazione, l’ispirazione, l’anima, la fierezza, il coraggio, la magnanimità, l’orgoglio, la superbia. Virgilio lo utilizzerà anche in senso cosmologico-spirituale come ‘anima del mondo’; nella teologia cristiana diverrà lo Spiritus Sanctus che si manifesta spesso come un vento soprannaturale, lo stesso vento che nel mondo classico preludeva alle teofanie.

Con ciò la Tradizione, cioè una comune sapienza ancestrale presente nelle più diverse culture, ha voluto significare che quando l’aria entra ed esce dai polmoni si ha correlativamente un coinvolgimento più sottile della nostra psiche.

Tutti possiamo constatare infatti come l’atto respiratorio vari al succedersi delle condizioni emotive quotidiane: la paura ce lo fa trattenere con una contrazione percepibile a livello del diaframma; uno stato di quiete interiore lo rende calmo e rilassato; in un momento di passione diviene intenso e vibrante; la gioia e l’eccitazione lo rendono più profondo e più rapido, mentre il terrore ed il panico ‘ pietrificano’ cioè generano apnea e blocchi respiratori paralizzanti…

Le contrazioni organiche di origine emotiva possono tenere cronicamente in tensione il diaframma, il torace, la gola.

L’apparente paradosso (che indica in realtà solo il principio di relazione biunivoca mente/corpo) è che solo respirando bene si sciolgono le tensioni psichiche ma, nel contempo, è altrettanto vero che solo sciogliendo le tensioni si può respirare bene.

Da dove cominciare dunque l’opera di trasformazione interiore?

La soluzione non è nella pratica di una qualche tecnica introspettiva specifica o di qualche pratica respiratoria particolare ma nello sviluppare congiuntamente la consapevolezza del respiro e quella delle emozioni capendone le correlazioni.

 

Ciò corrisponde, del resto, al principio generale che è la consapevolezza il solo, unico principio di trasformazione interiore al di là di ogni semplice espediente tecnico.

 

Se vogliamo radicare la meditazione nella vita, sarà perciò essenziale che la osservazione del respiro – e delle sue variazioni quantitative e qualitative – accompagni le nostre anche più minute vicende quotidiane ed il loro impatto emotivo.

In tal modo non solo capiremo ‘cerebralmente’ ma anche ‘verificheremo’ esistenzialmente (cioè ‘integralmente’, vale a dire anche ‘con il corpo’) una legge fondamentale che possiamo così formulare: il modo, il ritmo, la durata del respiro dipendono essenzialmente dalla nostra condizione emotiva e mentale, sia questa occasionale o strutturale, sia essa conscia o inconscia.

Proprio per tale rapporto d’interdipendenza è altrettanto vera la legge inversa: la nostra condizione emotiva, il nostro ‘ tono umorale ’ , il nostro stesso ‘ stato di coscienza ’ possono essere variati dal modo, dal ritmo, dalla  durata dell’atto fisico respiratorio.

Proprio per questo una respirazione armonizzata allontana gli stati negativi della mente.

Ma poiché alterare lo ‘ stato emotivo ’ della coscienza non è facile quanto alterare e modulare il respiro, sarà proprio con la sua armonizzazione e il suo controllo consapevole – ottenuto semplicemente come naturale sviluppo di una costante osservazione che potremo più facilmente ‘realizzare’ un cambiamento  del ‘tono di coscienza ’.

Si potrà così sviluppare un’armonica integrazione psico-somatica che indurrà una distinta sensazione di ben-essere.

 

La tradizione orientale legata alla pratica dell’anapanasati attesta che un graduale approfondimento della pratica di consapevolezza respiratoria – attraverso un progressivo rallentamento del ritmo ed una più intensa concentrazione – determina uno stato di serenità e poi ( ai livelli più avanzati ) condizioni di felicità e infine di beatitudine estatica.

Del resto le tradizioni religiose ed iniziatiche sono concordi nel sottolineare come all’apice dell’estasi (letteralmente = ‘uscita’ dal corpo)  il respiro resti come ‘sospeso’, quasi si arresti, oppure divenga ‘tenue’,’sottile’.

In tale condizione organica si realizza l’‘Unio mystica’  vale a dire appunto letteralmente/etimologicamente: l’ ‘unione misterica’ cioè ‘misteriosa e indicibile’, che i greci ottenevano ad Eleusi a conclusione dei riti iniziatici, quando la coscienza ‘usciva’  dai limiti del corpo e si univa ineffabilmente con il ‘divino’.

A volte i mistici e gli iniziati riferiscono che nell’empito dell’esperienza il loro  respiro s’arresta perché viene come aspirato verso l’alto, portato via dal    corpo ( significativamente: non aspiriamonoi al Divino, all’Assoluto alla Verità, alla Felicità, al Bene ecc., cioè a qualcosa che poniamo verso l’Alto?).

A tal punto  la coscienza s’invola verso un mondo più luminoso e beatifico: è il cosiddetto ‘rapimento estatico’.

Gli iniziati della tradizione yoga direbbero che la loro coscienza, in quella condizione, si fissa sui ‘centri spirituali (chakra) superiori (l’Alto) che collegano l’uomo al piano metafisico propriamente ‘spirituale’.

 

 

D  -  IL RESPIRO E LE EMOZIONI NELLA BIOENERGETICA E NELLA MEDITAZIONE

Se osserviamo gli organismi viventi ci rendiamo conto che in essi l’energia biologica si sviluppa e si manifesta attraverso dei processi alternati di carica e scarica, assimilazione ed eliminazione, contrazione ed espansione, tensione e distensione: la cellula, il torace, il cuore, gli organi digestivi, ogni parte dell’organismo che esprime una sana vitalità segue spontaneamente  quel ritmo pulsante alternato muovendosi tra le due polarità.

Nella tradizione esoterica si ritiene che l’organismo sano con l’atto respiratorio assimila aria ed energia sottile nella fase inspiratoria per poi cederle nella fase espiratoria.

Molte volte, tuttavia, accade che uno stato organico di contrazione cronica impedisce, limita, altera questo dinamismo fisiologico di accumulo e scarico.

Quando tale situazione giunge ad incidere sull’atto respiratorio si manifesta un blocco o una alterazione della ispirazione e/o della espirazione.

Nella nostra civiltà iperattiva ed ipertensiva per lo più si verifica un blocco della espirazione il quale va inteso come sintomo di un riflusso energetico più o meno parzialmente impedito e quindi di una inefficace decontrazione.

Un’energia bloccata nel corpo determina una varia e vasta gamma di manifestazioni sia somatiche che psichiche indicanti tutte un eccesso di carica di energia nervosa: da uno stato di eccitazione, tensione, suscettibilità, irritabilità, scontentezza, ansietà, nervosismo, sino alla comparsa di spasmi, crampi, paralisi etc.

Ciò accade quando è alterata l’unità del movimento armonico di pulsazione, una condizione che può riguardare le cellule, i tessuti muscolari, gli organi, l’intero corpo.

La stessa bioenergetica contemporanea, da Reich a Lowen, a Pierrakos, a Boadella, a Navarro, in  effetti ha dimostrato sperimentalmente che un blocco somatico è in realtà un sintomo.

Esso è espressione di una emozione trattenuta nell’organismo, cioè inibita.

In effetti sia il termine ‘espressione’ (dal latino ex-premere, che propriamente significa ‘spremere’, ‘cavar fuori’ e quindi ‘manifestare’) che quello di ‘emozione’ (da ex-movere) indicano di per sé un atto di esteriorizzazione che nasce da un impulso interno.

Ogni emozione si colloca in qualche parte del corpo.

Quando un’emozione viene espressa è un’energia che si libera secondo un processo ‘spontaneo’.

L’impossibilità, l’incapacità di esprimere le emozioni (la ‘repressione’, dal prefisso ‘re’ usato con il significato di ‘indietro’ e ‘premere’) impedisce quindi fisiologicamente la naturale circolazione energetica del corpo.

Un blocco energetico pertanto racchiude sempre in sé sia la psiche (emozione) che il corpo (espressione).

Anche in questo caso è estremamente utile conoscere le etimologie dei termini utilizzati sia tecnicamente che correntemente per descriversi i meccanismi psichici messi in opera nelle situazioni appena descritte.

Il termine ‘rimozione’ con cui si indica in psicanalisi il processo inconscio (e quindi distinto dalla ‘repressione’ che avviene nello spazio della consapevolezza) attraverso il quale l’individuo  censura ed esclude dalla coscienza idee, ricordi, affetti legati ad una pulsione che contrasta con l’Io e il Super-Io, è costituito dal prefisso ‘re’(usato in tal caso per indicare un’azione reiterata) e movere. Pertanto significa: muovere di nuovo e, quindi, togliere, allontanare qualcosa che era presente..

Una repressione prolungata nel tempo determina poi una ‘inibizione’che dal latino ‘in’ e ‘habere’ indica appunto l’avere in sé, il trattenere, il frenare e dunque quel processo psichico che impedisce ad altri processi di affiorare alla coscienza ma anche il conseguente stato d’impossibilità ed incapacità espressiva.

Altri termini come impulsi, pulsioni  celano, a ben considerare, lo stesso significato bioenergetico poiché fanno riferimento ad una energia che ‘spinge verso’ essendo desunti dal verbo latino ‘pellere’.

La pulsione in psicoanalisi è appunto quello stimolo psicofisico che è collegato all’energia libidica che si orienta verso un oggetto.

Per questo ogni pulsione tende per sua natura alla ex-pulsione, cioè alla ‘esteriorizzazione’ che non è altro che il manifestarsi verso l’esterno di una energia interna.

 

La tensione muscolare ed il blocco emozionale sono pertanto legati da un principio di identità funzionale, in altri termini sono due aspetti dello stesso fenomeno che nella dimensione ‘esterna’ (vale a dire corporea) si manifesta come tensione organica, nella sua dimensione interna (vale a dire psichica) si connota come un’ emozione trattenuta.

 

Analoga correlazione c’è tra reazione emotiva inibita ed insufficienza respiratoria.

Un’attività respiratoria carente per fluidità ed ampiezza blocca ed altera il flusso delle sensazioni e delle emozioni nel corpo e – in un perfetto circolo vizioso – l’alterazione del flusso delle sensazioni e delle emozioni induce e consolida l’alterazione dell’atto respiratorio.

In una tale situazione lo spirito/respiro si sente ‘soffocato’, imprigionato, e può cadere in uno stato di sorda sofferenza.

 

Tutti gli studi condotti su tale ‘meccanismo’ sono concordi nel sostenere che esso inizia quasi sempre sin dall’infanzia per la necessità dell’individuo di controllare ed eliminare dallo spazio della propria coscienza tutte quelle emozioni e sensazioni che vengono percepite come ‘dolorose’ e/o ‘pericolose’. In particolare sono avvertite come ‘pericolose’ tutte quelle emozioni che, se svelate, cioè espresse, sono capaci di scatenare la reazione aggressiva del mondo esterno in particolar modo delle figure genitoriali.

 

Nel conflitto esistenziale tra bisogno espressivo e paura dell’espressione  si forma, attraverso un compromesso, il nostro io ‘sociale’, ma in tal modo l’io, più o meno gravemente, perde la libertà di essere se stesso, la sua spontaneità, la sua creatività, la sua sana naturalità, insomma la  necessaria correlazione tra il suo mondo interno e quello esterno; per di più anche esteriormente si può percepire facilmente come, in tal caso, il corpo diventi poco ’vitale’ e reattivo.

L’io dolorosamente si scinde, si dis-integra, e non si riconosce più nei suoi bisogni corporei ed emotivi, non è  più una coscienza collegata e radicata nel corpo ma ha un corpo e delle pulsioni che deve compulsivamente controllare ed inibire e con cui deve quindi entrare in conflitto.

L’io scisso si sente solo un cogito, solo mente, s’identifica solo con ciò che è volontario e controllabile, si riduce spesso ad una pura ed astratta consapevolezza: una testa senza corpo.

Per questo tutte le tecniche bioenergetiche (che agiscono a partire dal corpo) e quelle più latamente psicologiche ( che intervengono prioritariamente sulla mente) devono tendere alla re-integrazione della coscienza e del corpo. L’io si risana, a tale livello, solo se ristabilisce un rapporto armonico tra il suo sentire ed il suo esprimersi, il suo agire, liberando le sue emozioni sepolte e rivivendo catarticamente il suo passato.

 

Questo meccanismo, secondo Reich, determina la comparsa di quella stabile struttura difensiva dell’io che noi chiamiamo ‘carattere’, una sorta di ‘armatura’ radicata nella nostra ‘memoria emotiva’, a sua volta legata all’apparato neuro-muscolare.

Per questo nelle sue opere Alexander Lowen, il più importante discepolo di Reich, ha sempre sottolineato la necessità di attuare ‘esercizi espressivi’ per recuperare la capacità di esternare i propri sentimenti e recuperare così una sana vitalità:

 

La inibizione della espressione emozionale porta ad una perdita di sensibilità e la perdita di sensibilità è perdita di vitalità. I sentimenti sono la vita del corpo così come i pensieri sono la vita della mente.   I bambini reprimono gran parte delle loro emozioni per adattarsi alle condizioni dell’ambiente familiare. Cominciano col trattenere le espressioni di paura, di rabbia, di tristezza e di gioia, perché pensano che i loro genitori non siano in grado di confrontarsi con questi sentimenti. Di conseguenza diventano o sottomessi o ribelli; né l’uno né l’altro di questi due atteggiamenti rappresenta una espressione genuina di sentimento: la ribellione è spesso la copertura del bisogno, mentre la sottomissione è spesso la negazione della rabbia e della paura.   I sentimenti sorgono come impulsi o movimenti spontanei del centro vitale dell’individuo. Per reprimere un sentimento bisogna smorzare e limitare la vitalità e la motilità del corpo. Così, lo sforzo per reprimere un sentimento diminuisce necessariamente tutto il sentire…Lavorando sull’espressione del sentire nella terapia, e in corsi di esercizi, o a casa, si aiuta l’individuo  a entrare in contatto con alcuni dei sentimenti repressi nella propria personalità.” [10]

 

In effetti nella prassi della terapia bioenergetica si guidano i partecipanti ai corsi a esprimere con tutto il corpo le proprie emozioni con modalità, a volte, di grande impatto (urla, pianti, singhiozzi, gemiti, menate di colpi con braccia o gambe, scuotimenti etc.). Il risultato di tali esercizi è l’abreazione o catarsi, fenomeno ben conosciuto sin dall’antichità ed a volte addirittura ritualizzato come nei misteri bacchici; fenomeno che è anche alla base delle riflessioni che hanno condotto Freud alla elaborazione della teoria psicanalitica.

E’ questo il motivo per cui lo stesso Lowen consiglia per i casi più gravi di conflitto emotivo di attuare gli esercizi da lui indicati in un contesto di controllo terapeutico.

 

La studiosa di bioenergetica Francesca Pruneri ha così sottolineato, ad esempio, la funzione del pianto nello scioglimento delle tensioni e l’importanza della espressione vocale delle nostre emozioni:

 

La pratica di Lowen si basa sul principio della identità funzionale fra tensione muscolare e blocco emozionale e sulla correlazione tra emozione emotiva inibita e insufficienza respiratoria. Infatti egli sottolinea come una insufficiente fluidità ed ampiezza respiratoria si rifletta in un disturbo del flusso delle sensazioni attraverso il corpo e quindi in un indebolimento della risposta emozionale agli eventi della vita. Ad una respirazione frammentaria farà riscontro una risposta emozionale conflittuale ed ambivalente…Le tensioni muscolari croniche che soffocano ed imprigionano lo spirito si sviluppano nell’infanzia per la necessità di controllare l’espressione di emozioni intense, come paura, tristezza, rabbia. Questi controlli non sono però sempre efficaci e a volte i sentimenti vengono espressi a dispetto di ogni tentativo di controllo dell’individuo. Finché non è risolto il conflitto tra il bisogno di esprimere i sentimenti e la paura dell’espressione, la persona non è libera di essere se stessa. Sono i sentimenti a fare paura, considerati come minacciosi e pericolosi, ma se nell’infanzia ciò era connesso alle conseguenze che sarebbero seguite all’espressione, nell’adulto i tratta di paura irrazionale. Il sentimento verso cui si tende ad essere più timorosi è la tristezza, in quanto può essere molto profonda.

Un significativo cambiamento può quindi avvenire solo ‘arrendendosi al corpo’ e rivivendo emotivamente il passato. Il primo passo di tale processo è il pianto.

Piangere significa accettare la realtà del presente e del passato. Quando ci abbandoniamo al pianto percepiamo la nostra tristezza e ci rendiamo conto di quanto siamo stati feriti o danneggiati. Non basta però un solo pianto a trasformarci, infatti lo scopo della terapia non è indurre il paziente a piangere, ma aiutarlo a recuperare la capacità di farlo liberamente e con facilità. Piangere non trasformerà il mondo esterno, ma trasformerà il mondo interiore liberando tensione e dolore…La produzione di lacrime è un meccanismo che scarica la tensione dagli occhi e in parte anche dal corpo, dato che il sentimento della tristezza lo ammorbidisce. Infatti se gli occhi sono ghiacciati dalla paura o contratti per il dolore, il fluire delle lacrime è un processo di scioglimento e addolcimento, simile allo sciogliersi dei ghiacci in primavera.

La capacità di versare lacrime è alla base della capacità di provare compassione vedendo il disagio di un’altra creatura, mentre con i singhiozzi esprimiamo una sofferenza profondamente nostra. Inoltre se il dolore è intenso e apparentemente insanabile, il pianto può prendere la forma di un gemito, un suono più continuo ed acuto che esprime un dolore molto profondo, percepito nel cuore. Infine appartiene alla categoria del pianto anche il lamento, un suono basso con un elemento di rassegnazione per un dolore che dura a lungo.

Da ciò si capisce che la voce è il canale di espressione di moltissimi sentimenti, e quindi dell’espressione di sé. Ogni limitazione alla voce costituisce una limitazione all’autoespressione e rappresenta una diminuzione del senso  di sé. Dato che tutti i pazienti che soffrono di qualche carenza di autostima si sentono quasi come se non avessero il diritto di parlare forte, è importante lavorare con la voce in una terapia che cerchi di rafforzare il sé. Infatti chi sia stato inibito ad esprimersi emozionalmente attraverso il suono, ad esempio piangendo, urlando o parlando ad alta voce, dovrà tornare in possesso di queste sue capacità represse per poter essere pienamente se stesso. Solo liberando l’urlo, il pianto o la sonorità inibiti, infatti, il paziente potrà tornare in contatto con gli aspetti rimossi della propria personalità che teneva imprigionati in una respirazione insufficiente”.[11]

 

Quando il deflusso delle energie emotive non avviene correttamente/naturalmente e vengono inibite e represse per lungo tempo, esse tendono a ‘sedimentarsi’ negli organi corporei determinando la malattia. Questa è così nient’altro, all’inizio, che un’alterazione bioenergetica che modifica la naturale funzionalità di un organo, di un apparato, di un intero organismo ma poi, se la condizione si cronicizza, avviene la ‘precipitazione’della ‘disarmonia’sul piano ‘organico’,  ove compare come alterazione somatica.

Ad uno studio attento della fenomenologia e della casistica di tali processi non può sfuggire il fatto che le energie inibite vengono sempre più potenziate dal grado d’intensità delle emozioni trattenute e dalla lunghezza del tempo in cui si permane in tale condizione.

Esse finiscono per ‘fissarsi’, spesso, in punti specifici del corpo a seconda del tipo di emozioni trattenute: i visceri se si trattiene la rabbia, il cuore se non ‘fluiscono’i sentimenti affettivi, la testa se si vive in un contesto in cui non può essere espresso palesemente il proprio pensiero…

Con il linguaggio ‘esoterico’ potremmo dire che la ‘disfunzione’ passa dal piano ‘sottile’(o ‘eterico’, ‘astrale’ che di si voglia) a quello ‘materiale’.

 

L’opinione della tradizione iniziatica collima quindi con le moderne ricerche bioenergetiche le quali tutte sostengono che quando reprimiamo qualche moto emotivo e l’esternazione del nostro intimo sentire, soffochiamo/blocchiamo/alteriamo inconsciamente anche quel respiro/prana  a cui i contenuti psichici sono connessi.

Ciò accade perché la forza vitale che detta in noi il moto respiratorio è la stessa che veicola (o, si potrebbe dire, ‘di cui sono composti’) i nostri sentimenti e le nostre emozioni che vanno così interpretate come forme energetiche ‘sottili’.

La costrizione del respiro, sia nell’ispirazione che nella espirazione, segnala sempre un conflitto emozionale irrisolto.

E’ questo il motivo per il quale lo scioglimento del blocco respiratorio (ottenuto ad esempio con la pratica di una intensa e protratta respirazione, come nel rebirthing) farà emergere la carica emozionale che lo sorregge.

Ad un individuo che vive in una condizione ‘contratta’, ‘asfittica’ (‘asfissia’ significa letteralmente arresto o l’impedimento dell’attività respiratoria, dal greco a-sphyxis, cioè mancanza di palpitazione, pulsazione, respirazione!) la vita stessa finisce per apparire grigia, insignificante, ed a volte perfino angosciosamente dolorosa.

Quanto detto ci può far capire, ad esempio, come la inibizione della respirazione sia la radice somatica dell’angoscia e della depressione…

 

Se vi chiediamo di rendervi conto della vostra respirazione –afferma Lowen- è solamente per aiutarvi a riuscire a respirare facilmente e liberamente; con naturalezza, senza doverci pensare. Il nostro scopo è di aiutarvi a sentire e a scaricare le tensioni che vi trattengono dal respirare con naturalezza”.[12]

 

Per arrivare ad una consapevolezza terapeutica e psicologicamente liberatoria è così fondamentale portare alla coscienza la sensazione ‘interna’ del corpo attraverso sia il rilassamento che l’osservazione del respiro. Tale sensazione interna ha un valore inestimabile sia nel processo di guarigione fisica che in quello di autorealizzazione spirituale, giacché l’armonizzazione e l’intensificazione vitale ci pone nella condizione di far circolare l’energia perviamente e quindi di poterla sublimare attraverso la meditazione, cioè, nel linguaggio esoterico, di spingerla verso i centri ‘alti’ del corpo ‘sottile’ per poi farla ‘discendere’ a ‘spiritualizzare’ il corpo (realizzando quello che il taoismo chiama l’orbitazione microcosmica del chi o l’induismo l’ascesa e la discesa di kundalini).

 

Per quanto detto è evidente che ogni blocco energetico nel soma rende la meditazione molto difficoltosa.

Risulta però chiaro a tal punto che andare in profondità entro di sé non può significare agli inizi altro che osservare / percepire le proprie rigidità somatiche ed i propri blocchi nel libero ed armonioso fluire dell’energia vitale.

 

Volendo riportare le osservazioni ‘scientifiche’della bioenergetica alla tradizione esoterica induista, si può così affermare che il ‘corpo sottile’ o ‘corpo pranico’ o ‘corpo vitale’ è essenzialmente costituito dalle energie emozionali ed è connesso ‘ontologicamente’ sia con quello fisico (verso il ‘basso’) che con quello ‘mentale’ (verso l’alto’). Il corpo mentale (mano-maya-kosha) ha la capacità di cogliere tale collegamento, perché è capace di discriminazione ed è illuminato in qualche misura dal corpo della ‘pura consapevolezza’(vijnana-maya-kosha), ancor più sottile, che lo trascende.

 

La meditazione, diversamente dalla pratica bioenergetica, libera vero l’alto le energie emozionali, utilizzandole a fini di conoscenza ed autorealizzazione quindi non attua una loro esteriorizzazione, abreazione, espressione, liberazione ma piuttosto una loro ‘sublimazione’, cioè trasmutazione in energie spirituali.

 

Tuttavia rimane evidente che se questa procedura ‘alchemica’ non è realizzabile dal praticante o, quantomeno, non lo è integralmente, è necessario, ai fini del mantenere una buona condizione psicosomatica, scaricare anche ‘biologicamente’ le tensioni emozionali eccedenti.

 

E’ quello che fanno la bioenergetica e le tecniche psicocorporee consimili.

 

E’ questo il motivo per il quale queste possono affiancare, precedere o integrare molto utilmente quelle puramente meditative di origine orientale.

 

Attraverso l’osservazione e la riflessione ( oltre che con la percezione ‘sottile’, se l’abbiamo sviluppata) possiamo capire come l’energia, nel momento in cui si manifesta a livello biologico, segue il corpo nelle sue due pulsioni fondamentali: la ricerca del piacere e la fuga dal dolore.

Questo meccanismo opera sin dalla nascita e struttura nell’infanzia il nostro carattere il quale è sostanzialmente, come s’è visto, il nostro modo personale di preservarci dalla sofferenza e stabilirci nel piacere.

E’ un meccanismo di difesa che ha una sua ‘logica’ ed una sua ‘necessità’ ma che si basa sulla repressione e sulla inibizione delle emozioni e delle pulsioni vitali ‘naturali’, repressione ed inibizione che creano una condizione d’intima sofferenza e disarmonia, stati che sono il corrispettivo emozionale di scompensi energetici a livello sottile.

Abitualmente reprimiamo  e soffochiamo il ricordo di esperienze dolorose ma se queste non vengono ‘metabolizzate’,  se non vengono ‘elaborate’ le sofferenze, se non le si ‘liberano’ anche attraverso l’espressione corporea, si procede inevitabilmente verso una condizione intimamente conflittuale  e depressiva.

Ad esempio: dolori passati (anche se non affiorano sulla superficie della coscienza) generano sentimenti di rabbia ed ostilità mentre preoccupazioni per un possibile dolore futuro fanno affiorare nella coscienza sentimenti di ansia o paura. Bloccare queste emozioni nel sistema corpo-mente sottrae energia ed armonia alla coscienza di veglia e turba persino  la nostra vita onirica.

Per questo motivo liberare consapevolmente e sistematicamente le emozioni o sublimarle con la meditazione è l’unica vera medicina preventiva.

 

Bisogna liberarsi delle emozioni esprimendole con una catarsi corporea; ma ciò non basta: bisogna acquisire anche una capacità superiore, quella di sapersi liberare dalle emozioni trascendendole.

 

Se l’io sa trascenderle diventa più solido e forte, sviluppa col tempo una capacità di controllo e/o di espressione che stabilizza la condizione emotiva.

 

Per nostra fortuna una volto avviato scientemente il processo espressivo a livello bioenergetico il corpo stesso con la sua saggezza innata indica i tempi ed i modi più opportuni per la ‘catarsi emozionale’ o ‘abreazione autogena’.

 

Il segreto è nel seguire il corpo prendendo coscienza della quantità e della qualità della carica emozionale che di volta in volta esso libera.

 

Scuotendoci, gridando, sbuffando, piangendo, sospirando, scalciando, picchiando un cuscino, insomma facendo tutto ciò che il nostro intuito ed il nostro intimo sentire suggerisce permettiamo alle emozioni bloccate di fluire attraverso il corpo, di uscirne fuori, di scaricarsi, liberando, purificando, armonizzando sia la mente che il soma.

Tutto il processo è ‘naturale’. Il corpo stesso cerca di eliminare le sue ‘tossine emozionali’; basta prestare ad esso più attenzione ed avere più fiducia nelle sue capacità spontanee di autoriparazione. Bisogna solo assecondarlo in modo intenzionale, consapevole e controllato: –‘intenzionale’, vale a dire che bisogna creare la condizione ‘terapeutica’ in cui l’emozione può essere rilasciata e ripetere il processo catartico sistematicamente;

- ‘consapevole’, vale a dire che bisogna ‘seguire’ con la coscienza, passo-passo, il percorso di rilascio e ‘sentire’ quale e quanta emozione si rilascia con il movimento espressivo;

-‘controllato’, vale a dire che il processo deve essere dominato e guidato dalla coscienza e che non si deve consentire all’emozione di prendere il sopravvento e degenerare in psicosi.

 

Il processo di purificazione e liberazione emozionale deve svolgersi, insomma, con ponderata gradualità per consentire all’io di consolidarsi mano a mano che le tensioni si sciolgono.

La quantità della carica emotiva rilasciata deve naturalmente tener conto della ‘misura’ che il momento consente.

 

E’ noto che l’eccitazione psichica di origine emozionale tende a tramutarsi in una carica eccessiva del sistema nervoso.

I nervi sono quelle fasce di fibre, avvolte da una guaina, che hanno origine dai centri del cervello e del midollo spinale e arrivano sino alle zone periferiche dell’organismo.

Si ricordi che essi trasmettono gli stati di eccitamento dai recettori all’asse cerebro-spinale e da questo agli organi di reazione ed espressione.

 

Per questo si usano espressioni correnti come ‘far venire i nervi’ o ‘far saltare i nervi’, o ‘dare ai nervi’ per indicare l’infastidire o il far spazientire.

Oppure con l’espressione ‘avere i nervi’ si indica uno stato d’irritazione o semplicemente di ‘cattivo umore’.

Quando poi ci si  trova in uno stato di eccitabilità si dice appunto di ‘avere i nervi scoperti’ o ‘a fior di pelle’.

‘Avere i nervi a pezzi’ significa essere prossimi alla ‘crisi nervosa’ e quindi ad una condizione di eccitazione tale da determinare una perdita di controllo.

Al contrario, se si è armonizzati energeticamente e si è capaci di mantenere la calma anche di fronte a difficili situazioni si dice che si hanno ‘i nervi a posto’ o anche ‘i nervi saldi’ se si dimostra un forte autocontrollo.

Esiste persino una ‘guerra di nervi’ con la quale si vuole logorare la capacità di resistenza ed autocontrollo di un nemico o semplice avversario.

E’ quindi necessario percepire attentamente la condizione nergetica del proprio sistema nervoso per agire conseguentemente.

Tuttavia va detto che esiste un meccanismo naturale di riequilibrio energetico grazie al quale

 

Un io più saldo potrà affrontare successivamente anche quei ricordi di esperienze traumatiche che hanno avuto sulla psiche un  forte impatto emozionale e che agli inizi della pratica non erano stati abreagiti perché spontaneamente non erano ‘affiorati’.

 

C’è infatti una specie di meccanismo naturale in virtù del quale il corpo rilascia emozioni di volta in volta nella quantità che esso e la psiche riescono a ‘sostenere’.

 

Questo spiega perché agli inizi della pratica terapeutica bioenergetica vengono spesso ‘abreagite’ emozioni di limitato impatto ed incidenza sul vissuto ma anche perché poi, col proseguire, si scaricano emozioni ben più forti con effetti terapeuti di certo più rilevanti perché sono connesse ai ricordi più ‘traumatici’, quelli che più di tutti hanno inciso sulla formazione della nostra psiche determinandone il carattere ed il ‘tono’, cioè la sua specifica e stabile condizione, quella che noi consideriamo ‘normale’.

Ma se la definiamo in talmodo è solo perché appare come costante, strutturale e fissa; in realtà, mano a mano che ci si libera delle emozioni profonde anche il carattere, cioè la struttura dell’io muta perché ci si sente ‘sollevati’, si acquisisce un sentimento nuovo di fiducia nelle proprie possibilità di guarigione oltre che un nuovo senso di libertà ed essendo più sereni e più capaci di ‘comunicare con sé ‘, si è anche più capaci di comunicare con gli altri.

Si capisce inoltre che tale  positiva condizione è proprio conseguenza della pratica di ‘liberazione’ emozionale e che tale metodologia non solo costituisce uno strumento che è sempre a nostra disposizione per superare gli impatti traumatici che la vita ci ha già presentato ma anche, consolidando l’io, uno strumento di profilassi per tutti quelli che essa ci presenterà.

Tale possibilità di controllo sugli impatti emozionali del vivere in qualche misura rasserena chi ne è consapevole ed ha sviluppato la relativa abilità.

 

In conclusione:  1) Noi tendiamo a inibire talune nostre funzioni psicologiche contraendo  nervi e muscoli, che spesso rimangono a lungo in tale condizione;  2) le contrazioni molto protratte nel tempo si cronicizzano anche se possono passare persino degli anni prima  che compaia fisicamente un ‘sintomo’ come disfunzione o vera e propria malattia;  3) la percezione chiara e distinta delle contrazioni episodiche o croniche ottenuta con la pratica del rilassamento e dell’autosservazione respiratoria ci mette in condizione di avvertire con anticipo  il  sopravvenire di vere e proprie disfunzioni  e malattie sul piano fisico/psichico e di poterle così prevenire e guarire alla radice; 4) ogni conflitto psichico tende tradursi e a manifestarsi anche come disturbo della respirazione; ogni alterazione della sua funzione e del suo ritmo è da collegare a schemi inconsci di repressione della vita emotiva la quale oscilla somaticamente così tra due poli:

-la liberazione emotiva (espressione, catarsi, abreazione) che si correla al libero flusso dell’energia vitale;

-la repressione (inibizione, blocco) che arresta l’energia nell’organismo determinando tensioni  psico-somatiche.

 

Attraverso la pratica meditativa tuttavia si realizza ‘spiritualmente’ una terza possibilità, la sublimazione, cioè un processo attraverso il quale l’energia agente sul piano fisico/emozionale ed ivi bloccata viene liberata ed orientata dalla coscienza verso una dimensione spirituale.

Le tensioni energetiche interne sono state ‘sublimate’ dagli uomini nel corso del tempo attraverso la creazione di opere d’arte, la dedizione ad attività altruistiche, la dedizione alla causa della conoscenza (cioè attraverso gli ideali indicati da Platone del Bello, del Bene e del Vero – o altrimenti detto – attraverso le tre vie hegeliane verso l’Assoluto quelle dell’Arte, della Religione e della Filosofia).

 

 

E – I BLOCCHI RESPIRATORI

Al giorno d’oggi è facile constatare come spesso nelle persone il movimento fisiologico della cassa toracica è reso difficile da stati cronici di ansia, stress, nevrosi, depressione, così come da inibizioni psicologiche di origine traumatica o semplicemente ‘educativa’.

La respirazione, in tali casi, è ‘alta’, ‘superficiale’, ‘tesa’, coinvolge cioè solo la parte medio-superiore del torace e traduce sul piano organico un atteggiamento psicologico di costante autodifesa, un atteggiamento cioè strutturalmente e cronicamente contratto, timoroso di ‘lasciarsi andare’ alle interne pulsioni della vita e alle relazioni con gli altri.

In effetti la società moderna richiede uno stato vigile costante e tendenzialmente ‘competitivo’, una ottimizzazione di tutte le ‘prestazioni’, un serrato impegno professionale e relazionale che ci pongono troppo spesso oltre le nostre effettive possibilità  di attingere alle personali e ‘normali’ risorse vitali e psicologiche.

Si attiva così spesso il meccanismo fisiologico che ci sostiene negli sforzi: il trattenimento del respiro, come succede appunto quando dobbiamo affrontare un impegno fisico (ad esempio: sollevare un peso da terra) o psichico (ad esempio: sottoporci ad un  esame o ad un confronto dialettico impegnativo, guidare un’auto nel pieno di un traffico…).

Si provi appunto a sollevare un peso nella fase espiratoria e si constaterà quanto sia difficile, anzi: ‘innaturale’…

Quando nell’atto respiratorio si manifesta un ‘blocco’ evidenziato da un troppo breve inspiro e/o da una eccessiva ritenzione e/o da una incompleta espirazione, si ha il cosiddetto ‘respiro mozzo’, cioè breve, stentato e aritmico, indice di limitata vitalità.

Tale espressione, nel linguaggio corrente è usata anche in senso metaforico: definire qualcosa di ‘corto respiro’ vuol significarne l’inconsistenza e la fragilità estrema, la scarsa durata.

Spesso tale condizione respiratoria è il segno che si è cronicizzato un meccanismo di difesa che è, come si è visto, anche un meccanismo di accumulazione ed intensificazione vitale che prelude ad uno sforzo. In tal caso esso si usa  ben al di là di quanto la natura ha previsto e fissato saggiamente nella sua logica evolutiva.

E’ come, insomma, se l’uomo vivesse sempre, sia psicologicamente che fisicamente, nella imminenza di una prova ardua o nella consapevole incombenza di un pericolo.

Chi è costantemente ‘compresso’( represso, soffocato) non permette, insomma, al soffio vitale di entrare e di uscire liberamente, fluidamente, ma resiste al suo ritmo organico basale e provoca una percepibile alterazione dei tempi dell’inspiro, dell’espiro, della ritenzione a  polmoni pieni (dopo l’inspiro) o  vuoti  (dopo l’espiro).

E’ evidente che quando tale resistenza si protrae per molto tempo (a volte per anni, e diventa strutturale), la diminuzione e l’insufficienza della quantità d’ossigeno introdotto alterano la base del metabolismo organico con probabile comparsa di disfunzioni e malattie, anche molto gravi.

Si ricordi, infatti, che solo con una efficace inspirazione (di cui è necessario preludio un’altrettanto efficace espirazione) l’aria raggiunge le parti profonde del polmone e arriva a contatto della membrana alveolo-capillare permettendo all’ossigeno di passare dall’aria al sangue, così che l’anidride carbonica possa essere emessa con l’espirazione. E’ proprio  in tal modo che il sangue venoso, ricco di anidride carbonica, si trasforma in arterioso, ricco di ossigeno, cioè del gas fondamentale per l’intero organismo.

 

La medicina psicosomatica e le terapie psicologiche a base corporea come, ad esempio, la ‘bioenergetica’, dimostrano che proprio gli occidentali ‘civilizzati’ o gli orientali ‘occidentalizzati’ tendono a bloccare l’espirazione, cioè quella funzione che è connessa alla nostra possibilità psicosomatica di ‘rilassarci’, alla nostra tendenza psicologica a ‘rilasciare e manifestare’ le nostre pulsioni ( e, per quanto si è detto, non è certo un caso…)

Il blocco dell’espirazione  ha così un carattere che solo a livello di una ‘superficiale’ interpretazione può essere definito psicologicamente ‘simbolico’, cioè astratto e puramente allusivo; in realtà il ‘blocco’ è reale, basta che lo si consideri a livello energetico e secondo il principio della corrispondenza psico-somatica. Per un individuo ‘psicologicamente compresso’ che cioè ha difficoltà ad esprimere le sue emozioni, sarà conseguente ed imperativo l’atteggiamente del ‘trattenere il fiato’.

Il suo torace si gonfierà solo nella parte mediano-alta, escludendo rigidamente il movimento del diaframma, la cui motilità attiverebbe proprio quelle emozioni e pulsioni che ha rimosso e depositato nel suo inconscio organico, là dove è collocato anche l’impulso respiratorio con tutti i suoi automatismi dinamicamente variabili.

L’unico modo di superare tale condizione è riportare il blocco alla coscienza  e dissolverlo gradualmente proprio per mezzo dell’osservazione del respiro e delle corrispondenti variazioni emozionali: sta qui, a nostro parere, il segreto della forza trasformativa dell’ananapanasati.

Il blocco dell’espiro va interpretato come sintomo e causa della paura di comunicare/esternare/affidarsi/lasciarsi andare/esprimersi con parole, gesti ed atti. Trattenendo il fiato si trattiene l’energia  delle emozioni che vogliono appunto ‘muoversi’ cioè esternarsi; per questo quando lo ‘sblocco’ avviene a livello respiratorio ( e non attraverso il pianto, l’urlo, il gesticolare etc.) si manifesta come sbuffo/sospiro/sbadiglio.

 

Essendo la respirazione manifestazione del ritmo stesso della vita (in correlazione con gli altri ritmi somatici: sistole/diastole per il cuore, ingestione/ minzione-defecazione per il cibo, veglia/sonno per l’intero organismo) il blocco dell’inspirazione, a sua volta, segnalerà e sarà correlato ad un blocco psichico consistente nella paura esistenziale ed organica del ricevere/accogliere/assumere/ascoltare/ recepire qualcosa nel proprio ‘spazio’ personale organico o psichico. Paura nel ‘portare dentro’ contrapposta a quella del ‘portare fuori’ tipica dell’espirazione bloccata  (così, a livello di tipi psicologici, l’introverso non sa esprimere e l’estroverso non sa trattenere).

 

La scarica delle tensioni psichiche può determinare quel fenomeno che in bioenergetica viene definito ‘sblocco del respiro’, cioè riportare l’individuo ad una sana ed intensa attività respiratoria. In genere il fenomeno si verifica congiuntamente a fenomeni catartici con i quali il corpo si libera dalle tensioni e cioè scoppi di pianto e singhiozzi, attività ‘corporee’ con le quali la natura sin da piccoli ci ha fatto liberare dalle tensioni emotive.

Pianto e singhiozzi sono sistemi molto efficaci per sciogliere la gola, il torace, il bacino quando c’è un eccesso di tensione.

In bioenergetica, in tali circostanze, s’invitano – come si è detto- le persone anche ad emettere suoni come lamenti, gemiti, sospiri o a compiere comunque gesti che  rimuovano le emozioni trattenute dal profondo determinando in chi prova l’esperienza un profondo senso di liberazione proprio nel momento in cui quelle energie emotive trattenute lungamente attraversano il corpo e si esprimono.

Si può così recuperare quel respiro naturale, libero e pieno che forse avevamo da fanciulli. E’ un respiro che ‘sa di salute’ poiché vibrante e piacevole, ampio ma senza sforzo, come quello che da adulti ancora possiamo provare quando, usciti da una lunga malattia, riacquistiamo la salute provando una sensazione respiratoria di vitalizzante leggerezza.

 

 

La presenza di blocchi somatici e psichici non costituisce solo un problema per la nostra salute poiché è comunque determinante anche  per la costruzione della nostra personalità.

Accade infatti che il nostro io, percepito ed identificato da noi con la sola coscienza di veglia, si costruisce sulla base di quei blocchi al punto tale da riconoscersi in essi ed individuarvi la base vera della propria personalità e del proprio carattere secondo un processo di costruzione identitaria totalmente mistificante.       .
L’ego in realtà è, quasi sempre, soffocato da un sistema ampio ed articolato di inibizioni, repressioni e complessi che offuscano la pura consapevolezza dell’individuo compromettendone la libertà e l’autenticità, soprattutto nella prospettiva di una sana crescita psicologica e spirituale.

L’individuo represso ed inibito non si può dire propriamente ‘libero’ e viene a trovarsi in una situazione compromessa da cui è difficile liberarsi proprio perché non è consapevole del suo stato. Ciò accade perché è incapace di ‘vedersi dall’esterno’ e di ricostruire criticamente la sua ‘storia personale’, cioè quell’insieme di vicende  esistenziali e relazionali che così lo hanno costituito.

E’ come un congelato che non percepisce la sua drammatica situazione perché proprio il congelamento lo desensibilizza nella parti che ne sono colpite.

E’ un individuo che senza un aiuto ‘esterno’ molto difficilmente riuscirebbe a sanarsi, a cui è sovente necessario, insomma, il sostegno e la guida di un illuminato psicoterapeuta o di un maestro spirituale autentico.

La libertà interiore, lo sviluppo della propria personalità, il consolidamento dell’io di fronte agli impatti emotivi della vita, possono verificarsi solo con una pratica di autotrascendimento quale è appunto la meditazione. Questa consiste appunto in un sottile processo di disidentificazione e ricostruzione identitaria basato sull’osservazione ‘dall’esterno’ delle emozioni e degli stessi pensieri. La meditazione rende così possibile la guarigione psicologica, la costruzione libera di un nuovo ego ed infine il trascendimento degli  stessi limiti mentali dell’io.

Detto ciò basteranno poche osservazioni sulla psicologia dell’attenzione al respiro per farci comprendere le ragioni ed il segreto della sua efficacia nel processo di armonizzazione, vale a dire nel processo di ‘integrazione’ tra corpo e mente.

 

 

F – IL CORRETTO ATTEGGIAMENTO PSICOLOGICO NELLA PRATICA DELL’ANAPANASATI

 

L’anapanasati ci armonizza perché assecondando il ritmo ciclico della pulsione vitale organica ridiamo al corpo la possibilità di respirare come esso vuole. Non come vuole l’ego.

L’ego induce e cronicizza un’alterata respirazione perché è, di norma, strutturato dalle più varie repressioni ed inibizioni emotive ed intellettuali.

Riarmonizzare il respiro è una via dolce ma potente per recuperare la sensazione di ben-essere organico connessa ad un ben-respirare oltre che ad un ben-ragionare, cioè alla capacità di riflettere ed argomentare senza fattori emotivi condizionanti.

Volgere l’attenzione al respiro significa dare fiducia alle possibilità di autoguarigione dell’organismo.

Il segreto consiste così nell’assecondare il processo vitale rispettandone e ripristinandone il naturale fluire energetico.

Per il praticante il porre attenzione al respiro dovrebbe significare in termini psicologici ‘amarlo’, ‘considerarlo’; tale è del resto il valore emotivo dell’atto poiché noi siamo propensi a volgere un’attenzione non invadente alle cose che amiamo e a distorglierla da quelle che odiamo. E’ questa ‘attenzione amorosa’(che dovremmo coltivare ed assumere durante l’intera pratica meditativa) a guarire e riarmonizzare l’unità psicosomatica.

Amare il nostro respiro è, in fin dei conti, amare la vita in noi, amare noi stessi! Rectus amor incipit a semetipso: così saggiamente dicevano i nostri antenati: il giusto e corretto amore, anche quello vero gli altri, comincia dall’amore/fiducia riposto e rivolto a noi stessi.

Insomma bisogna coltivare l’anima/respiro con amore…

 

 

G – SENTIRE L’INTERO CORPO COME UN CAMPO DI ENERGIE

Con l’anapanasati  si può ricomporre ciò che in noi è separato e conflittuale; possiamo passare dalla scissione anima/corpo e conscio/inconscio alla loro progressiva integrazione, cambiare la percezione di sé e del mondo sentendo il corpo come un campo di energie che a volte fluiscono liberamente,  a volte rimangono bloccate in qualche punto.

Se si è attenti al proprio corpo si può scoprire facilmente il motivo profondo di molte tensioni muscolari spesso cronicizzate.

La tensione fisica in tal caso serve a non sentire l’emozione dolorosa che essa stabilmente inibisce.

Dove infatti c’è contrazione non scorre energia, non c’è sentimento, non c’è emozione. Noi finiamo per contrarre tutte le aree del corpo nelle quali desideriamo bloccare e non ‘sentire’ le nostre emozioni.

Queste tuttavia, quando vengono inibite, continuano a vivere depositate nell’inconscio; ogni emozione non espressa e/o non sublimata si ritorce però contro colui che la inibisce e,  in particolare, contro quelle zona del corpo che fisiologicamente è preposta a veicolarla verso l’esterno.

Possiamo così contrarre le spalle per bloccare il nostro istinto aggressivo verso un ‘nemico’, contrarre la pancia per non percepire la paura, digrignare i denti (anche di notte…) per bloccare la rabbia…

Nasce insomma un grave conflitto tra l’io e l’inconscio che tende tradursi oltre che in conflitti  anche  in disfunzioni e malattie corporee.

E’ questo il vero motivo per il quale diminuiamo l’ampiezza della respirazione: per impedire appunto una produzione di energia ‘organica’ che favorirebbe l’emergere e l’esprimersi dell’emozione ‘vietata’.

Alcune tecniche psicocorporee moderne (che hanno sviluppato le intuizioni geniali di Reich collegandole significativamente alle più antiche tecniche respiratorie dell’India) utilizzando appunto tale meccanismo per riportare rapidamente alla coscienza i contenuti emotivi traumatici depositati nella memoria del corpo ed operarne una ‘integrazione’ attraversi i naturali processi catartici dell’organismo stesso: ci riferiamo a tecniche quali quelle del rebirthing, di vivation  o della respirazione olotrofica.

In tutti questi casi si procede ad una protratta ed intensificata respirazione tale da  incrementare in breve tempo l’energia vitale col fine di ‘ricaricare’ le memorie emozionali spesso site, come si è detto, nello spazio dell’inconscio. I ricordi traumatici così ‘energizzati’ erompono nello spazio della coscienza che non è più capace di trattenerli; tale situazione favorisce la scarica abreativa corporea che elimina o attenua le tensioni psichiche correlate.

Tale catarsi disimpegna la coscienza da quell’azione del trattenere che l’ha ‘logorata’ per l’innanzi; l’io recupera in tal modo importanti energie e tende ad armonizzarsi secondo un processo spontaneo di autoguarigione guidato, evidentemente, da una intelligenza del corpo potenzialmente sempre presente in noi, capace di ricondurci ad una condizione di ‘omeostasi’ somatopsichica.

La rievocazione delle memorie del corpo in un contesto terapeutico ripristina un meccanismo ‘naturale’ ancestrale di carica e scarica energetica  grazie al quale l’unità psicosomatica si riarmonizza e recupera la sua piena vitalità.

 

Una condizione ‘patologica’ tende a radicarsi invece in quell’individuo che non percepisce più il proprio corpo e non ne sente più i profondi ritmi e bisogni.

E’ la condizione pressoché generalizzata dell’uomo contemporaneo il quale vive pressoché sempre nello spazio chiuso e limitato della sua mente, attento solo ai processi del proprio pensiero astratto e discorsivo, immerso sovente in un alienante e continuo ‘dialogo interno’.

 

Una respirazione parziale e contratta è pertanto uno degli strumenti principali che utilizziamo per bloccare quella vitalità che, in relazione al corpo, si può indicare propriamente con il termine ‘istintività’.

E’ un meccanismo solo apparentemente ‘insensato’ poiché, a ben pensare, la sua finalità è palese: controllando e reprimendo sempre più le nostre emozioni e i nostri istinti ci proponiamo – più o meno consciamente – di non innescare contro di noi il meccanismo di reazione/aggressione del contesto familiare e sociale in cui viviamo.

Tale meccanismo si radica spesso nella psiche e nel corpo fin da piccoli ( si pensi al sistema delle punizioni e del ricatto attraverso la sottrazione di affetti ben noti nei processi ‘educativi’);  la conseguenza ovvia è che  tale inibizione, tale autocontrollo ( che, bisogna riconoscerlo, in una qualche  misura è necessario al vivere sociale) diminuisce comunque la nostra vitalità e causa per questo molte nostre malattie e disfunzioni.

E’ questo il motivo per cui un bambino ‘ben educato’ rimarrà spesso anche da adulto una persona  intimamente conflittuale con sé e con gli altri oltre che poco ‘vitale’.

Per quanto detto la guarigione di una malattia psico-somatica è possibile solo quando la catarsi arriva, per così dire, al ‘soma’ manifestandosi attraverso delle scariche fisiche ‘abreative’ (pianto, urla, singhiozzi, il dar pugni, il dar calci, il rotolarsi in terra e quant’altro…) che possano di nuovo veicolare l’energia biologica trattenuta, recuperando vitalità e salute. L’esperienza dimostra – significativamente – che una cura puramente ‘verbale’, in effetti, non raggiunge spesso le profondità in cui si radica la patologia.

 

Pertanto allenarsi ad una respirazione piena ed armonica  è la condizione per lo scioglimento ‘catartico’ delle tensioni ed il recupero sia della vitalità che delle emozioni e dei movimenti espressivi che la nostra storia personale ci ha fatto ‘dimenticare’.

Naturalmente reintegrarsi in una condizione di libertà interiore e di felicità ‘naturale’ comporta, soprattutto all’inizio del processo, la capacità, la volontà e la determinazione ad ‘affrontare’’ nel percorso di guarigione stati catartici di sofferenza psico-somatica.

E’ ovvio che tali esperienze in cui si rievocano episodi della nostra vita a volte molto  ‘carichi’ emozionalmente, vanno vissute, per loro natura potenzialmente traumatica, con l’assistenza di un terapeuta pienamente consapevole di tali meccanismi.

A conclusione del percorso di guarigione dovrebbe essere recuperata la condizione di un ‘io’ sufficientemente e ‘normalmente’ sano ed integrato;  condizione questa necessaria (soprattutto in occidente, per quanto detto) perché si possa procedere verso la pratica meditativa.

In effetti non si può pensare di trascendere l’io ordinario ( che è lo scopo vero della meditazione) senza che questo sia stato in precedenza sanamente realizzato cioè integrato con l’inconscio organico.

L’io si deve espandere così attraverso un processo d’integrazione verso il basso (l’inconscio organico) e verso l’alto (il superconscio spirituale).

 

E’ dunque una saggia norma tradizionale quella che, all’inizio di una pratica meditativa respiratoria, prescrive alcune profonde espirazioni effettuate preferibilmente attraverso la bocca: in tal modo si espelle fisicamente l’aria (anche quella viziata del fondo dei polmoni), così come si possono psichicamente allontanare tensioni ed inibizioni.

Ma se l’espulsione dell’aria avviene semplicemente attraverso il movimento della cassa toracica grazie al ‘semplice’concorso di tutti i muscoli interessati, l’espulsione ‘psichica’ delle tensioni emotive e degli ‘stati negativi’ della mente deve avvenire sincronicamente attraverso un puro atto di volontà con cui se ne deve ‘visualizzare’ l’allontanamento.

Sul piano psichico ogni immagine-azione è …attiva, produttiva ( naturalmente secondo diversi livelli d’intensità-efficacia).

La immaginazione è lo strumento di cui l’uomo si è sempre servito ( per lo più a livello inconscio) per operare sulla sua componente psichica e persino somatica (si pensi alle tradizionali ‘ guarigioni sciamaniche ’ ).

Tale meccanismo espiratorio di ‘purificazione’ è del resto anch’esso naturale, infatti ‘sospirare’ e ‘sbadigliare’ sono due atti istintivi con cui fisicamente realizziamo nei polmoni uno scambio d’aria in profondità ma, nel contempo, sono il mezzo con cui la psiche cerca di liberarsi da stress e tensioni emotive.

 

 

H – IL RAPPORTO RESPIRO/MENTE NEL LINGUAGGIO COMUNE

 

Per comprendere ancora più a fondo la correlazione tra respiro, coscienza e condizione emotiva, si rifletta su alcune etimologie ed espressioni correnti:

 

-Trattenere il respiro per la paura: meccanismo di difesa con il quale riduciamo una vitalità che, se fosse prolungatamente piena ed intensa, ci farebbe percepire quella dolorosa emozione sino a cadere nel panico e nel terrore.

 

-“Tirare  un respiro di sollievo”, cioè inspirare dopo aver lungamente trattenuto il respiro ( per tensioni, preoccupazioni, paure, sofferenze o quant’altro)  provando un senso di piacevole decontrazione-rilassamento. Tale sensazione è palesemente dovuta al ritorno al ‘ritmo naturale’ dell’atto respiratorio, cioè alla sua ordinaria ‘fluidità’. Per gli stessi motivi la locuzione simile :‘Tirare un respiro dopo un lungo impegno’ significa  fare una pausa nelle nostre attività e recuperare così energie. Analogamente nelle espressioni: ‘non avere un attimo di respiro ’, ’lavorare senza respiro ’, svolgere un’attività che non dà respiro ecc.

 

-Oppure: “Emanare un sospiro” (dal latino ‘sub’= sotto e ‘spirare’= soffiare, dove l’avverbio ‘sotto’ già dà l’idea di uno scaricare/far cadere la tensione attraverso l’emissione del fiato ). Il sospiro in realtà è propriamente una espirazione profonda  (preceduta da un’analoga inspirazione ) che è  indice di turbamento d’animo (‘mandare un lungo sospiro’) tanto che, come figura letteraria, esprime spesso ‘desiderio’, ‘rimpianto’, ‘anelito’; negli stati di più accentuata sofferenza il sospiro si traduce nel lamento e nel gemito (i latini in tal caso preferivano usare l’espressione gemitus de imo pectore trahere, appunto trarre gemiti dalle profondità del petto).

 

 

-Altro modo per esternare/scaricare con il respiro il proprio disagio psichico è lo sbuffare, termine onomatopeico con cui s’indica il mandare fuori il fiato con impeto, rumorosamente : lo si fa in genere per noia, disagio, fastidio, insofferenza.

 

 

-All’unione intrinseca tra vita e respiro, quasi all’identità, si riferisce l’espressione: “mandare l’ultimo sospiro” (extremum spiritum, animam efflare) cioè ‘esalare l’anima/respiro’( dal lat. ex-halare = soffiare, alitare fuori) rimanendo appunto ‘esanime’, cioè privo del principio stesso della vita (dove il prefisso latino ‘ex-’ indica ‘privazione’, ‘allontanamento’).

 

 

Del resto il rapporto tra respiro e sentimentalità è stato sempre ben noto a quei sensitivi naturali che sono i poeti:

“ …e te german di giovinezza, amore – dice ad esempio Leopardi – sospiro acerbo de’ provetti giorni “ (Il passero solitario, 20-21).

Per il grande recanatese l’Amore, fratello (german) della Giovinezza diviene poi un doloroso ed amaro rimpianto (sospiro, appunto) degli anni maturi (provetti).

 

Il sospiro come atto respiratorio collegato alle ‘dolci pene d’amore’ è presente, in effetti, nelle fonti stesse della nostra letteratura nazionale: Dante, nel celebre sonetto della Vita Nova (cap.XXVI) “Tanto gentile e tanto onesta pare” ce ne dà un’espressione esemplare. Beatrice è trasfigurata in una vera e propria ‘teofania’, in una apparizione mistica che infonde nel cuore una dolcezza ‘esoterica’  (intender non la può chi non la prova) a causa di una soave ‘aura’(aria –soffio) d’amore che emana dal suo volto (labbia) e muove i petti al sospiro:

 

       “Mostrasi piacente a chi la mira

                   che dà per li occhi una dolcezza al core

                che ‘ntender no la può chi non la prova:

 

     e par che de le sua labbia si mova

   uno spirito soave pien d’amore,

       che va dicendo a l’anima: Sospira.

 

E le stesse emozioni affettive collegate al respiro, le quali sorgono anche al solo ricordo dell’amata, vengono sottolineate dal Poeta nel sonetto successivo intitolato : ‘Vede perfettamente onne salute’:

 

“Ed è ne li atti suoi tanto gentile,

       che nessun la si può recare a mente

         che non sospiri in dolcezza d’amore”

 

dove l’ultimo verso è stato giudicato, a ragione, come uno dei più belli di Dante.

 

Forse è tale proprio perché è uno dei più evocativi ( anche nel ritmo ) della sensazione affettiva ‘sottile’ connessa – come sempre- al respiro.

Il verso ci fa respirare con un ritmo pacato e ‘vibrare’sottilmente fino alla parola conclusiva: ‘amore’, quando l’empito dell’emozione gonfia il petto.

 

E ‘sospiroso’ è per tutto questo sinonimo di sentimentale, malinconico, triste, mesto, languido.

Chi ‘sospira’, dunque, emette il respiro per manifestare (‘liberare’) stati di pena, malinconia, rimpianto, ansia o desiderio ardente realizzando così una sorta di intima catarsi,  in qualche misura liberando  la coscienza da un gravame.

Quell’unico atto fisico  rivela condizioni psicologiche diverse ma tutte  variamente ‘dolorose’.

 

Così, ad esempio il grande poeta Ugo Foscolo esprime col sospiro il suo amore per la terra natìa ne ‘I Sepolcri’:

 

   “ O bella Musa, ove sei tu? Non sento

             spirare l’ambrosia, indizio del tuo nume

        fra queste piante ov’ io siedo e sospiro

il mio tetto materno” (vv.62- 65).

 

Il desiderio poi che si manifesta col sospiro può essere addirittura quello più radicale, quello più struggente poiché rivolto alla  vita stessa che si manifesta in un morente (I Sepolcri, vv. 122-123):

                                       “E tutti l’ultimo sospiro

                                         mandano i petti alla fuggente luce” .

 

Ci è possibile, di nuovo, attingere la verità di una saggezza ancestrale dal deposito del nostro linguaggio: il termine ‘affanno’, con cui s’indica un respiro difficoltoso, non è significativamente sinonimo di ‘angoscia’?

Anche in questo caso l’oppressione respiratoria non si distingue neanche lessicalmente dalla costrizione psicologica, dall’inquietudine profonda, dall’ansia, dalla pena, dal travaglio ( i nostri ‘affanni’ sono, estensivamente, tutte le nostre sofferenze…).

Del resto il termine ‘angoscia’ ( la cui etimologia rimanda al greco άγχω-àncho- = strangolo ed ai termini latini ‘angustia’= ristrettezza, costrizione e ‘àngere’= soffocare ) descrive proprio la costrizione fisica del torace e delle gola propria anche delle situazioni di pericolo o di semplici stati di malinconia involutiva.

Per questo la sensazione emotiva dell’angoscia corrisponde alla sensazione fisica di ‘mancanza d’aria’ e alla percezione di un’atmosfera ‘irrespirabile, opprimente’.

L’ansia, a sua volta, scatena effetti simili: dal latino tardo ‘anxia’ viene anche il verbo ‘anxiare’, da cui il nostro ‘ansare’, ‘ansimare’.

La dimensione esoterica del ‘suspirare’ era ben noto agli iniziati orfici se Silio Italico, riferendosi ad essi, parla di un ‘suspirare inclusum pectore Bacchum’, cioè di un loro ‘liberare’ lo spirito, di un loro manifestare l’empito emotivo estatico (Bacco è il divino presente nella natura) attraverso la forza interiore ed occulta di una respirazione vivificata, intensificata.

 

Esprimere un’emozione ( la radice del termine è nel latino moveo = muovo, esprimo) significa ‘liberarsene’, cioè allontanare il potenziale negativo che si sviluppa nel caso in cui sia represso, inibito, chiuso, ‘carcerato’ nel corpo.

L’emozione è una energia che se non viene sublimata, cioè spiritualizzata e quindi ‘desomatizzata’, deve essere somaticamente espressa.

 

 

I – IL SEGRETO DEL RESPIRO MISTICO: ISPIRAZIONE ED ASPIRAZIONE

In effetti un altro fondamentale segnale dell’antico collegamento tra respiro e consapevolezza, in particolare del rapporto tra un certo tipo di respiro ed una accresciuta e più elevata consapevolezza è offerto dall’uso del termine e del concetto di ispirazione ( che più propriamente dovrebbe essere scritto come inspirazione…). Esso nei più vari contesti culturali, sempre e comunque sta a significare quel tipo d’ impulso interiore che nell’uomo si traduce in una condizione di creatività artistica o intellettuale.

Il termine, derivato dal tardo latino inspiratione(m), correlato al verbo inspirare ( soffiare dentro, spirare, respirare), indica quella modifica del respiro che si avverte nel momento in cui un “influsso”, una “forza”, una “entità” sembrano penetrare ‘fisicamente’nel corpo (in latino il prefisso verbale in, ricavato dalla stessa preposizione, ha il significato di ‘sopra’ ‘dentro’ e ‘verso’) e ‘psichicamente’nello spazio della  consapevolezza ordinaria dell’uomo inducendo uno stato di coscienza più ‘nobile-alto-sacro’) e sovente anche un impulso creativo.

Quando si è ispirati può così comparire un’intuizione improvvisa che si percepisce ( o s‘interpreta)  come proveniente da un’altra dimensione o da un diverso spazio del nostro stesso “io”.

Nel contesto artistico l’ispirazione può manifestarsi come ebbrezza, euforia, rapimento, esaltazione in quanto induce una condizione di “entusiasmo”, cioè di vivificante fervore creativo-espressivo.

Nel contesto religioso può significare la penetrazione nella coscienza di un influsso trascendente che guida l’uomo a conoscere e/o rivelare verità metafisiche.

Nel contesto filosofico o scientifico l’ispirazione guida alla elaborazione di verità razionali che culminano nella genialità ( del resto il termine genio indica propriamente quello spirito che per gli antichi guida gli uomini nel corso della vita: si pensi al dàimon socratico).

Presso i greci, che collegavano la ispirazione (manìa) all’entusiasmo (enthousiasmόs) era evidente che quella condizione dello spirito si aveva quando la persona era posseduto da una divinità (enthouiàzein) ed era per questo che la persona ‘invasata’ si diceva éntheos ( composto da en=in e theόs = dio). E’ in quello stato interiore –concordano gli antichi saggi greci- che si prova estasi, gioia, meraviglia, quando cioè si è ‘invasi’ da una forza divina, quella stessa a cui gli antichi poeti si appellano nel proemio delle loro opere.

 

Quanto poi al termine aspirazione utilizzato in un contesto metafisico o religioso, la connessione di questa tensione esistenziale con l’inspirazione è palese, giacché il termine è composto dalla preposizione ‘ad’ che significa ‘verso’ e ‘spirare’, cioè, come s’è detto, respirare, soffiare. Parliamo, in tal caso, di una tensione/desiderio che si manifesta con il proiettarsi del respiro e della interiorità verso una Realtà transfisica. E tale proiezione non può che avvenire ( se ne rendano conto o meno i filosofi o i mistici ) per mezzo di una immaginazione guidata dalla intenzione.

Infatti, poiché nel percorso della conoscenza spirituale all’inizio non c’è un ‘oggetto’ di conoscenza già dato nell’ambito delle comuni capacità percettive, il primo passo dell’uomo per andare oltre il piano puramente fisico non può  essere altro che un atto di volizione, un ‘intento’ appunto.

Ma tale intento (che nel contesto delle varie culture umane si serve di un numero sterminato di simboli e formule) per essere attivo spesso ha bisogno di tradursi in immagini ‘operative’, vale a dire ‘magiche e/o propiziatrici’, capaci di ‘evocare ‘ la realtà a cui si aspira.

 

Analoghe osservazioni vanno fatte per il termine anelito. Esso deriva infatti dal latino anhelitu(m), a sua volta correlato al verbo anhelare il quale, oltre  a significare letteralmente ‘respirare con affanno’, ‘ansimare’, ha anche il valore figurato di ‘tendere’, ‘aspirare ardentemente’; anche in tal caso una respirazione alterata è sinonimo di intenso coinvolgimento emotivo. Il termine indica anche il ‘soffio vitale’ tanto che ‘mandare l’estremo anelito’ è espressione con cui si indica il morire.

 

Così i nostri antenati hanno fissato indelebilmente nel linguaggio la loro sapienza e saggezza, frutto di un’attenta osservazione della relazione corpo/mente e vita/respiro/coscienza.

 

Stanti queste premesse è chiaro che la pratica respiratoria, a livello fisico e ‘sottile’, comprenderà due momenti fondamentali o, se si vuole, due esercizi di base.

Nel primo bisognerà curare l’educazione respiratoria nelle sue articolazioni fisiche con esercizi che scompongano e ricompongano l’atto, analizzandone le fasi e riunificandole poi organicamente in un movimento naturalmente ampio e fluido.

Con una respirazione disarmonica gli organi del corpo ricevono a volte un eccesso di energia (sembrerebbe in correlazione ad un tempo eccessivo d’ispirazione o ritenzione a polmoni pieni), a volte un difetto d’essa (espirazione troppo prolungata o eccesso di ritenzione a polmoni vuoti).

Per questo i due momenti dell’atto respiratorio (e le relativa pause) vanno armonizzati e resi alla loro naturale fluidità, portando così in equilibrio i tre livelli dell’uomo: quello somatico, quello emotivo/vitale e quello mentale.

 

Nel secondo momento bisogna, attraverso una costante attenzione, sviluppare la percezione della ‘forza vitale’, cioè del ‘prana’.

L’energia vitale ritmicamente e sincronicamente con l’inspiro entra  e fluisce nel nostro organismo  vivificandoci,  poi  con l’espiro fuoriesce diffondendosi nello spazio esterno.

Se quando s’ispira s’assorbe il prana e quando s’espira lo irradiamo è perché la vita stessa è un prendere ed un dare: così per il corpo, per gli affetti, i pensieri…

Tale sottile percezione si può accompagnare con la visualizzazione di una energia luminosa che  con l’inspiro, permeandoci, c’infonde salute-pace-armonia-gioia-estasi e che con l’espiro espelle tutte le negatività fisiche e psichiche che oscurano la nostra coscienza.

In effetti il prana obbedisce alla nostra immaginazione-volontà e si sposta nell’organismo seguendo i movimenti della coscienza.

Cominceremo così ad utilizzare il respiro per una catarsi psichica correlativa a quella fisica.

Il respiro è un ponte, è la forza della vita che collega corpo e spirito.

Il respiro è l’anima e l’anima è il respiro.

 

Per questo il mistico sufi Bistami dice: ”Il respiro è come una scala che porta dal gradino più basso a quello più alto dello sviluppo spirituale”.

 

 

L – LA SAGGEZZA ANTICA E LA PERCEZIONE DEL PRANA:

OVVERO  FISICA E METAFISICA DELL’ANIMA

 

Per quanto possa sembrare ‘esoterica’ e ‘misteriosa’, la percezione del prana, in realtà, già fa parte del nostro vissuto quotidiano; il problema della sua chiara percettibilità sussiste solamente perché, in  genere, siamo poco attenti al nostro ‘spazio interiore’: questo è il motivo per cui il flusso di quella energia rimane ad un livello inferiore ( anche se , come si vedrà ‘di poco’) alla soglia della nostra ordinaria coscienza di veglia.

Il prana in realtà è dappertutto, è il Corpo Vivente dell’Universo.

Il prana  è energia e tutto nell’Universo è energia, persino la Materia.

L’uomo lo assimila col cibo e con la respirazione a livello somatico, con le emozioni ( fatte di energie più sottili) a livello di vita affettiva, con i pensieri a livello di attività intellettuale, con le forze ispiratrici a livello spirituale.

Giacché esistono diversi livelli e modalità  cioè diverse ‘qualità’del prana noi ci nutriamo di esso secondo i diversi livelli della nostra struttura ontologica.

A livello fisiologico, cioè a quel livello che più è prossimo alla nostra esperienza ordinaria, la percezione è naturalmente più facile e tra tutti diffusa, ed è per questo che le nostre successive osservazioni si riferiranno per lo più a quell’ambito.

Il  sonno, ad esempio, è il meccanismo naturale con cui la Natura ci ricarica di quella energia in virtù proprio del rilassamento muscolare, emotivo e mentale che esso induce. La ‘cura del sonno’ è la più efficace per rimuovere tutti gli ostacoli somatici e psichici alla nostra salute che si accumulano nell’arco della nostra esistenza. Tale terapia è considerata oggi così efficace che s‘induce il sonno nei malati con strumenti farmacologici per prolungarne la durata. Se ci sappiamo rilassare il sonno diventa riparatore, restauratore poiché, appunto, le energie si recuperano ed armonizzano spontaneamente.

Se siamo indotti al sonno quando siamo carenti d’energia, per contro, quando ne siamo carichi, saturi, possiamo sentirci pieni d’entusiasmo, vogliosi/spinti/indotti a dedicarci a qualche piacevole attività (oppure, considerando il ciclo veglia-sonno, semplicemente non riusciamo ad addormentarci…).

In realtà l’energia, per sua stessa natura, tende a esteriorizzarsi e induce gioia e piacere in colui che l’asseconda.

Se canalizziamo l’energia della nostra anima  e la rendiamo ‘espressiva’, la esteriorizziamo il nostro tono umorale s‘innalza, possiamo persino provare la ‘pura gioia di vivere’, cioè una felice condizione dello spirito che può essere anche ‘oggettivamente’ immotivata. Condizione questa poco frequente e forse per molti persino poco comprensibile, visto che se si è felici, in genere, lo si è per qualcosa; non appartiene ordinariamente alla nostra esistenza una gioia connessa al fatto del puro esistere. E’ questa una condizione ideale, divina: non a caso l’Essere Supremo in India è chiamato  Saccidananda , cioè l’Essere in cui l’Esistenza (Sat), la Coscienza (Chit) e la Beatitudine (Ananda) coincidono.

L’energia si avverte più nettamente quando si pratica il digiuno, ciò sembra accadere per una sorta di meccanismo di compensazione per il quale assumendo meno cibo, l’organismo cerca di acquisirne di più per via sottile. E’ ben nota la percezione di un positivo flusso di forze nell’intero organismo quando, rompendo un digiuno, assumiamo del cibo; si noti come, quando ciò avviene – significativamente- proprio in quel preciso momento, si modifica il respiro che diventa più ‘vivo’, intenso e piacevole.

L’energia si percepisce purtroppo, anche in quelle circostanze negative in cui siamo vittime di un collasso, stiamo per svenire, sentiamo che le ‘forze’ vengono meno’: in tali momenti il corpo cerca di aumentare la quantità d’energia repentinamente attraverso una modifica del ritmo respiratorio.

La percepiamo come brivido (l’origine del termine è onomatopeica…) quando proviamo una intensa emozione (paura, piacere estetico, sentimento amoroso etc.). Esso spesso scorre lungo la schiena (il che ha un preciso significato esoterico) e si diffonde attraverso le braccia ( di cui è proverbiale la conseguenza del far rizzare i peli) e le mani.

L’energia cresce, si accumula nel corpo con il riposo, la solitudine, la limitazione dell’attività fisica, il contatto con la natura: è il prana che hanno cercato gli eremiti di tutti i tempi per indurne l’estasi.

Tuttavia essi spesso hanno incrementato quella energia senza essere sostenuti e guidati da una chiara razionalità, da un costante autocontrollo e da alte motivazioni morali. Per questo hanno molte volte manifestato forme di fanatismo ascetico (attraverso le quali hanno cercato- più o meno consciamente- di percepire più distintamente quella forza transfisica) e sono caduti in forme di visionarismo allucinatorio.

 

Il prana  è l’effluvio, che tradizionalmente i chiaroveggenti, anche qui di tutte le culture, dicono di veder uscire dai corpi degli esseri viventi come alone luminoso (l’aura del corpo astrale).

E’ il ‘magnetismo animale’, il fluido con cui il celebre medico austriaco Mesmer (1734-1815) sosteneva di poter guarire molte malattie e induceva l’ipnosi: quest’ultima poi, confinata nella ‘magia nera’ per lungo tempo, è stata invece fondamentale nella nascita della psicanalisi freudiana, costruita com’è noto sulle ricerche in quel campo di Charcot e Breuer.

 

L’energia – anche qui la tradizione è concorde- tende ad uscire dalle estremità; uscendo dalle mani è stata utilizzata sin dalla più remota antichità per guarire (pranoterapia). Il gesto dell’imporre le mani sulla parte malata e dolorante ( l’atto taumaturgico più consueto presso tutti i popoli) è così istintivo che ciascuno di noi lo esegue ‘automaticamente’ senza percepirne l’intima ragione; spesso poi esprimiamo il nostro affetto con una carezza anche in questo caso non solo per ‘mostrare’ il sentimento ma anche per veicolarlo, per trasmetterlo come energia.

 

Il prana esce anche dagli occhi  che per questo sono indicati come ‘lo specchio dell’anima’, rivelatori della nostra energia-coscienza. Anche quest’altra modalità fenomenologia dell’energia è ‘fissata’ e ‘codificata’ nella lingua di tutti i popoli.

 

La medicina orientale è stata, in effetti, da sempre fondata sul presupposto che le malattie somatiche sono ‘conseguenze’ (più propriamente si dovrebbe dire ‘il precipitato’) di squilibri energetici presenti nel corpo sottile.

In quest’ottica ‘olistica’ si spiega,ad esempio, l’agopuntura cinese secondo cui l’energia (qi) ha due polarità (yin e yang) che, se ben equilibrate, determinano la salute fisica. A tal fine però è necessario che il qi circoli correttamente nell’organismo attraverso delle ‘linee di forza’ che vengono definite i ‘meridiani’,Ching, ( le nadi del corpo sottile nella tradizione induista). Il qi  scorre essenzialmente attraverso 14 meridiani principali a cui la medicina classica faceva corrispondere 365 punti di agopuntura sulla superficie del corpo; la stimolazione di tali punti attraverso la penetrazione di alcuni aghi si ritiene che favorisca il fisiologico accumularsi e scorrere del fluido vitale.

Anche i massaggi sono  stati usati in Oriente, sin dalla più remota antichità per la regolazione del flusso d’energia: si pensi allo shiatsu ( che letteralmente significa : ‘pressione delle dita’), una delle arti terapeutiche tradizionali giapponesi, il cui dichiarato scopo è di equilibrare il flusso energetico individuale (in giapponese ki ) e dare vigore agli organi vitali per mantenere benessere e vitalità. Anche nello shiatsu la malattia nasce da uno squilibrio interno e sottile delle energie, sia quando sono in difetto (kyo) sia quando sono in eccesso (jitsu).

 

Altro concetto tradizionale è che il sangue sia veicolo del prana ( ciò ha indotto alcune tradizioni anche religiose a prendere alla lettera il motto secondo cui ‘l’anima è nel sangue’). In effetti c’è una qualche connessione tra energia vitale, emozioni e sangue: la si può sperimentare quando arrossiamo per vergogna, timidezza, senso di colpa, oppure quando il sangue ci ‘sale alla testa’ per la rabbia o si accelera il battito cardiaco per un forte moto affettivo. Uno stress psichico prolungato può far alzare la pressione arteriosa…A volte il moto sanguigno sembra quasi arrestarsi come quando per la paura impallidiamo. In tutti questi casi, come in altri, è evidente la connessione tra gli stati d’animo e quella parte di energia emozionale che si veicola col sangue nel nostro organismo. Nel nostro comune linguaggio, in effetti, il controllo delle emozioni è possibile solo se si sa mantenere abitualmente ‘il sangue freddo’, e quando ci si ‘gela il sangue nelle vene’ è segno che siamo sbigottiti per lo spavento; quando non abbiamo buoni rapporti con qualcuno diciamo che ‘non corre buon sangue’; quando proviamo sdegno sentiamo ‘rimescolarsi il sangue nelle vene’

 

Altra prova di una antica percezione del prana è data dall’iconografia sia orientale che occidentale. Esso è rappresentato in genere da una aureola (piccola aura-aria) che contorna il capo dell’illuminato, del saggio, del santo. Il termine viene dal tardo latino aureola(m) riferito al sottinteso sostantivo corona(m) e stava quindi ad indicare una corona d’oro, un cerchio splendente posto intorno al capo. Una funzione analoga aveva il termine nimbum con cui s’ indicava appunto quella nube luminosa (nimbo/nembo) che veniva collocata attorno alla testa di un dio o di un santo. A volte quell’energia spirituale viene rappresentata nell’iconografia da una più grande aura, correlata a figure di una maggiore dignità di cui avvolge completamente il corpo  ( nel mondo cristiano, ad esempio, diventa la mandorla mistica di Gesù o della Madonna).

Il termine aura (soffio, respiro) del resto lo usiamo spesso nel linguaggio comune proprio per indicare un’ atmosfera ‘psichica’ ( quando, ad esempio, diciamo che in un ambiente c’è, si respira un’ aura di pace) o quando ci riferiamo ad un’atmosfera suggestiva che emana da un’opera d’arte.

 

Ma soprattutto l’energia compenetra e vivifica la Natura intera: gli artisti hanno sempre trovato nella ‘percezione sottile’ di essa, considerata come ‘realtà vivente’, una fonte costante d’ispirazione; ed è lo stesso tipo di percezione sottile dei luoghi naturali che orientava gli antichi a vedere dovunque la presenza di dei, le cui forme variavano col variare dei riferimenti simbolici delle varie culture ( si pensi alla diffusione universale dell’animismo, alle dottrine panpsichiste o ilozoiste della stessa filosofia presocratica, di quella platonica e neoplatonica, alle tradizioni ermetiche, alchemiche etc.).

 

Nella pratica dello sviluppo della percezione sottile percepire l’energia significa comprendere/sentire quando essa è in eccesso (per cui bisogna scaricarla) e quando è in difetto ( per cui bisogna accumularla). Uno degli effetti dell’esercizio della consapevolezza del respiro è quello appunto di sviluppare una diversa percezione di se stessi: ci si sente sempre più come energia, come un centro di energia. Tale realizzazione consente di avvertire distintamente e precocemente, ad esempio, un incipiente  strutturarsi nel corpo di uno stato di nervosismo avvertito come un eccesso di energia  accumulata, energia che tenderà naturalmente a scaricarsi, come, ad esempio, con il movimento costante delle gambe o delle mani: si pensi agli atleti che istintivamente prima della gara scuotono mani e piedi per mantenere ad un giusto livello l’energia nervosa che li predispone alla prova. Lo stato di nervosismo si traduce com’è noto, in una condizione d’irritabilità che può indurre facilmente ad esplosioni ‘energetiche’ di rabbia, rancore, risentimento, aggressività etc. Al contrario -e simmetricamente- una condizione di esaurimento nervoso (legata quasi sempre ad un affaticamento troppo protratto) indica la necessità di reintegrare l’energia attraverso, ad esempio, una condizione di riposo prolungato o una migliore nutrizione.

 

Lo stesso stress (termine che in inglese indica propriamente lo ‘sforzo’, la ‘spinta’) non è altro che una reazione nervosa ad una serie d’impulsi i quali determinano uno stato di tensione che  si può cronicizzare sino a diventare patologico, o quantomeno predisponente alle più varie patologie. Ciò accade proprio perché esso va ad alterare l’equilibrio della bioenergia fondato sulla fisiologica alternanza di uno stato di tensione con uno opposto di distensione.

 

Che anche la depressione sia un fenomeno che, pur se riconducibile alle più diverse cause, si manifesta comunque in termini energetici fisici e psichici lo si capisce dal fatto che essa è nello stesso linguaggio comune sinonimo di ‘poca energia’ e dunque prostrazione, avvilimento, abbattimento.

 

E’ comunque difficile iniziare la seduta di meditazione con un sovraccarico di energia nel corpo, giacché il suo eccesso causa una condizione di fastidioso nervosismo che rende difficilmente sopportabile la condizione di immobilità che di per sé tende proprio ad accumulare energia.

L’ideale sarebbe sublimare tale energia in eccesso sul piano organico orientandola verso i chakra superiori per trasformarla in forza spirituale capace di determinare stati illuminativi (è questa in effetti la vera funzione della meditazione! ) ma  è un’arte difficile che si apprende progressivamente.

Agli inizi della pratica sarà pertanto necessario seguire la via più facile dello scaricare prima della seduta meditativa vera e propria l’energia in eccesso attraverso un’attività fisica appropriata.

 

 

M – IL RESPIRO E LA FISIOLOGIA DEL CORPO SOTTILE NELLA TRADIZIONE INDUISTA

 

Nella tradizione induista la circolazione del prana nell’organismo umano avviene attraverso una fitta rete di canali, le nadi ( in sanscrito il termine significa: vene) la cui funzione è quella di convogliare l’energia vitale servendosi di alcuni centri sottili noti come chakra (ruote) o padmas (loti).

Tre nadi sono considerate le principali in quanto governano l’intera circolazione pranica nei processi corporei e nelle funzioni pichiche: Sushumna, Ida e Pingala.

Sushumna è la nadi che corre esattamente al centro della colonna vertebrale ed è in collegamento col sistema nervoso cerebrospinale, ha la sua base nel Muladhara chakra ( la cui corrispondenza somatica è il plesso sacro-coccigeo).

Ida scorre lungo la parte sinistra del corpo, sorge anch’essa dal Muladhara e attraverso un percorso sinuoso (serpentiforme) giunge alla radice della narice destra.

Simmetricamente procede Pingala sul lato destro.

Si noti che  lo schema delle tre nadi riproduce esattamente quello del Caduceo di Ermete, con le due serpi intrecciate attorno alla verga ‘alata’, simbolo ancora oggi dell’arte medica: il caduceo ( latino: caduceum) prende nome dal greco kerykeion, giacché era simbolo dei messaggeri e Mercurio era considerato, come messaggero(kèryx) degli dei, capace di collegare la Terra al Cielo ( Ermete era indicato come psicopompo, cioè  conduttore delle anime dei morti nell’al di là; le ali del caduceo significavano esotericamente la necessità che l’energia dell’anima s’innalzasse al momento della morte attraverso il percorso costituito dall’asse cerebro-spinale,  ascendendo così ai più elevati reami spirituali oltremondani).).

Ma ritorniamo all’India: alcuni studiosi ritengono che si possano stabilire delle corrispondenze ben precise tra i sette chakra e taluni organi del corpo e in particolare le ghiandole, senza con questo dimenticare che costituiscono la base energetica di tutte le funzioni psichiche. Si tenga inoltre presente che l’evoluzione della coscienza umana avviene mano a mano che l’energia si sposta stabilmente verso i chakra superiori, meta a cui aspira ogni forma di meditazione. I centri sono:

1        – Muladhara è quello che si colloca più in basso, tradizionalmente si considera la sede della volontà di vivere, corrisponde, come s’è detto, al plesso sacrale e alle ghiandole surrenali che sollecitano il corpo ad agire. E’ la sede della Kundalini, l’energia basale (rappresentata come un serpente attorcigliato, pronto a destarsi) che si trova allo stato potenziale in tutti gli esseri umani, capace di ascendere sino al ‘loto dai mille petali’ situato sopra la testa e indurre così l’esperienza della Trascendenza (simboleggiata dal dio Shiva). Kundalini indica la Potenza divina dell’ Immanenza (la si raffigura come la dea Shakti) nascosta nella materia, è l’Energia della Natura. Nel nostro corpo giace, lì dove c’è quell’osso (formato dall’insieme delle vertebre terminali della colonna vertebrale) che , significativamente ancora oggi chiamiamo ‘sacro’( è l’os sacrum dei latini, ma i greci lo chiamavano allo stesso modo: hieròn ostéon)

2        -Swadishthana, collocato poco più in alto, corrisponde al plesso prostatico e alle gonadi, che governano l’attività sessuale.

3        -Manipura corrisponde al plesso solare e al pancreas che controlla lo zucchero nel sangue, cioè il carburante dell’organismo.

4-      Anahata, corrisponde al plesso cardiaco e al timo, una ghiandola che si atrofizza nel corso dell’infanzia e che ha un ruolo essenziale per il sistema immunitario.

5-      Vishudda corrisponde al plesso faringeo e alla tiroide, che regola il ritmo metabolico dell’organismo.

6-      Ajna, indicato spesso come ‘il terzo occhio’, corrisponde al plesso cavernoso e all’ipofisi, la ghiandola più importante dell’organismo, che controlla l’attività di tutte le altre ghiandole endocrine.

7 – Sahasrara, sede del più alto livello di consapevolezza, corrisponde all’epifisi, una ghiandola dal comportamento ancora misterioso, che sembra controlli sonno e risveglio; secondo alcuni studiosi è da collocare invece  più esattamente sopra la fontànula (la cosiddetta ‘fontanella di Brahma’).

Ad ogni chakra è inoltre associato un elemento, un colore, un suono (mantra), un diagramma (mandala), un animale e una coppia divina (aspetto bipolare dell’energia).

Prana è termine che si usa per indicare genericamente il principio di vita  ma poiché questa si manifesta attraverso diverse funzioni organiche ( ognuna è indicata col termine vayu= soffio) la tradizione indiana ha usato per ciascuna di esse un termine specifico: per la principale, quella dell’ingerire e dell’assimilare, ha usato però lo stesso termine prana con cui si correla anche il principio psichico della simpatia e dell’attrazione. Esempi della incorporazione e della ingestione sono l’inspiro, il mangiare, il bere, l’assimilazione cutanea.

Apana è invece il termine con cui s’indica l’espiro e la funzione vitale della eiezione, della espulsione; ad apana si associa e corrisponde psichicamente la repulsione e l’avversione. Essa svolge la funzione di eliminare tutto ciò  che nell’organismo fisico (o psichico…) non è accettato, non è assimilato; pertanto è l’energia che guida l’organismo nei processi di espulsione come la minzione, la defecazione, la traspirazione, il vomito, la secrezione nasale, la inseminazione, il parto.

Si potrebbero ricondurre tutte le funzioni vitali a prana e apana ma spesso i testi indicano delle funzioni più specifiche con altri tre termini ( sono altri tre vayu ): con samana ci i riferisce alla funzione dell’assimilazione organica, con vyana ci i riferisce alla funzione della distribuzione delle sostanze dopo che sono state ingerite e non espulse; con udana  ci si riferisce a tutte le funzioni con cui si può espellere l’aria, quali il parlare, il cantare, il gridare.

Le funzioni vitali vengono connese a cinque centri sottili specifici: al chakra della gola viene riferita udana, a quello cardiaco prana, a quello dell’ombelico samana, all’ano apana e a tutto il corpo vyana.

Uno dei maggiori studiosi delle tradizioni induiste, sir John Woodrooffe (noto con lo pseudonimo di Arthur Avalon), ha così sintetizzato la valenza metafisica e metaindividuale del prana:

 

Vi è un prana individuale e un prana cosmico. Il secondo è il Brahman quale prana…Il prana individuale è limitato al particolare corpo che da esso è animato ed è una manifestazione, in tutte le creature che respirano, chiamate prani, dell’attività datrice di vita del Brahman. Il prana cosmico che pervade ed anima tutti gli esseri che respirano è il Brahman come insieme di tutti i prana individuali. Il respiro è una manifestazione microcosmica del ritmo macrocosmico secondo il quale l’intero universo appare, si muove e scompare. E viene detto che la vita di Brahma ( da distinguere dal Brahman), che è la coscienza creativa di ogni universo, ha la durata di un espiro del Signore quale tempo (kala). Al suo ispirare, tutti mondi vengono ritirati, cioè vengono riassorbiti nel loro principio”.[13]

 

 

3   -   LA   MENTE   (DHYANA YOGA)

 

A-   CONCENTRAZIONE E MEDITAZIONE

 

L’osservazione del respiro conduce progressivamente alla focalizzazione della coscienza sui processi mentali.

Nella tradizione yoga lo sviluppo della capacità di concentrazione (ekagrata) è la premessa per entrare nella vera e propria meditazione (dhyana), cioè in uno stato in cui si trascende la mente; ma l’esperienza dimostra che la pratica meditativa è molto difficoltosa se precedentemente non si armonizzato il corpo e la sua vitalità.

 

Con la concentrazione si acquisisce la capacità di controllare la mente e volgerla a propria volontà in una specifica direzione, con la meditazione si entra, per naturale sviluppo della stessa concentrazione, in uno spazio di non-mente, di consapevolezza priva di pensieri.

Così si può dire che tra concentrazione e meditazione non c’è contrasto ma solo una gradualità nel processo di crescita interiore.

 

Per questo la psicoterapia occidentale che ‘armonizza’ e ‘normalizza’ l’io liberandolo da esperienze emotive condizionanti e la meditazione che lo guida a stati superiori della coscienza possono essere considerati due gradini dello stesso processo ascensionale con il quale lo spirito acquisisce condizioni sempre più elevate di autonomia, libertà, forza, realizzazione, conoscenza e beatitudine.

 

Il motivo profondo di tale correlazione ed efficacia è che sia la psicoterapia che la meditazione sviluppano l’io attraverso esercizi di trascendenza ed integrazione rispetto al proprio vissuto, vissuto che si traduce nello spazio della coscienza in un flusso ininterrotto e magmatico di immagini, stati d’animo ed emozioni di origine speso subconscia.

Nella psicoterapia il paziente rievoca i momenti traumatici della propria storia personale e tramite il racconto e la conseguente scarica emozionale ’prende le distanze’ da quegli eventi, si abitua ad assumere verso di essi un atteggiamento più distaccato, quindi più sereno e più forte, capace di un giudizio più ‘obiettivo’. E’ questa ‘trascendenza’ che può guarire: un io ‘risanato’ è un io meno ‘identificato’ con le sua dimensione emotiva e passionale.

La stessa intelligenza diviene in tal caso più lucida perché sempre meno ‘controllata’ da aprioristici fattori emotivi condizionanti.

Anche nella meditazione il praticante osserva con il suo ‘occhio interiore’ il fluire delle immagini che emergono automaticamente ed incessantemente da quelle profondità della sua coscienza in cui si conserva il ricordo di tutte le sue vicende biografiche. In effetti quando   s’inizia la pratica meditativa i primi contenuti che emergono sono proprio quelli che più urgono dal basso e che strato dopo strato cercano di appalesarsi, vogliono essere rievocati, riportati alla luce  ed integrati. Il meditante si esercita ad attuare un ‘sottile distacco’ da essi, li ‘osserva’ e li ‘domina’ rafforzando così l’autonomia e l’indipendenza del proprio io, con l’effetto di risanarlo, per poi, con lo stesso movimento interiore di ascesa, espanderlo verso il proprio Sé, la cui vera natura è, logicamente,  metastorica, metabiografica e metapersonale.

La meditazione è così un’autoterapia, è un percorso di trascendenza dall’io al Sé, dalla ‘persona’(che in latino significa appunto ‘maschera’) alla Essenza.

Il valore ma anche il limite di ogni terapia psicologica e psicanalitica è stato così messo in evidenza da Osho:

“ Freud ha introdotto nel mondo la psicanalisi, il cui fondamento è l’analisi della mente. Ma essa resta confinata all’interno della mente; non ne esce neppure di un passo. Anzi, scende nella mente a profondità sempre maggiori, ne scruta gli stati più nascosti, visita l’inconscio per trovare metodi e mezzi affinché la mente dell’uomo possa quanto meno essere normale. Lo scopo della psicanalisi freudiana non è gran cosa.

Il suo unico scopo è mantenere le persone nella normalità. Ma la normalità di per sé non è sufficiente.  Il semplice essere normali non ha alcun valore. Significa poter corrispondere alla normale routine della vita. Non ti dà alcun significato, nessun senso. Non ti dà alcuna intuizione sulla realtà delle cose. Non ti porta oltre il tempo, oltre la morte.

Al massimo, si può dire che sia un espediente utile per coloro che sono diventati così anormali da non riuscire più a gestire la propria vita quotidiana – non riescono a vivere con le persone, non riescono a lavorare, la loro routine è andata in frantumi. La psicoterapia rimette insieme queste persone, non dà loro un’ integrità, ricorda, si limita a rimetterle insieme. Le lega in un fascio, lasciandole però frammentarie: in loro non si cristallizza alcunché, non nasce anima alcuna. Non diventano estatiche, sono solo meno infelici, meno miserabili.

La psicologia le aiuta ad accettare la propria infelicità. Le aiuta ad accettare il fatto che questo è ciò che la vita può dare, non può dare di più, quindi non è il caso di chiederlo. In un certo senso, ciò è dannoso per la crescita interiore delle persone, perché si cresce interiormente solo quando esiste uno scontento divino. Solo quando sei assolutamente insoddisfatto delle cose, così come sono, solo allora ti metti alla ricerca, solo allora inizi ad elevarti, solo allora ti sforzi di uscire dal fango.

Jung andò un po’ più in profondità nell’inconscio. Raggiunse l’inconscio collettivo. In questo modo ci si insabbia sempre più in acque fangose, inutilmente.

Assaggioli si è portato all’altro estremo: vedendo il fallimento della psicoanalisi, ha inventato la psicosintesi. Ma resta comunque radicato nella stessa idea; enfatizzando la sintesi anziché l’analisi.

La psicologia dei Buddha non è analisi, né sintesi; è Trascendenza: è andare oltre la mente. Non è un lavoro all’interno della mente, essa opera per portarti al di fuori della mente. Ed è questo il significato della parola ‘estasi’: uscire fuori…

La psicologia dei Buddha non opera all’interno della mente. Non ha alcun interesse nell’analizzare  e nel sintetizzare. Ti aiuta semplicemente a uscire dalla mente, in modo che tu possa dare uno sguardo dall’esterno. E proprio quello sguardo è una trasformazione. Nel momento in cui riesci a guardare la tua mente in quanto oggetto, ne sei distaccato, te ne disidentifichi: si crea una distanza e le radici della mente vengono tagliate.

Come mai, operando così, si tagliano le radici? Perché sei tu che continui a nutrire la mente; se non sei identificato, smetti di nutrirla…

Nel momento in cui ti siedi sulla riva della mente non le dai più energia. Questa è vera meditazione. E la meditazione è l’arte della trascendenza”.[14]

 

Pertanto per far evolvere la coscienza al processo d’integrazione psicosomatica, cioè con l’inconscio inferiore, deve seguire quello d’integrazione con la dimensione propriamente spirituale, cioè con l’inconscio superiore.

 

Tale processo può essere favorito dalla conoscenza e dalla pratica dello yoga, quale appunto la tradizione indiana ce lo ha trasmesso.

 

Non è un caso che Patanjali (II sec.a.C.) nei suoi famosi  ‘Aforismi’ abbia indicato  l’essenza dello yoga come  interruzione e controllo (nirodah) del flusso (vritti = vortice) del pensiero (citta).

In effetti una pratica anche breve dell’anapanasati farà comprendere che l’ostacolo principale alla concentrazione sul respiro e poi alla meditazione è proprio il flusso ininterrotto, automatico ed incontrollato della nostra vita psichica, che consta di una catena inesausta e compulsiva di ricordi, riflessioni, fantasticherie, vagheggiamenti, sogni…connessi per lo più a diverse condizioni emotive: ansia, timore, speranza, apprensione, rimpianto, rancore, odio, invidia, amore, commozione, paura, rabbia, inquietudine…

 

Nell’uomo ‘comune’ i contenuti interiori si appalesano, si associano, proliferano, si dileguano sotto l’impulso di una forza profonda, la cui scaturigine ci rimane ignota e incontrollata.

L’uomo ‘comune’ non pensa ma ‘viene pensato’.

Per questo la nostra attenzione sarà continuamente ‘dis-tratta’, cioè  allontanata rispetto   al nostro intenzionale ed originario ‘percorso’( in effetti il prefisso latino ‘dis’  comporta la nozione di ‘contrasto’, ‘negazione’, ‘separazione’ ed ha spesso  valore peggiorativo, per cui   ‘essere distratti’ significa  ‘essere volti in una direzione  diversa da quella astrattamente voluta’).

Nella concentrazione meditativa lo yoghin si separa dalle percezioni fisiche distraenti ‘esterne’, cioè provenienti dai cinque canali dei sensi (chiudendo gli occhi, cercando un luogo silenzioso e privo di cattivi odori etc.) per poter più facilmente focalizzare la sua coscienza verso le forze distraesti  ‘interne’( provenienti da ricordi e da immaginazioni volte al futuro, cioè sempre da ‘catene di pensieri’ collegati ad esperienze sensibili).

Il suo intento è quello di svincolare la coscienza dal corpo e dai suoi ‘precipitati’ noetici ed emotivi ( da cui normalmente viene ‘catturato)  affrontandoli e superandoli.

Inoltre  si noterà che premeranno e si affacceranno alla nostra coscienza soprattutto i ‘contenuti’ più dolorosi: i nostri problemi, i nostri turbamenti, le nostre ansie, le nostre angosce, i nostri timori, insomma tutte le nostre più intime sofferenze.

Sembrerà che mai come durante la meditazione il nostro mondo interiore è stato agitato.

Tutto ciò è normale, è previsto…

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare non è la meditazione a causare quegli stati d’animo, quei frenetici e dolorosi ‘turbini di coscienza’ (in sanscrito:’cittavritti’); la meditazione sta solo facendo affiorare tutto ciò che abbiamo soffocato nell’inconscio, ponendolo adesso alla luce della consapevolezza.

E’ come se quegli stati di coscienza, quelle sensazioni o ricordi carichi di emotività e nascosti nell’inconscio (vasanas) non attendessero altro per emergere. Il fatto è che solo emergendo possono placarsi, dissolversi…

La forza della coscienza, insomma, li ha solo ‘catarticamente  evocati’.

L’attenzione allo ‘spazio interiore’ li sta facendo affiorare, ma proprio questa è un’occasione da non perdere per conoscere noi stessi, il nostro ‘io profondo’ e per poterli ‘integrare’ nella nostra ordinaria coscienza, cioè dominarli e non esserne dominati…

Dalla consapevolezza viene  la forza che opererà la ‘purificazione’ attraverso il decondizionamento, il depotenziamento e infine la ‘trasmutazione’ in positivo di tutte  quelle energie.

Le energie così ‘sublimate’ andranno a ‘nutrire’, a rafforzare ed armonizzare l’io.

Questo, però, è il punto più critico della pratica  meditativa.

Colui che ha iniziato a meditare deve saper superare coraggiosamente questa ‘soglia del dolore interiore’, deve accettare la sua intima realtà; l’autorealizzazione presuppone  l’autoconoscenza e solo un ‘io’ integrato, cioè non scisso, non  intimamente conflittuale, vi può pervenire.

Perciò il motto della scienza sacra antica era :    ”CONOSCI TE STESSO”.

 

Se si sa perseverare e ricondurre la nostra mente, dopo ogni distrazione, al respiro, poco a poco, la forza traente della mente scemerà . Così potremo, prima per brevi istanti e in seguito sempre più a lungo, rimanere  vigili e sereni nel nostro spazio interno.

Diventerà superflua la stessa consapevolezza del respiro e si modificherà il nostro  ‘livello di coscienza’.

Si sperimenterà un’armonia interiore che crescerà divenendo, di grado in grado, serenità, pace, gioia e, infine, beatitudine.

 

La coscienza, già raffrenata in un punto dalla concentrazione (per cui in sanscrito si usano i due termini pressoché equivalenti di dharana e ekagrata), passerà  così, per spontanea evoluzione, alla  meditazione (dhyana), stato in cui  una consapevolezza intuitiva, priva di ‘contenuti mentali’, consentirà di cominciare a percepire la dimensione  metafisica del Reale.

 

Dopo aver placato prima il respiro e poi la mente, inizieremo a poter anche   ‘vivere nel puro presente’, non più ‘alienati’, proiettati compulsivamente verso il passato – attraverso i ricordi- né verso il futuro – attraverso speranze e timori-.

Poiché però  la mente ci spinge sempre,  col suo fluire caleidoscopico, verso un passato non più esistente e verso un futuro non ancora attuato,’vivere nel presente’ significa  ‘vivere senza mente’, cioè ‘essere consapevolmente qui ed adesso’. Ciò consente il fiorire in una  consapevolezza  pura, piena e saldamente pacificata  in ogni singolo momento.

 

Tale condizione ‘naturale’ della mente, quella appunto ‘meditativa’ o ‘contemplativa’, la si può sperimentare solo con una costante pratica  ed è possibile ‘realizzarla’ appunto perché la coscienza , nella sua essenza, trascende la mente , cioè il pensiero ‘logico–discorsivo’.

Noi possiamo infatti osservare ‘dall’esterno’ i contenuti della nostra coscienza e proprio  l’esercizio di questa  consapevolezza consente lo sviluppo della dimensione trascendente, transpersonale del nostro io oltre che l’acquisizione di  sottili forze psichiche e spirituali.

A tal punto si comprende che l’anapanasati è stato sostanzialmente un esercizio di trascendenza della mente rispetto alle funzioni organiche, utile a predisporre  ad una trascendenza  più ardua, quella, appunto, dell’autocoscienza   rispetto alla mente discorsiva (manas).

 

Quando la coscienza, in qualche misura, sa ormai poggiare su se stessa e già affiora   il nucleo stabile dell’io, il meditante può affrontare la lotta contro i suoi automatismi di coscienza anche in modo diretto.

A tal fine nelle   scuole yoga si utilizzano sostanzialmente tre metodi: i primi due  noti nella tradizione tibetana come ‘l’esercizio del pastore’ e ‘della roncola’, il terzo, quello  ‘dell’Io Sono’ , collegato in India alla scuola del Vedanta.

 

Per i primi due riportiamo le chiare indicazioni di J.Evola:

 

1 – “Con l’animo calmo, abbandonare il pensiero a se stesso. Assistere allo spettacolo delle varie associazioni mentali che allora si producono spontaneamente e capricciosamente però senza perdere mai la presenza a se stessi, senza disturbarle ma senza nemmeno farsi trasportare da esse, guardandosi bene   dal raccogliere e dallo sviluppare l’uno o l’altro pensiero affacciatosi. A tal fine, sarebbe utile riformulare mentalmente i pensieri che via via si presentano, quasi dicendo: ’Ecco, ora ho pensato quest’altro dopo di questo’, e via dicendo. Siccome accade spesso, all’inizio, che la mente si distragga, non si dovrebbe continuare partendo dal pensiero col quale ci si ritrova, ma bisognerebbe cercare di ricostruire la fuga dei pensieri che ha condotto fino ad esso e ripartire dal punto in cui si era ancora ben presenti a se stessi.

In alcuni testi questo viene chiamato ‘l’esercizio del pastore’. L’atteggiamento interiore è simile a quello di un pastore cha lascia pascolare, andare a folleggiare le sue bestie senza però perderle d’occhio. Il risultato positivo è raggiunto quando –anche questa è un’immagine dei testi- si ha  una sensazione simile a quella di chi sta calmo e saldo su una riva e vede scorrere dinanzi a sé le acque di un fiume.

 

2 – Allo stesso fine conduce un altro metodo, il metodo ‘della roncola’. Si tratta di stare attenti e di sopprimere ogni pensiero, ogni immagine, non appena si presenta alla mente, così come con un colpo rapido e netto di falce si recide un giunco. Si presenterà un altro pensiero, col quale  si procederà allo stesso modo, e così via. Ad un dato momento, se si riesce  a tener fermo, si assisterebbe ad una specie  di fuga serrata di pensieri e di immagini: è la cosiddetta ’visione del nemico’, correlativa allo staccarsi dell’io dai contenuti della coscienza, con il che ci si troverà allo stesso punto finale dell’esercizio precedente, nello stato di chi sta saldo su una riva e osserva il rapido fluire di un corso d’acqua”.[15]

A quanto detto da Evola su tale secondo metodo, aggiungiamo il suggerimento di ‘visualizzare’ proprio una roncola e di  ‘tagliare’ con essa di volta in volta le immagini interiori: in pratica si può usare  un’ immagine  attivamente  contro le altre. Si noterà, dopo un certo allenamento, che la loro ‘forza’ d’impatto e  di  presa  sulla coscienza tenderà viepiù  a depotenziarsi.

Una analoga azione di depotenziamento e di controllo dovrebbe essere riservata agli stati emotivi siano essi o meno ‘evocati’ intenzionalmente.

Si comprende però come assumere in tal caso un atteggiamento ‘oggettivo’ sia più arduo rispetto a quanto  necessario per i puri  contenuti intellettuali.

 

 

3 – Il terzo metodo, il più diretto in assoluto e dunque anche il più arduo, è quello insegnato nei tempi moderni dal celebre Ramana Maharishi, che consiste nel distaccare radicalmente la coscienza da ogni contenuto  mentale    facendola appoggiare sin dall’inizio (senza utilizzare cioè ‘sostegni’ – quale l’osservazione del respiro – e senza passare per fasi intermedie) sulla sola Autocoscienza ( l’Io-Sono): si procede dalla mente all’Io e si lascia che l’Io spontaneamente  acceda al Sé transpersonale (atman).

 

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B  -  TECNICA MEDITATIVA ATTIVA O PASSIVA?

E’ solo un ‘bel dire’ (come fanno diversi ‘maestri’ spirituali) che per raggiungere uno stato meditativo ‘non serve uno sforzo’, che ‘bisogna solo lasciar andare i pensieri senza lottare contro di essi’, ‘osservarli semplicemente dall’esterno’, ‘lasciarli trascorrere come nuvole nel cielo’… chiunque ha veramente meditato sa che tutto questo è solo ‘bella poesia’.

In realtà il problema non è nella nostra astratta volontà di lasciar andare i pensieri: se fosse così basterebbe proporselo per ottenere spontaneamente – o quantomeno in tempi brevi e con facilità – il risultato.

La difficoltà nasce invece  dal fatto che sono i pensieri a non volerci lasciare, cioè essi sono dotati di una loro forza ‘autonoma’ rispetto al campo del nostro ‘io’ e alle nostre astratte e concettuali determinazioni.

La loro forza ci trascina ‘vorticosamente’, cioè con una  potenza di attrazione capace di ‘catturare’ la nostra attenzione, determinando così i contenuti intellettuali ed emotivi della nostra coscienza.

Per questo chiunque voglia conseguire quello stato di quiete interiore che chiamiamo ‘stato meditativo’ deve essere messo sull’avviso; non può e non deve essere ingannato: la lotta contro di loro è ineludibile. Ci vuole consapevolezza, motivazione, determinazione ed impegno.

E c’è lotta, si badi bene, sia che s‘immagini ‘attivamente’ di troncarli con qualche visualizzazione, sia che si cerchi (semplicemente!…) di staccare la nostra attenzione da essi per osservarli ‘dall’esterno’ proprio perché loro non lasciano che li si osservi pacatamente, serenamente, dall’esterno in quanto hanno una natura aggressiva ed intrusiva.

In virtù della loro intrinseca e specifica ‘forza’ tendono a catturare la nostra attenzione, s’introducono nella nostra coscienza e spesso ne diventano ‘padroni’, creando persino dei monoideismi ossessivi.

Per questo l’uomo comune non può dire propriamente ‘ego cogito’ ma dovrebbe piuttosto dire ‘ego cogitor’, vale a dire ‘io vengo pensato’; cioè c’è una forza in noi che determina i ’nostri’ pensieri e li collega gli uni agli altri in un ininterrotto fluire con lo stesso automatismo con cui induce l’atto respiratorio, armonizza i processi biologici, fa sorgere determinate emozioni attraverso i ricordi del passato o attraversole fantasticherie proiettate verso il futuro, determina i nostri stati d’animo…

In effetti, se le cose stanno così, i pensieri ( e con tale termine intendiamo in tale contesto tutti i contenuti interiori) sono ‘miei’ solo per il fatto che ‘compaiono nello spazio della mia coscienza’.

Ma fintantoché tale processo avviene tutto nell’inconscio io tenderò ad identificarmi con essi, il mio ‘io’ sarà solo l’insieme di essi, cioè un puro aggregato di stati e contenuti psichici determinato da fattori per lo più contingenti (nascita, educazione, valori indotti…).  L’io, infatti, è a tal punto costretto ad ‘obbedire’ a loro che spesso non si limita alla ‘sottomissione’, all’asservimento, ma finisce appunto per ‘immedesimarsi’ con essi, dimenticando del tutto se stesso.

E’ questo il meccanismo per il quale una passione può occupare totalmente il campo di una coscienza e ‘costringerla’ a comportamenti irrazionali se non addirittura insani.

E’ come se l’io ‘ordinario’ vivesse in uno stato di costante suggestione ipnotica, obbedendo compulsivamente  soprattutto a quei ‘comandi’ fondamentali che gli sono stati dati già da piccolo, quando la personalità non era strutturata e non c’era alcuna consapevolezza ‘critico-razionale’ a difenderlo.

Sono stati quei ‘comandi’, radicati precocemente e profondamente, a ‘plasmarlo’ nel processo di formazione della personalità.

La psicologia e, in particolare, la psicanalisi ne sanno qualcosa…

Per questo la meditazione è, nella sostanza, cercare il nostro vero ‘io’; e ciò implica un morire al vecchio io e il volerne uno nuovo che sia libero, in quanto costruito consapevolmente. Solo così esso può essere ‘autentico’ e ‘sano’.

Bisogna abbandonare la maschera per scoprire il nostro vero ‘volto’…la nostra ‘essenza’.

Solo un esercizio di trascendenza può darci il potere di controllo sulle fluttuazioni psichiche e sulla loro forza condizionante.

E’ scorretto, oltre che inutile, nascondere il fatto che così, però, si avvia  un processo liberatorio che può essere doloroso e faticoso.

Infatti ci si deve disidentificare e quindi mettere in discussione assumendo nei propri riguardi un atteggiamento di serena e ferma oggettività giudicatrice  oltre che di radicale onestà intellettuale nei confronti delle proprie convinzioni e stili di vita; bisogna saper abbandonare pregiudizi, convinzioni, atteggiamenti, scelte esistenziali, progetti, nati in contesti condizionanti.

Ma è proprio attraverso tale processo iniziatico di ‘morte’ e ‘rinascita’ che ci si può non solo affrancare dalle negatività del passato ma anche divenire diversi, più ‘vivi’, più sereni, più ‘lucidi’, più ‘entusiasti’.

La meditazione è una terapia dell’anima ma anche il seme che può farla crescere.

 

 

 

C -  MEDITAZIONE: UN ESERCIZIO ESISTENZIALE

 

Nel processo di crescita interiore è necessario, soprattutto agli inizi, che tutti i giorni si dedichi alla pratica della meditazione un tempo congruo e specifico; ma ciò non basta: deve essere solo un inizio.

Lo stato meditativo, cioè quella condizione della coscienza in cui ci si sente ‘centrati’ e ‘pacificati’, deve essere progressivamente portato al di fuori delle sedute, cioè anche nella ordinarie attività quotidiane, dominate per lo più da radicati automatismi.

Ciò è possibile se si ricorda  che meditare è, in essenza, radicarsi nella consapevolezza del presente.

Meditare è essere consapevoli di ciò che stiamo pensando ma anche essere consapevoli di ciò che stiamo facendo.

Così si può meditare camminando, rimanendo centrati sulla attività del camminare e non lasciando la mente vagare…

Si può meditare mangiando e percependo così il gusto del cibo, avvertendo il segnale del corpo che ci dice di smettere in un preciso momento; ci si può cibare senza compulsività o senza distrazioni quali il leggere contemporaneamente il giornale, sentire e vedere la televisione…

E’ meditazione tutto ciò che ci fa vivere nel presente.

In fin dei conti l’osservare il respiro, fissare una luce o il recitare un mantra, insomma tutte le tecniche concentrative, hanno la sola funzione strumentale di ‘ancorarci ‘al presente.

La meditazione deve così diventare progressivamente un fatto esistenziale, un abito mentale, un modo di essere.

 

La nostra coscienza di veglia, quella che identifichiamo con il nostro ‘io’, è collegata con le nostre facoltà di percezione del mondo esterno, quindi con il corpo.

Anzi, si dovrebbe dire che quel nostro ‘io’ è quella ‘parte’, quella ‘modalità della nostra coscienza di cui siamo consapevoli allorché ci relazioniamo col mondo sensibile.

Ciò vuol dire che esso non esiste ‘stabilmente’ né esaurisce le modalità della nostra consapevolezza ma che si ‘presenta’ solo nei momenti in cui ci volgiamo verso l’esterno o riflettiamo sui dati così acquisiti.

Per l’uomo comune è il corpo e  le sue facoltà percettive che costituiscono la base del suo senso dell’io.

La prova è che, quando la coscienza volge verso l’interno, ritirandosi dal suo legame con i sensi, seguendo la legge naturale di alternanza veglia/sonno, cioè in forza delle stesse leggi cicliche -biologiche e psicologiche- che garantiscono la nostra esistenza, l’io scivola nella condizione di ‘incoscienza’.

Ma l’io non si dissolve, semplicemente ‘scompare’ dal mondo della percezione esterna, si ritrae, e muta, assumendo un’altra identità che corrisponde solamente ad un’altra sua condizione ad un’altra sua modalità.

In effetti esso può nella vita onirica pensare ed agire in modi molto diversi se non addirittura opposti rispetto a quelli a lui consueti nella vita di veglia, rimanendo però in qualche misterioso modo sempre identico a se stesso, giacché al risveglio dirà: io ho sognato, così come nella condizione del sogno sarà cosciente di un suo vivere consapevole e di una sua propria identità. Addirittura nei ‘sogni lucidi’ sognerà ma rimarrà cosciente  del fatto che sta sognando e che in quel momento il suo corpo giace in uno specifico luogo ‘fisico’.

Lo stato onirico subentra  proprio quando la mente, intesa come chiara razionalità e capacità di autocontrollo, allenta la sua tensione verso l’esterno rientrando in quel mondo di forze inconsce e pulsioni in cui ha le sue radici organiche.

E’ proprio per tale motivo che nello stesso stato di veglia l’io, se non rimane collegato con gli organi di percezione esterna e di elaborazione cerebrale, tende a scivolare subito verso un passivo fantasticare che è, come tutti sappiamo, l’attività psichica che prelude e induce all’attività onirica.

Nel momento in cui stiamo per entrare nel sonno, infatti, le immagini che fluiscono dall’inconscio ci ‘sommergono’ e l’io vigile perde la sua ‘forza’ e la sua ‘presa’.

 

Per questo, soprattutto agli inizi, la pratica meditativa è ostacolata dalla tendenza al sonno: perché quella è la condizione in cui va ordinariamente a finire la coscienza quando si svincola dai sensi e s’interiorizza.

La meditazione invece richiede uno sforzo intenzionale e protratto per mantenere la coscienza chiara ed attiva anche quando si volge verso l’interno.

Così si può dire che proprio nel momento in cui ‘esteriormente’ siamo rilassati, immobili e passivi, dobbiamo ‘interiormente’ essere tesi, mobili, del tutto desti ed attivi, determinati a diventare ‘signori’ del mondo interno, pensatori e non pensati.

Non dobbiamo lottare contro il pensiero per abolirlo e cadere nello stato d’incoscienza; al contrario: dobbiamo lottare contro di esso per essere consapevoli anche senza di esso, ponendoci al di sopra di esso divenendo capaci di determinarne i processi da una condizione di più evoluta consapevolezza.

Le immagini interiori, i sentimenti, gli stati d’animo che fluiscono per ‘virtù’ propria all’interno della coscienza, non devono ‘oscurarla’ o ‘sopraffarla’. Esercitando una vigile attenzione, col tempo, riusciremo a sviluppare un potere di controllo su di essi.

Meditare significa pertanto ‘deipnotizzarsi’, decondizionarsi, allargare ed intensificare i momenti di consapevolezza.

Con la meditazione si capisce intellettualmente ( e poi si ‘sente’ esistenzialmente) che l’io è una ‘cosa’ ed i suoi ‘contenuti’ sono un’altra, che cioè esso, nella sua sostanza, rimane ben distinto dai fluttuanti e balenanti stati d’animo, immagini, sensazioni, che lo attraversano.

L’unità della nostra coscienza, il nostro io-penso, la nostra kantiana ‘appercezione trascendentale’, non s’identificano con il pensiero raziocinante ed i suoi contenuti ma ne costituiscono la condizione d’esistenza ed il saldo fondamento.

Per questo risulta inaccettabile la celebre formula cartesiana: cogito ergo sum; si deve dire piuttosto, al contrario, sum ergo cogito o, meglio ancora, sum ergo cogitare possum: cioè il pensiero è una possibilità che l’io deve poter ‘attivare’ o ‘disattivare’ a proprio piacimento.

L’io maturato dal processo meditativo si percepisce per quello che è: una individuale consapevolezza che sussiste anche nel ‘vuoto’ delle percezioni e dei pensieri.

Ma se meditare è svuotarsi dei pensieri e del loro ‘sostegno’ condizionante, è chiaro  che meditare significa porre la coscienza nel presente, giacché il pensare quando procede automaticamente ci getta nel passato o nel futuro, cioè ci fa ‘sognare’ vincolando la coscienza alle immagini interiori del passato già vissuto o del futuro che è ancora da vivere (preconizzato e fantasticato, quest’ultimo, tra speranze e timori).

La debolezza della nostra stessa coscienza di veglia, di cui andiamo tanto orgogliosi…, è dimostrata dal fatto che a molti capita di effettuare azioni complesse e persino pericolose, come ad esempio guidare un’auto per un lungo tratto di strada, senza una vera consapevolezza. In tali casi è evidente che l’io, un ‘altro’ io, seguiva nel contempo un fluire di sogni-pensieri tanto assorbente da non ricordarsi nulla, una volta ‘scosso’ e ‘desto’, di quanto ‘oggettivamente’ fatto.

Tale ‘risveglio’, nel suo piccolo, ricorda un altro ‘risveglio’ un’altra ‘illuminazione’ a cui l’esperienza mistica fa riferimento.

E’ un ‘risveglio’, quello iniziatico, per il quale l’io riesce a rimanere del tutto consapevole attraversando i tre stati, quelli della veglia, del sonno con i sogni, del sonno senza sogni, per giungere al quarto stato, turyia, quello in cui, finalmente integro e desto l’io si scopre nella sua essenza come forma dell’immutabile e cosmico Sé.

Si può anzi dire che il Sé è quell’io che attraversa i tre stati, che sono solo livelli di coscienza relativi, riemergendo ciclicamente da ognuno di essi.

Come fece notare giustamente Ramana Maharishi, non si dovrebbe parlare di un ‘quarto’ stato in relazione al Sé perché con tale termine (che usiamo in corrispondenza al sanscrito atman) si dovrebbe indicare non una condizione della coscienza, parziale, mutevole e contingente come le prime tre, ma la immutabile Essenza del nostro Spirito.

Per cogliere tale realtà bisogna percorrere un sentiero d’integrazione, espansione ed unificazione ed a tal fine il saggio indiano consiglia appunto, quale metodo più diretto, quello di cercare la Sorgente dell’io attraverso l’autoindagine (vichara) che consiste nel  fissare la propria costante attenzione al senso dell’io ed escludendo con ciò ogni altro pensiero.

Per Ramana solo l’io che persiste in tutti e tre gli stati è ‘reale’, cioè stabile ed immutabile nella sua trascendenza. Per l’uomo realizzato non c’è soluzione di continuità tra i tre stati:

 

Dicendo: – Io ho avuto un sogno; io ero profondamente addormentato (in una condizione) senza sogni, io sono sveglio- devi ammettere che tu eri là in tutti i tre stati. Ciò rende chiaro che eri presente per  tutto il tempo. Se rimani come sei ora, sei nello stato di  veglia; questo viene nascosto nello stato di sogno; e lo stato di sogno scompare quando sei nel sonno profondo. Eri là allora, sei là ora, e sei là in ogni momento. I tre stati vanno e vengono ma tu sei sempre presente…Solo l’io che persiste in tutti e tre gli stati è reale…A causa della radicata abitudine che abbiamo di considerare questi stati come reali, chiamiamo lo stato di semplice consapevolezza il ‘quarto’. Non c’è comunque alcun quarto stato ma soltanto uno stato…I tre stati devono la loro esistenza alla non indagine sul Sé e l’indagine (vichara) pone fine ad essi. Per quanto si possa spiegare, il fatto non diventerà chiaro finché non si consegua la realizzazione del Sé”. [16]

 

La tradizione yoga afferma che lo stato meditativo prelude, predispone e culmina   nel ‘samadhi’, cioè uno stato superiore, beatifico ed illuminato della coscienza.

Nel samadhi si realizza il fine di tutte le tradizioni spirituali, la ‘mistica unione’, quella per cui l’uomo, cogliendo la Natura Divina del Reale e del suo stesso Sé, si sente inondato da   una ineffabile felicità (ananda).

La coscienza, infatti, non più ‘vincolata’ dai sensi, non più ‘vincolata’ dal pensiero, ritorna spontaneamente alla sua Sorgente trascendente, all’Uno-Tutto.

 

 

 

 

APPENDICE : PSICOTERAPIA E MEDITAZIONE

 

La meditazione è un’attività ‘interna’ guidata dall’intento di autorealizzarsi ‘spiritualmente’.

 

Meditare è intraprendere una via che conduce oltre l’io, verso cioè quella dimensione del reale che  possiamo chiamare: Dio, l’Assoluto, la Conoscenza, il Tutto, l’Anima, il Sé, l’Essenza, il Fondamento, la Sostanza Prima, il Principio, l’Essere, il Divino, il Sacro, la Ragione Universale, il Logos, la Vita, l’Energia Cosmica, la Perfezione Assoluta, la Causa Prima, il Bene, l’Uno o comunque li si voglia definire o denominare filosoficamente…

 

La meditazione è una via di trascendenza rispetto alla ordinaria condizione coscienziale umana.

 

Spesso si dice che la meditazione sviluppa la capacità umana di esplorare i diversi piani della Realtà ma tale affermazione ha un senso ed è accettabile solo se si assume un punto di vista individuale. Infatti, a ben considerare, poiché l’ idea di base della metafisica iniziatica è anche quella della logica, cioè che tutta la realtà, pur nelle sue sterminate articolazioni, costituisce una Unità, sarebbe meglio parlare di gradi di esperienza percorrendo i quali l’individuo può espandere la propria coscienza all’interno dell’Uno sino ad identificarsi con il Sé, cioè con la Coscienza Universale che tutto include.

Come disse Ramana Maharishi per il quale la radice nascosta dell’io, cioè della coscienza individuale, è appunto l’essenza ‘divina’ dell’uomo, l’immutabile Sé transpersonale:

 

Non ci sono gradi di realtà. Ci sono gradi di esperienza per l’individuo, ma non di realtà. Qualunque possa essere l’esperienza, lo sperimentatore è sempre lo stesso”.[17]

Tuttavia non tutte le persona sono di per sé nella condizione d’iniziare una pratica meditativa proficuamente senza che esitano o siano poste delle condizioni preliminari.

L’esperienza dimostra, infatti, che molti praticanti trovano proprio all’inizio della propria esplorazione interiore insuperabili difficoltà poiché avvertono dolorosi turbamenti (sono i ‘turbini’ della coscienza di cui parla Patanjali…) se non cadono addirittura in crisi psicotiche.

 

La causa di tale situazione è sotto gli occhi di tutti: nella nostra civiltà contemporanea (ormai non più solo ‘occidentale’) l’io è, nella quasi totalità dei casi, nevrotizzato, disarmonico, in una condizione più o meno larvatamente patologica.

 

La psicologia occidentale, e in particolare la psicanalisi, ha indicato la causa più frequente di tale condizione: il conflitto tra conscio ed inconscio o, per usare termini più appropriati, tra conscio e sub-conscio, cioè tra il conscio e quegli ‘affetti’ profondi, quelle passionalità nascoste che ci legano al mondo degli istinti e dei bisogni primari, vale a dire alla nostra ‘ascendenza’ animale.

 

In realtà la nevrosi umana, come ha scoperto la psicologia ‘umanistica’ ed in particolar modo quella ‘transpersonale’, può essere originata anche dal conflitto tra conscio e super-conscio, cioè tra la nostra consapevolezza ordinaria ed i nostri bisogni ‘alti’ di autorealizzazione, tendenti cioè a condizioni psichiche ‘elevate’ di felicità, appagamento, libertà, creatività etc.

Pertanto risulta oggi chiara la necessità d’integrare le conoscenze della moderna ricerca psicologica occidentale (scientifica e sperimentale) che ha esplorato  in particolare l’Inconscio Inferiore  con quelle della più antica (intuitiva e spirituale) propria dell’Oriente  che ha esplorato l’Inconscio Superiore.

 

In tale contesto è bene proporsi uno sviluppo ‘graduale’ dell’io dal piano inconscio a quello conscio e, infine, a quello superconscio; il che vuol dire che l’io deve ‘integrarsi’ con ciò che lo trascende verso l’Alto e con ciò che lo trascende verso il Basso, esplorando così tutti i piani dell’Essere, dalla Materia allo Spirito.

 

Ma poiché in ‘natura’ tutto procede secondo principi di gradualità (natura non facit saltus !) è evidente che un io legato al mondo istintuale non può e non deve ‘d’un balzo’ orientarsi verso la Trascendenza perché non è semplicemente nelle condizioni di poterlo fare.

Per la maggior parte delle persone è necessario ‘consolidare’ l’io, rafforzarlo, costruirlo come un gradino da cui si possa ascendere, andare oltre.

I greci sapevano che andare al divino senza aver coltivato il logos è una pura illusione: il logos umano non è che un riflesso del Logos divino. La Ragione intesa come la Consapevolezza che  sostiene e sottende i processi del pensiero è il divino potenziale in noi…

A tal fine è  necessario uno sviluppo pieno della razionalità e, quindi, anche della conseguente capacità di ‘controllo’ delle pulsioni istintuali.

Tale controllo, sia chiaro, non deve essere inteso come una costrittiva inibizione: questa, a ben vedere, è solo l’esatto opposto – sempre compulsivo – della beluina istintività e della cieca, irrazionale passionalità.

Inibizione o compulsione espressiva indicano entrambe la impossibilità dell’io al controllo  e quindi una sua condizione d’inaccettabile ed involutiva mancanza li libertà.

 

E’ bene osservare a tal punto, anche se solo per inciso, che è tipica di un ‘falso’ esoterismo la ‘demonizzazione’ della  razionalità: l’esperienza dimostra, purtroppo, che un io che si apra senza la ‘luce’ della discriminazione intellettuale (come è successo a parecchi ‘mistici’ e ‘veggenti’) ad influssi psichici ‘esterni’ è destinato a cadere nella ‘bassa medianità’ che induce, nella migliore delle ipotesi, semplicemente a sciocca  credulità e puro visionarismo.

Nel processo evolutivo della coscienza l’acquisizione di una capacità di riflessione critica, cioè di comparare, analizzare, sintetizzare è un momento di ‘spiritualizzazione’ della psiche che ha un preciso significato.

Per usare la terminologia filosofica si può dire che non bisogna confondere insomma il ‘razionalismo naturalistico’ con il ‘razionalismo puro’: quello che va rigettato è solo il primo, quello, cioè, che ritiene impossibile l’esistenza di modalità dell’Essere diverse da quelle puramente materiali e che quindi dichiara a priori impossibile l’esistenza di una qualsiasi dimensione metafisica.

Il razionalismo ‘puro’, invece, come l’intese lo stesso Kant, consiste in un uso della ragione che, consapevole dei propri limiti, non esclude la possibilità di esperienze metafisiche ma che, altrettanto chiaramente, non s’illude di poter elaborare per via puramente concettuale una ‘scienza metafisica’, vale a dire un onnicomprensivo ed esaustivo‘sistema metafisico’.

La ragione deve riconoscere proprio perché tale, i suoi limiti di fronte al Mistero dell’Essere.

Anche nell’esperienza metafisica deve essere portata tutt’intera la capacità razionale; la si deve solo ‘aprire’ alla possibilità di percepire stati diversi della Realtà nella quale possono valere leggi che non corrispondono a quelle della comune esperienza sensoriale.

Ciò che l’esoterista non può accettare è una posizione ‘fideista’, quella posizione per cui nel medioevo si affermava che la ‘filosofia’, cioè la ricerca razionale, deve subordinarsi (essere ‘ancella’) alla teologia, vale a dire ai contenuti dogmatici della fede.

Né il razionalismo gretto né il fideismo cieco conducono alla Conoscenza.

 

Ma ritorniamo al nostro argomento.

I meccanismi della relazione tra conscio ed inconscio sono stati studiati dalla psicanalisi che ha così elaborato efficaci tecniche psicoterapeutiche capaci di condurre l’uomo da una condizione nevrotica, o comunque psicopatologica, ad una condizione di ‘normalità’.

Ma la ‘normalità’ è solo una condizione di ‘bassa patologia’, come ha ben rilevato Maslow.

Oltre la normalità c’è la super-coscienza che si manifesta come ispirazione illuminante, genialità creativa ed inventiva, beatitudine estatica, sentimento d’interiore armonia etc.: insomma con quegli stati superiori dell’io a cui tende la pratica meditativa.

Il primo passo verso la ‘realizzazione spirituale’ (che include tutte le manifestazioni ‘alte’ dell’Arte, della Religione, della Scienza, della Filosofia, della Filantropia) non può che partire dalla condizione e dalla ‘costituzione’ attuale dell’io, considerato nella sua specificità e singolarità esistenziale.

Per questo in numerosi casi un’attività sanamente razionale, l’esercizio della filosofia speculativa, l’attitudine e l’abitudine al rigore del pensiero o una riequilibrante pratica psicoterapeutica sono da considerarsi prassi necessarie e premesse ineludibili alla via meditativa.

L’esercizio del pensiero critico tendente alla pura oggettività, alla conoscenza impersonale del Mondo (al di là di fuorvianti condizionamenti emotivi) deve essere considerato una vera e propria pratica ‘ascetica’(ascesi in greco significa appunto ‘esercizio’, ‘rigore’, ‘disciplina’). Del resto non si può capire come chi non sia capace di un approccio conoscitivo rigoroso al mondo sensibile sia poi in grado d’ introdursi lucidamente in quello ben più complesso e sfuggente del soprasensibile…

E’ questo il motivo vero per cui colui che s’inoltra nei domini della metafisica senza aver acquisito quell’abito mentale cade inevitabilmente nel visionarismo, tipico di tanta medianità, scambiando le proprie proiezioni inconsce con la percezione di realtà metafisiche autentiche. (A tal proposito si consiglia la lettura del testo di René Guénon: L’errore dello Spiritismo).

 

Altrettanto importante è la conoscenza culturale delle manifestazioni spirituali dell’umanità nei più diversi contesti storici e geografici capace di svincolarci da condizionamenti, anche inconsci, determinati dalla nostra specifica formazione educativa.

Conoscenza, razionalità e cultura sono le basi di ogni Sapere autentico e della vera Saggezza. Va però precisato che la Cultura di per sé non sarebbe necessaria (soprattutto nella forma di pura erudizione) ma lo è di fatto in Occidente giacché i processi educativi – soprattutto quelli religiosi- creano nelle persone una struttura psichica che si può rimuovere solo con una controcultura radicale , cioè con un processo di decondizionamento culturale.

 

Ciò va detto con particolare enfasi in un contesto quale quello cristiano in cui da sempre è valsa l’idea che a nulla serva la ragione, la conoscenza ‘di questo mondo’ ed il suo sapere, considerato il fatto che la salvezza è accessibile (vero paradosso!) più agli ultimi, agli ignoranti agli indotti, ai ‘semplici’ che ai ‘sapienti…

Verrebbe da dire che in tal caso “la lingua batte dove il dente duole”…  tale atteggiamento rozzamente ed insensatamente presuntuoso ( ma utile per attirare le masse…) nasconde solo il fatto che si è consapevoli ( ma non lo si vuole ammettere a se stessi) che il sapere vero non è alla portata di tutti e che implica sacrificio, conoscenze e capacità oltre che ‘pure’ intenzioni!

La Religione può essere di massa, la Conoscenza no.

Anche nel campo ‘esoterico’ pertanto si riscontra spesso il ‘fideismo’ di fondo del contesto culturale cristiano occidentale, nella forma del ‘pregiudizio irrazionalistico’. (Nel merito si veda in particolare l’opera di J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Ed. Mediterranee, Roma).

La via della meditazione, sia chiaro, è la via del sovrarazionale e non del subrazionale.

La via della meditazione è la via di chi è conscio della Ineffabilità del Mistero della Vita e che, consapevole dei limiti dell’intelletto, non nega la ragione per porsi al di sotto di essa cadendo così nell’oscurantismo.

La via della meditazione si appella alla libertà di ricerca interiore e quindi non ha niente a che vedere con quella delle religioni esclusivistiche, dogmatiche, devozionaliste che, non a caso, hanno sempre generato storicamente i mostri del fanatismo e dell’intolleranza.

Il suo motto è “cercare con umiltà”, sapendo di non sapere, sempre consci dei limiti della condizione umana.

 

Per tutti i motivi sopra espressi, prima di meditare bisogna appunto ’integrare’ e ‘rinsaldare’ l’io considerando tale opera non come antagonista al suo trascendimento ma come la condizione necessaria a che ciò  possa avvenire.

 

Proprio per le considerazioni che abbiamo appena espresso è perfettamente comprensibile la difficoltà che molti provano nel momento in cui si immobilizzano per meditare secondo la prassi antica e specificamente orientale.

Quando ci si stabilizza fisicamente per immergersi nell’interiorità e cercare così la ‘pace interiore’ accade speso che si trovi tutt’altro che la pace.

I contenuti interiori più dolorosi (legati alla memoria delle nostre esperienze passate e alla immaginazione di eventi futuri) emergono proprio in quella condizione e vengono percepiti in tutta la loro nettezza e forza proprio perché non più sopiti dalle comuni e ‘distraenti’ attività esteriori.

Non è la meditazione che ‘causa’ quei turbamenti, la meditazione è solo l’occasione per essi di emergere ma anche per noi la possibilità di ‘dissolverli’ o ‘integrarli’.

Ci si trova infatti nella condizione di una ‘rievocazione’ spontanea dei contenuti  consci e/o inconsci, ci si trova cioè in una condizione ‘psicoterapeutica’ senza però l’assistenza di uno psicoterapeuta.

 

L’impatto sulla coscienza è spesso troppo forte e per questo si fugge dalla meditazione, motivo per cui non si può consigliare a tutti ab initio – indifferentemente – la pratica meditativa.

Per iniziare a meditare è così necessario avere un ‘io’ già ‘normalmente’ integrato, cioè avere propriamente un ‘io’.

Se, com’è, la meditazione è un’attività d’intenzionale trascendenza dell’io è evidente che non si può trascendere ciò che non si è, ciò che non si ha…

Un io non nevrotico, cioè sufficientemente saldo, è la condizione-base da cui solo si può procedere verso la meditazione, quella, s’intende, tradizionale, cioè ‘tranquilla’ e non quella ‘dinamica’ di Osho, nata proprio per le considerazioni che adesso stiamo svolgendo).

 

Nella condizione nevrotica l’io è ancora vincolato (con dei rapporti di attrazione e/o repulsione) ‘ai’ e ‘dai’ contenuti inconsci, non sa prendere da loro le distanze, cioè trascenderli.

L’io s’identifica con quei contenuti, ne dipende, ne è vincolato, l’io, si può dire, è quei contenuti, anche se la sua natura profonda li trascende.

E’ un io che, immedesimandosi di norma con la vita istintuale, si muove con il fluire delle passioni di cui è vittima e strumento: un io, ad esempio, che ‘vive’ la rabbia diventa tutt’uno con essa; è un io in cui il pensiero, il distacco critico, la capacità di autocontrollo sono del tutto assenti ed è capace d’agire d’impulso e sconsideratamente..

La ‘passione’ è una forza che gli si impone ‘dall’esterno’ e rispetto alla quale è, appunto, ‘passivo’, di cui è ‘succube’ (per questo gli antichi indicavano tali ‘forze’ come ‘demoni’ cioè come forze ‘estranee’che s’insinuano nell’animo per dominarlo). Nel tardo latino il termine succuba(m) (da sub= sotto e cubare= giacere) indicava la ‘concubina’, cioè colei che ‘giace sotto’ nell’atto sessuale. Nel medioevo il termine finì per indicare indicare quel demone che, prendendo l’aspetto di donna, con la invincibile forza del suo magico potere d’attrazione, costringeva gli uomini ad  accoppiarsi peccaminosamente con lei durante la notte: per questo il termine ha finito per significare nell’uso corrente la persona che soggiace alla violenza e alla  volontà altrui.

Del resto il termine ‘passione’(che deriva dal verbo latino pati che significa ‘patire’, ‘sopportare’, ‘subire’) indica  sia un grave patimento fisico e/o psichico cui non riusciamo a sottrarci che un sentimento capace di dominare l’intera personalità.

Il termine ‘incubus’ indicava, nella stessa direzione, un ente malvagio che, secondo un’antica tradizione romana, di notte c’induce un senso di soffocamento e di angoscia ‘giacendo sopra’ (in-cubare) il nostro corpo. Con il che si voleva palesemente dire che neanche di notte il nostro io è svincolato da una condizione di penosa soggezione rispetto ai suoi contenuti interiori profondi che occupano ‘con la loro forza’ lo spazio della sua coscienza, al di là del suo stesso volere.

 

Di giorno o di notte pensieri ed emozioni s’impongono a noi con una loro ‘energia sottile’ da cui è difficile emanciparsi.

 

L’io, pertanto, sente più o meno chiaramente il bisogno di recuperare la sua libertà e  la sua felicità ma per giungere a ciò deve riattingere alla sua essenza trascendente.

La psicoterapia e la meditazione volgono quindi nella stessa direzione della creazione di una condizione di libertà dell’io.

L’io ‘normale’ è un io che in qualche misura ha ‘integrato’ il suo inconscio e sa usarne positivamente le forze; sa evitare gli estremi: non è né privo di controllo (per una incontenibile passionalità ed istintività) né succube della ‘razionale’ necessità di controllo (pertanto vincolato  da uno status psicologico di inibizione).

L’io ‘normale’ha conquistato quindi un proprio grado di libertà e di autonomia.

Nell’io normale la coscienza s’identifica non più solamente con le pulsioni istintuali ed inconsce ma anche con il pensiero lucido, logico-discorsivo, cioè con quella ‘modalità’ della coscienza che già di per sé rappresenta un grado di trascendenza rispetto ai bisogni puramente somatici.

Un pensiero vincolato dalla passionalità (che si può manifestare nella forma di interesse personale, pregiudizio, odio, fanatismo, rancore,  etc.) non può essere un pensiero lucido ed oggettivo, cioè il ‘prodotto’ di un autentico e ‘puro’pensare.

L’io ‘normale’ è così tale proprio perché passato sostanzialmente dal piano pre-logico a quello logico superando un primo gradino nel processo di trascendenza.

 

Ma il percorso evolutivo della coscienza non termina qui, come pretende la tradizione della moderna filosofia ‘occidentale’, incapace di andare oltre il piano della razionalità scientifica positivista.

Oltre il piano logico ( la diànoia della dottrina platonica) c’è quello intuitivo-metafisico (la nòesis), cioè quello trans-logico, transpersonale.

 

E’ quest’ultimo il piano a cui tende la meditazione, quello della integrale autorealizzazione proprio perché per trascendere la condizione umana bisogna trascendere la mente.

 

 

L’io si sana e si evolve quando non è più dominato dai processi del corpo, della vita e della mente, non si ‘identifica’ più con essi ma ne diventa consapevole e saggio ‘Signore’.

A questo punto sa e ‘sente’di non appartenere unicamente a ‘questo mondo’, vive in un’altra ‘dimensione’ e capisce finalmente il perché della sua ‘costituzionale’ ‘nostalgia’ dell’Assoluto.

 

Sii più consapevole della tua mente – ammonisce Osho - e imparando a essere più consapevole della tua mente, diventerai consapevole del fatto che tu non sei la mente: quello è l’inizio della rivoluzione. Hai iniziato a fluire sempre più in alto…Quindi non si tratta né di analizzare né di sintetizzare. Si tratta solo di diventare consapevoli: ecco perché in Oriente non abbiamo mai sviluppato alcuna psicoterapia come quella freudiana o junghiana o adleriana – oggi sul mercato se ne trovano un’infinità…in Oriente abbiamo sviluppato un’unica psicoterapia, poiché sappiamo che le psicoterapie non possono guarire. La guarigione si ha quando non sei più attaccato alla mente. Quando ti sconnetti dalla mente, quando ne sei disidentificato, assolutamente slegato, quando ogni vincolo è spezzato; solo allora si ha la guarigione.

La trascendenza è vera terapia e non si tratta più di psicoterapia. Non è un fenomeno limitato solo alla tua psicologia, è molto più di questo. E’ spirituale. Ti guarisce nel centro del tuo essere. La mente è solo la tua circonferenza, non è affatto il tuo centro.”[18]

 

 

 

 


[1] La condizione dell’io ordinario e la sua ‘fisicizzazione’ è ben descritta da Julius Evola nell’opera “Lo yoga della potenza”, Ed. Mediterranee, Roma,1968, pp. 117-120 e 185-191).

 

[2] Yesudian-Haich: “SPORT E YOGA”- Ed. Ubaldini,. p. 15.

 

[3] C. Kerneiz, Yoga per gli occidentali, Ed. Mediterranee, p. 30.

[4] Osho, L’immortalità dell’anima, Mondadori, 2009, p.55.

[5] Osho, L’arte dell’equilibrio, Bompiani, 2004, pp. 180-181.

[6] Osho, L’arte dell’equilibrio, Bompiani, 2004, pp. 107- 110. Cfr. anche le riflessioni dello stesso autore a pp.81-85 di Meditazione dinamica. L’arte dell’estasi interiore, Ed. Mediterranee, Roma, 1979.

 

[7] J. Evola, Lo yoga della potenza, Ed. Mediterranee, Roma, 1968, p. 212.

[8] Osho, Meditazione dinamica, Ed. Mediterranee, Roma, 1979, pp. 235- 239.

[9] Osho, La nuova alchimia, Psiche Editrice, Torino, 1973, pp. 34-35.

[10] A. e L. Lowen, Espansione e integrazione del corpo in Bioenergetica. Manuale di esercizi pratici, Roma 1979, Astrolabio, p. 105.

[11] L’intero articolo della Pruneri è reperibile nel sito  web: www.bioenergetic.it.

 

[12] A. e L. Lowen, op. cit. , p. 31.

[13] A. Avalon: Il mondo come potenza, vol. I, Ed. Mediterranee, Roma 1973, pp. 83-84.

 

[14] Osho, Iniziazione alla meditazione. Il risveglio della consapevolezza. Ed. Mediterranee, Roma, 1999, pp. 96-99.

 

[15] J. Evola, Lo yoga della potenza, op. cit., p. 109.

[16]D. Godman, Sii ciò che sei. Ramana Maharishi ed il suo insegnamento, Ed. Il Punto d’incontro,Vicenza 1988, pp. 22-23.

 

[17] D. Godman, Sii ciò che sei. Ramana Maharishi e il suo insegnamento, op.cit., p. 183.

 

[18] Osho, Iniziazione alla meditazione. Il risveglio della consapevolezza. Ed. Mediterranee, Roma, 1999, p. 100.