Attilio Quattrocchi

 

LA VIA DIRETTA ALLA REALIZZAZIONE SPIRITUALE

- DALL’IO AL SE’ –

 

Per chi studia la tradizione spirituale esoterica in tutte le sue forme storiche dovrebbe risultare evidente che le innumerevoli tecniche attraverso le quali l’uomo ha cercato una diretta esperienza mistico/iniziatica hanno avuto lo stesso unico fine: quello di favorire il distacco della coscienza dal mondo ‘esterno’ ( a cui corrisponde l’io ordinario, quello dello stato di veglia) e di volgerla in uno stato di piena lucidità verso l’interno, cioè verso quella dimensione ‘spirituale’ e sovratemporale  (il ) a cui la coscienza propriamente appartiene.

E’ questo il motivo per cui in tutte le tradizioni esoteriche sia orientali che occidentali, sia antiche che moderne, non solo è presente l’ identico precetto che deve guidare l’adepto all’inizio del suo arduo cammino: ‘Conosci te stesso’ ma anche la convinzione che tale via di autoconoscenza conduce progressivamente alla Conoscenza del Mondo stesso, vale a dire di ciò che è ‘altro da sé’.

Per realizzare tale esperienza interiore ci si è serviti dei metodi più vari: da quello che cura il dominio del corpo, come nello hatha yoga indiano, a quello di una recita di formule, preghiere, mantra atti a focalizzare la mente, a quello della elaborazione di visualizzazioni su cui fissare la propria coscienza, oppure ancora a quello della ritmizzazione  o osservazione del respiro, come nel pranayama o  nell’anapanasati, insomma tutte le tecniche hanno avuto sempre lo stesso compito, quello di ‘concentrare’ la coscienza, di evitarne l’ordinario flusso caotico ed incontrollato così da poterla volgere verso l’interno, verso l’invisibile  ma reale dimensione della consapevolezza.

Se il fine di tutte le pratiche è quello di acquisire la capacità di ‘separare’ la coscienza sia dai contenuti ‘esterni’ (sensazioni) che ‘interni’ (flusso deri pensieri) è evidente che, allorché si realizzi tale condizione non ordinaria, l’io rimanga allora ‘fisso su se stesso’, ‘puro’ (come amavano dire gli antichi), cioè non alterato, non ‘contaminato’ dai suoi contenuti.

La sapienza antica sostiene che proprio in tale condizione l’io può ‘scoprire’ la sua vera essenza metafisica, il Sé.

Questo è il motivo per cui si può affermare che il saggio indiano Patanjali nei suoi Aforismi ha sintetizzato con insuperabile efficacia il metodo dello ‘yoga’ definendolo come l’arte della ‘interruzione del flusso dei pensieri’ con ciò indicando sia l’essenza della tecnica che il fine (‘yoga’ significa ‘Unione’ con il Sé o con Dio) che essa si propone.

Quindi, se esistono numerose e varie tecniche per favorire tale condizione della coscienza, è altrettanto evidente che esiste però un unico metodo ‘diretto’ per la sua realizzazione ed è quello appunto, di ‘fissare’, di ‘concentrare’, senza procedure di mediazione, l’io su se stesso.

Tale via ‘diretta’, a nostro avviso, è stata insegnata da maestri sia della tradizione esoterica occidentale che orientale, sia dell’antichità che dei nostri giorni anche in modo del tutto indipendente da una loro reciproca conoscenza.

E tale ‘consonanza’ non deve certo stupire (anzi, ci si dovrebbe meravigliare del contrario) visto che si sta parlando della struttura ontologica sia della coscienza umana che della realtà che non variano nella loro essenza col procedere del tempo.

Questa omogeneità transculturale, anzi, è forse la prova più effiace per dimostrare l’esistenza di una philosophia perennis, cioè di una ancestrale ed eterna saggezza che si pone per sua natura al di sopra delle appartenenze e degli esclusivismi confessionali così come degli schematismi dottrinali filosofici.

Nella ‘via diretta’ la ricerca spirituale deve partire dall’io e non dal concetto di Dio. Infatti l’io, per l’uomo, è la sola certezza auto evidente mentre Dio una mera ipotesi.

Il paradosso (a ben considerare, però, solo apparente) è però che proprio cercando la vera natura dell’io si scopre, secondo la tradizione, la sua radice infinita, cioè Dio; un Dio, naturalmente, ben diverso da quella delle contraddittorie ed antropomorfiche religioni storiche.

Per dare dimostrazione di quanto asserito è sufficiente ai nostri fini contingenti riportare taluni brani concernenti gli insegnamenti di Maestri appartenenti a contesti storici e culturali ben diversi: Platone e Plotino per occidente antico, Ramana Maharishi e Nisragadatta Maharaji per l’India contemporanea.

PLATONE

Platone

Il ‘divino’ Platone (l’unico ‘filosofo’ qualificato come tale nell’antichità classica), vissuto tra il 438 ed il 347 a: C., riprese le sue ‘dottrine’ metafisiche fondamentali dalla tradizione esoterica dei culti misterici e si propose di indicare un percorso ‘iniziatico’ di conoscenza metafisica che non ricorresse a riti ed atti cultuali quanto piuttosto ad una prassi tutta interiore.

Esso comportava l’isolamento della coscienza dal mondo ‘esterno’ ed il conseguente  suo orientamento verso l’interno sino a rimanere in una condizione di pura ‘presenza a se stessi’.

Tale consapevolezza priva di contenuti, secondo Platone, è capace di tradursi spontaneamente in ‘contemplazione’ (theoria) cioè nella percezione di quel mondo ‘divino’ da cui l’anima proviene.

Per Platone oltre il mondo fisico esiste, infatti, un mondo di forze sottili, le ‘idee’, capaci di plasmarlo. Le ‘idee’, quindi, non sono solo ‘concetti’ astratti della nostra ‘mente’, ma forze reali operanti anche sul piano ‘materiale’.Tali ‘essenze’ non sono percepibili con i sensi ma solo attraverso l’attività della coscienza, capace, per la sua stessa ‘natura’, d’innalzarsi dal mondo ‘sensibile’ a quello ‘intellegibile’.

Il ‘mondo delle ‘idee’ ( a cui appartiene ontologicamente l’’idea’ dell’uomo, cioè la sua ‘anima’) è strutturalemente gerarchico e per questo l’uomo sente il bisogno di passare dalla conoscenza dei singoli enti finiti a quella somma ed universale dell’Uno/Bene/Dio, l’Idea che tutto include.

L’uomo, così, aspira, più o meno consapevolmente, alle supreme essenze: il ‘Bello in sé’, il ‘Giusto’ in sé, il ‘Buono’ in sé ecc. che sole danno il vero Sapere.

Per questo il filosofo deve sforzarsi di fare uso della sua coscienza/ragione nella sua ‘purezza’ liberandola dalle contaminazioni dei sensi, ‘volgendola su se stessa’, ‘concentrandola’, ‘unificandola’, coltivando la facoltà intuitiva del ‘puro’ spirito.

Per Platone, infatti, come per Socrate, chi vuole conoscere se stesso deve conoscere e ‘aver cura’ della propria ‘essenza’ , cioè dell’anima ed in particolare quella parte di essa che per sua natura è più eminente, la ragione; ma proprio cercando il fondamento ontologico della ragione si è sospinti ad andare oltre di essa.

La conoscenza di sé coincide con la saggezza sia teorica che pratica ed inoltre anche se l’anima ha una natura ‘divina’, una naturale affinità (sunghenneia) col Dio, l’assimilazione (omoiosis) a Lui rimane un compito che esige un’ascesi.

In un passo del dialogo intitolato Fedone (79 d) è molto chiara la natura di quel processo attraverso cui l’anima s’innalza al divino, al sovrasensibile:

Quando l’anima, restando in sé sola  (separandosi dunque dalle percerzioni), volge la sua ricerca (cioè alimenta la sua ‘aspirazione’ conoscitiva senza più legarla al sensibile) allora si eleva (per un suo autonomo, spontaneo ed ‘ontologico’ processo di liberazione) a ciò che è puro, eterno ed immortale(cioè al ‘divino’) e avendo natura affine a quello (c’è dunque una identità sostanziale tra lo spirito umano e quello di Dio), rimane sempre con quello ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola…e questo stato dell’anima si chiama ‘sapienza’ (frόnesis, sinonimo di sofίa)”.

Sempre nel Fedone (67 c-d) si dice che con tale prassi si opera una ‘catarsi’ che è “la stessa dell’antica dottrina (chiaro riferimento alla sapienza sacra dell’Ellade prefilosofica ma in particolare a quella misterica e orfico-pitagorica) e consiste appunto nel separare il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla (e ciò presuppone una costante prassi meditativa) a raccogliersi e a restare sola in se stessa (la ‘con-centrazione’ !) e a rimanere per il tempo presente (nella vita ‘terrena) e futuro (dopo la morte) sola in se medesima, sciolta dal corpo come da catene.

La sofίa è dunque l’intuizione mistica del divino ed a tale esperienza è naturalmente funzionale la filo-sofίa.

L’attività della riflessione (propriamente la filo-sofia) è ‘umana’, l’attività della contemplazione è ‘divina’ e deve approdare al suo esito naturale, la sofia.

Per acquisire la sofίa bisogna che la coscienza raggiunga una condizione ‘estatica’ (il termine ‘estasi’ significa in greco ‘uscita’) che cioè sappia ‘separarsi’ radicalmente dal piano sensibile e dunque da quel corpo a cui si è congiunta col suo nascer in questo mondo.

Per questo il filosofo ateniese considera la vita ‘morale’ come il primo ‘grado’ di tale separazione in quanto comporta un effettivo distacco dalle pulsioni e dagli istinti del corpo/materia.

Con tale prassi ascetica l’anima può ‘conoscere se stessa’ e provare quella ‘divina ebbrezza’ che la tradizione misterica indicava come ‘manìa’, ‘entusiasmo’ conseguendo quella conoscenza illuminativa che la stessa tradizione indicava con il termine ‘epopteia’.

E’ quindi perfettamente comprensibile come Platone, quando descrive quelle condizioni dello spirito e quei livelli di conoscenza usi sempre la terminologia del sacro tipica delle esoterismo, cioè della tradizione misterica, già ben definita nell’età arcaica dell’Ellade.

Esiste un percorso ‘naturale’ della coscienza che inizia dalla ‘dialettica’ (dunque dalla filosofia come ricerca intellettuale del Vero) e perviene in conclusione alla theoria contemplativa (dunque all’esperienza mistica).

La contemplazione ‘implica’ una diretta percezione del mondo metafisico basata sull’arresto del pensiero cioè di tutta l’attività percettiva, concettuale ed immaginativa su cui ‘poggia’ l’io ordinario.

L’anima, svincolata dal corpo, recupera la sua facoltà di ‘intuizione intellettuale pura’(che Platone e gli esponenti della sua Accademia indicheranno con il termine ‘noesis’) superando la mera discorsività logica (dianoia).

A tale condizione pervenne lo stesso Maestro di Platone, cioè Socrate, il quale era capace, secondo le fonti, di immobilizzarsi in tale attività tutta interiore per intere giornate.

Per l’Uomo tale consapevolezza ‘pura’, ‘separata’ non può essere altro che la pura Autocoscienza, le cui ‘radici’ sono nella Trascendenza.

PLOTINO

Plotino

Seguace di Platone fu Plotino (205-270 d.C.); anch’egli insegnò il medesimo metodo ‘diretto’ di realizzazione spirituale, consistente, come s’è detto, nel porre come ‘oggetto’ di concentrazione l’io stesso rendendo indipendente l’io ordinario dai suoi contenuti per consentirgli così di ‘trasfondersi’ spontaneamente nel Sé.

Tale è la cosiddetta ‘terza via’ alla Conoscenza dell’Uno/Dio descritta dal filosofo di origini egiziane.

Nella sua opera, le Enneadi, egli in effetti illustrò le tre vie che possono consentire all’individuo di pervenire all’esperienza dell’Assoluto.

La prima è quella del Bello con la quale dal piano fisico si può gradualmente ascendere a quello metafisico del Bello in sé (come già Platone aveva insegnato nel Fedro e nel Simposio).

La seconda è quella del Bene, con la quale, attraverso la Virtù ci si distacca progressivamente dal piano materiale/corporeo sino a cogliere il Bene in sé.

Infine la terza via, quella del Vero, è quella in cui l’io si rende indipendente dai suoi ‘contenuti’ mutandosi nel Sé, cioè ‘riconoscendosi’ nella sua vera dimensione spirituale e sovratemporale.

La pratica corrispondente a tale terza via è stata descritta in diversi passi delle Enneadi, noi considereremo solo pochi brani ma tra i più significativi.

Plotino ispirandosi all’antica sapienza apollinea di Delfi che si esprimeva nel motto: ‘Conosci te stesso’ e al Protagora di Platone (343 B), indicò così l’inizio della prassi dell’introspezione mistica:

Iniziando questa ricerca noi obbediamo al precetto del dio che ci comanda di conoscere noi stessi. Se vogliamo cercare e trovare ogni altra cosa, è giusto che ricerchiamo chi è colui che ricerca: desiderando così di cogliere l’amorosa visione delle cose supreme”(Enneadi, IV, 3, 1, 1).

Il termine ultimo della ricerca dialettica fintanto che rimane nell’ambito proprio non può essere altro che il concetto, dunque la ‘rappresentazione’ della Realtà come onnicomprensiva ‘Unità’ ma giunta a tale meta non può più procedere oltre e per questo si acquieta nella constatazione del Mistero.

L’anima, a tal punto, se cerca ancora la Verità, cioè l’Uno, capisce che deve farne diretta esperienza e la cerca senza concetti, facendo tacere ormai la mente ma mantenendo sempre attiva la sua ‘sete’ di conoscenza e di felicità.

Così avviene il passaggio per il quale la dialettica si tramuta, si ‘sublima’ in contemplazione in theoria, parola che, lo si ricordi, significa letteralmente ‘visione di Dio’.

In tale condizione non si pensa più, semplicemente si è.

Plotino, con uno straordinario parallelismo con la tradizione indiana, indica appunto nel ‘vuoto mentale’ la condizione per la scoperta della nostra vera natura.

Così infatti egli dice in un passo di cui sino ad ora non sembra sia stata compresa l’importanza da parte degli studiosi:

L’anima deve divenire priva d’idee (aneidon tèn psychèn ghinesthai) se desidera che nulla intervenga a ostacolare la realizzazione della sua perfezione (letteralmente: la sua pienezza, plerosin) e l’ illuminazione (ellampsin) in lei da parte della Natura essenziale (letteralmente: della Natura prima). Se è così essa deve staccarsi da tutte le cose esteriori, rivolgersi completamente (pante) alla sua interiorità (epistraphenai pros to eiso: letteralmente ‘volgersi verso il di dentro’), non più piegarsi verso qualcosa di esterno ma dimenticando tutte le cose (agnoesanta ta panta), dapprima con un opportuna stabilizzazione (del corpo) (pro tou men diathesei) poi anche dei pensieri (kai tois eidesin), dimenticando persino se stesso (vale a dire: il suo ego; agnoesanta de kai auton) deve procedere nella contemplazione di Lui (en te thea ekeinou ghenesthai).”[1]

Fondamentale, per comprendere tale brano, è comprendere il senso ‘tecnico’ del termine aneidos con cui il filosofo indica il ‘vuoto mentale’:  esso è composto, infatti, dal prefisso privativo ‘alpha’ (che diventa an davanti a vocale ed ha un valore negativo in quanto indica ‘mancanza’ o ‘assenza’) ed il vocabolo eidos che è sinonimo di idéa.  

Ciò significa che secondo Plotino, esattamente come nella tradizione yoga, l’anima per ‘contemplare’ deve allontanarsi non solo dai suoi contenuti ‘esterni’, cioè le sensazioni, ma anche da quelli interni, cioè dai ‘pensieri’, intendendo  tale termine  nel senso più vasto, valer a dire ‘da tutti i contenuti particolari della coscienza’ che rappresentano nient’altro che un legame (anche se più ‘sottile’) della coscienza con quel mondo empirico da cui hanno origine.

Altro  vocabolo del brano su cui bisogna soffermare l’attenzione più di quello che non si sia fatto sinora è ellampsis. Esso proviene dal verbo ellampo che vuol dire ‘illuminare’, ‘risplendere’.

Plotino quando parla dell’anima dice che essa  ‘dà luce a se stessa’[2] (ellampse pros eauten) e dice inoltre che ‘in quanto illumina è sempre illuminata’ [3](osper ellampousa aei ellampetai).

Dunque chi raggiungere la condizione estatica è definito da Plotino, esattamente come in India, un ‘Illuminato’, un ‘risvegliato’ dal sonno del corpo e sono questi, com’è noto, i significati del termine sanscrito ‘Buddhah’.

Inoltre, a nostro avviso, non è stata ben compreso dai traduttori il termine diathesis con cui Plotino indica ‘yoghicamente’ la necessità di una opportuna stabilizzazione del corpo e non solo una disposizione ‘mentale’.

Il corretto significato del termine (che deriva dal verbo diatithemi che significa ‘disporre ordinatamente’, ‘stabilizzare’) lo si comprende dal fatto che dopo aver utilizzato quel vocabolo egli aggiunge la precisazione ‘anche dei pensieri’.

Dunque la diathesis coinvolge ad un primo livello qualcosa che non ha a che fare direttamente con la condizione psicologica ma ne è la premessa oltre che una condizione predisponente.

In ciò egli dà indicazioni per nulla diverse da quelle della tradizione yoghica in cui le asanas, cioè le varie posture, sono concepite esplicitamente come condizioni corporee stabili atte a favorire la concentrazione mentale.

Certo la conoscenza dell’Uno presenta delle difficoltà specifiche poiché esso non ha forma e non si coglie con un atto di riflessione logica.

Plotino è ben consapevole di ciò e ribadisce sovente che la conoscenza dell’Uno avviene per intuizione sovrarazionale e per identificazione, è cioè una conoscenza ‘unitiva’ capace di superare la barriera ordinaria ed invalicabile sul piano sensibile tra soggetto ed oggetto.

Solo nell’esperienza amorosa l’uomo ordinario ha una esperienza embrionale della possibile ed ‘estatica’ fusione tra due diverse coscienze.

Lo sforzo di conoscere qualcosa di ‘informale’, di ‘indeterminato’ è arduo.

E questo Plotino lo riconosce:

Quanto più l’anima penetra in seno all’informe, spossata nel suo vano tentativo di coglierlo, per la sua indeterminatezza e per il fatto che essa non viene più per così dire ‘impressionata’ da una qualche impronta <di cose sensibili>, ella allora sdrucciola e teme di trovarsi a mani vuote… ma quando l’anima desidera vedere con le sue sole forze <facendo a meno di impulsi sensibili> e, vedendo solamente con il concentrarsi in sé (mόnon orosa tò suneinai), essendo una sola cosa (unificandosi completamente) attraverso l’essere una sola cosa con l’Uno, non ritiene di aver conseguito ‘qualcosa’che sia stato ricercato <e quindi di diverso de sé>…proprio così deve fare colui che  si avvia a filosofare intorno all’Uno…<per questo> dobbiamo risalire al Principio che è immanente in noi (epì tèn eautò archèn anabebekénai) ed ‘unificarci’(én ghenésthai) separandoci dalla molteplicità  <sia degli enti sensibili che delle loro immagini interiori> (ek pollòn), allora potremo contemplare il Principio primo e l’Uno (archès kai enòs theatèn esómenov).”(Enn., VI, 9, 3).

Per Plotino, dunque, coincidono il fare filosofia e l’ascendere all’Uno, ma poiché Questo si trova nel profondo del nostro ‘io’, Esso si scopre nella nostra umana interiorità. La filosofia stessa è una metafisica dell’esperienza interiore e non solo un ‘conoscere’ ma un ‘trasformarsi’.

Tutto ciò è possibile perché il logos umano (la sua ‘ragione’, la sua ‘coscienza’, la sua ‘anima’) in quanto ‘parte’ del Logos divino ne è ‘consustanziale’.

Il filosofo, così, porrà in atto una serie di ‘operazioni interiori’ tendenti a fargli acquisire un nuovo ‘abito’ non solo ‘comportamentale’ ma anche e soprattutto ‘noetico’ che lo condurrà dalla filosofia‘speculativa’ a quella ‘realizzativa’, dalla filosofia ‘razionale’ alla sofia ‘intuitiva’.

Per giungere a tale meta sublime bisogna allenare l’anima, come diceva già Socrate, a ‘raccogliersi in se stessa’.

Quando la stessa attività del pensiero viene ‘azzerata’ si crea quel ‘vuoto mentale’ in cui il Principio Primo manifesta la sua ‘presenza’, la sua parousìa (da parà-eimi = essere presso) nell’anima umana.

Per separarsi dal corpo – egli dice – essa si raccoglie in se stessa (synágousan prόs eautén; da syn  = assieme e ágo = conduco; dunque è una con-centrazione, una uni-ficazione) come se provenisse da luoghi diversi, del tutto priva di turbamenti (pánthos apathòs), considerando i piaceri necessari come delle semplici sensazioni… E’ chiaro che non c’è in lei nessun desiderio di cose turpi; desidera il mangiare ed il bere non per sé, ma per soddisfare i bisogni del corpo, né ricerca i piaceri d’amore, o, soltanto, io credo, quelli naturali che non sono espressione di un cieco impulso, e se lo fa, lo fa con una fantasia già dominata” (Enn., I, 2, 5).

RAMANA MAHARISHI

Ramana Maharshi

Ramana Maharshi, vissuto in India tra il 1879 ed il 1950, è unanimemente considerato uno dei più importanti e significativi maestri spirituali contemporanei.

Il metodo realizzativo che ha insegnato per l’intera vita venne da lui stesso indicato come atma-vichara cioè come ‘ricerca del Sé’.

Esso consiste nel rivolgere la coscienza entro se stessa per andare alla ricerca della sua sorgente passando così dal falso ‘io’ (che corrisponde alla ‘personalità storica’ transeunte) al vero ‘Io’, al Sé eterno, parte della Coscienza Cosmica.

Tale metodo si può considerare come la ‘quintessenza’ della tradizione mistico-iniziatica indiana e anche teoreticamente come la via realizzativa più diretta in assoluto poiché pone come oggetto di concentrazione non un suono, un’immagine, un simbolo, una funzione organica, ma direttamente il proprio ‘senso dell’io’.

Tale prassi ha un fondamento metafisico poiché nella tradizione esoterica indiana (come in quella greca), l’anima dell’uomo (atman) nella sua essenza è ritenuta identica, ‘consustanziale’ a quella ‘divina’ (Brahman).

In effetti l’India, nel corso di migliaia di anni, ha elaborato numerosissime tecniche di autorealizzazione spirituale che, pur nella loro estrema varietà hanno avuto un medesimo fine, quello di arrestare il flusso caotico della mente per poter giungere alla occulta sorgente metafisica della coscienza.

Per questo motivo lo yoga (storicamente la più famosa ed importante di queste tecniche) è stato definito da Patanjali in estrema ed efficace sintesi come ‘interruzione del flusso mentale’.

A ben considerare Patanjali ha genialmente riassunto tutto il senso della pratica nei primissimi aforismi (sutra) del primo libro della sua opera che così recitano:

“1.2 Lo yoga è la sospensione (nirodha, arresto, sospensione, cessazione, integrazione,stabilità) delle modificazioni (vrtti, disperso, fluttuante, instabile, mulinello) della mente (citta, i sensi, le emozioni, il pensiero).

1.3 Quando ciò si è realizzato la coscienza (drastr, il testimone, il centro) riposa nella sua natura essenziale (svarupa, la propria forma, natura).

 

1.4 Altrimenti (la coscienza) si identifica (è confusa) con le modificazioni della mente (cittavrtti).”

La tradizione mistica sia orientale che occidentale è sostanzialmente accomunata dalla convinzione che solo una mente capace di allontanarsi dal suo passivo cedere al flusso delle sensazioni e dei pensieri concentrandosi attivamente sino al punto di tramutarsi in una pura consapevolezza senza ‘contenuti’, può penetrare profondamente nella struttura della Realtà cogliendone la dimensione transfisica.

Per questo ogni tecnica ‘iniziatica’ implica un allenamento alla ‘concentrazione’, alla ‘unificazione’ dello spirito il quale abitualmente si disperde nel movimento caotico dei contenuti sensoriali e psichici.

Naturalmente per l’uomo l’oggetto primo ed essenziale della Conoscenza non può essere altro che se stesso poiché per conoscere il Mondo, cioè la realtà ‘esterna’, l’oggetto, è necessario conoscere preliminarmente il  Conoscitore, la ‘realtà interna’, il soggetto.

La prima domanda da porsi non è quindi: ‘Come è fatto il mondo?’ ma piuttosto: ‘Chi è colui che si pone la domanda di come è fatto il Mondo?’

A rigore di logica, il cammino della conoscenza per procedere da un sicuro fondamento, non può partire dal di fuori della coscienza, vale a dire dal Mondo percepito tramite i sensi, né tantomeno dal concetto di un Dio che si pone al di là dei dati immediati della coscienza stessa.

L’esistenza di in mondo esterno e di Dio potrebbero essere oggetto di dubbio: in fin dei conti quando sogniamo vediamo una realtà che in quel momento ci appare come indubitabilmente esistente, quanto a Dio: esso per definizione si pone al di là della percezione ‘ordinaria’ degli esseri umani.

Dunque l’unica certezza per l’essere umano (e quindi la base, l’inizio di ogni cammino conoscitivo) è la sua stessa coscienza che dubitando della sua stessa esistenza non farebbe altro che riaffermarla.

L’uomo cioè potrebbe dubitare della validità dei contenuti della sua coscienza, ma non della sua personale coscienza di essi.

La coscienza non è un concetto elaborato dal pensiero ma un’ autoevidenza intuitiva: io sono ‘qualcosa’ che è consapevole.

All’interno e a fondamento della ‘consapevolezza’ del mondo esterno c’è, quindi, l’’auto-consapevolezza’, cioè la coscienza di se stessi come ‘enti’ dotati di tale capacità.

La ‘riflessione’ di cui è capace l’uomo gli consente non solo di ‘conoscere’ ciò che è altro da sé ma anche di ‘sapere di conoscere’ e di assumere come oggetto di conoscenza se stesso.

La capacità di riflessione dunque implica la possibilità di ripiegare (dunque, appunto, letteralmente di ‘riportare indietro’) la coscienza su se stessa.

E’ facile la metafora di una luce che, trovando una superficie riflettente, ritorna alla sua sorgente.

C’è quindi una distinzione da fare tra ‘consapevolezza’ e ‘pensiero’; la consapevolezza è alla base del pensiero ma non è il pensiero.

Io, infatti, posso essere consapevole dei pensieri e, in qualche misura, posso persino modificarli.

Il pensiero, nella tradizione metafisica indiana (il manas) è il riflesso sul piano ‘materiale’ della consapevolezza ed in quanto riflesso appartiene ad un piano inferiore ma nel contempo rimane sempre collegato a quello superiore della consapevolezza.

Separare il senso dell’io dalla mente e dai suoi processi consente alla consapevolezza di espandersi.

Per questo il processo evolutivo metafisico non è propriamente definibile come un ordinario processo di conoscenza perché questo implica un Conoscitore, un Conosciuto ed un atto del conoscere.

Ma quando l’io si volge su se stesso conoscitore, conosciuto ed atto del conoscere sono tutt’uno, quindi ci si ‘conosce’ (per così dire) solo con un atto dello spirito che non è logico-discorsivo ma consiste nel puro ‘essere’, in una pura ‘presenza a se stessi’ priva di pensieri, in una ‘contemplazione’.

Conoscere se stesso equivale, quindi, non a ‘pensare’ a se stesso ma all’’essere’ se stesso.

Per questo il motto più significativo di Ramana è: ‘Sii te stesso’.

Egli afferma:

Se parliamo (erroneamente) di ‘conoscere’ il Sé, ci devono essere [vale a dire: dobbiamo ammettere che esistano]  due sé, un sé che conosce, un’ altro sé che è conosciuto e il processo del conoscere. Lo stato che chiamiamo realizzazione è semplicemente essere se stessi, non ‘conoscere’ o ‘diventare’ qualcosa. Se ci si è realizzati, si è solo ciò che si è sempre stati. Non si può descrivere quello stato. Si può solo esserlo. Naturalmente, parliamo in modo inesatto della ‘realizzazione del Sé’, in mancanza di un termine migliore. Come ‘realizzare’ o rendere reale quello che soltanto è reale?[4]

Lo studioso David Godman ha così sintetizzato efficacemente le indicazioni di Ramana relative alla pratica dell’atma vichara:

“Ai principianti dell’autoindagine veniva consigliato di porre l’attenzione sul sentimento interiore di ‘io’ e di trattenere quel sentimento il più a lungo possibile: Veniva detto loro che se l’attenzione veniva distratta da altri pensieri dovevano tornare alla consapevolezza del pensiero ‘io’ ogni volta che diventavano consapevoli che la loro attenzione aveva divagato.

Egli suggerì inoltre diversi metodi per favorire questo processo – ci si poteva chiedere: ‘Chi sono io?’, oppure: ‘Da dove viene questo io? – ma lo scopo ultimo era di essere continuamente consapevoli dell’’io’ che presume di essere responsabile di tutte le attività del corpo e della mente.

Nei primi stadi della pratica, l’attenzione al sentimento ‘io’ è un’attività mentale che prende la forma di un pensiero o una percezione. Man mano che la pratica si sviluppa, il pensiero ‘io’ lascia spazio a un sentimento dell’’io’ sperimentato soggettivamente e quando questo sentimento cessa di collegarsi e identificarsi con i pensieri e gli oggetti, svanisce completamente. Ciò che rimane è un’esperienza di essere in cui il sentimento dell’individualità ha temporaneamente cessato di funzionare… Negli stadi iniziali lo sforzo nel trasferire l’attenzione dai pensieri al pensatore è essenziale, ma una volta che la consapevolezza del sentimento dell’’io’ è stata fermamente stabilita, ulteriore sforzo è controproducente. Da allora è più un processo di essere che di fare, di essere senza sforzo piuttosto che uno sforzo per essere… Alla fine il Sé non viene scoperto come risultato del fare qualcosa, ma soltanto essendo.

Come Sri Ramana stesso una volta osservò:

Non meditare – sii!

Non pensare di esseresii!”

Non pensare all’essere – sii!”[5]

Ad un principiante che chiedeva come partendo dalla mente si potesse – paradossalmente -  andare oltre di essa il saggio di Arunachala disse:

La mente si calmerà soltanto per mezzo dell’indagine ‘Chi sono io?’. Il pensiero ‘Chi sono io?’ distruggendo tutti gli altri pensieri, verrà esso stesso distrutto, come il bastone usato per attizzare la pira funeraria. Se sorgono altri pensieri, senza tentare di completarli, uno dovrebbe indagare: ‘A chi sono venuti?’. Cosa importa se vengono dei pensieri, per quanti essi siano? Nel momento in cui sorge ogni pensiero, se si indaga con vigilanza: ‘A chi è venuto?’, si verrà a conoscere: ‘A me’. Se allora si indaga: ‘Chi sono io?’, la mente tornerà alla sua sorgente ( il Sé) e il pensiero che era sorto cesserà. Praticando in questo modo ripetutamente, il potere della mente di dimorare sulla sua sorgente aumenta”.[6]

In un’altra circostanza Ramana ha affermato:

La mente rivolta all’interno è il Sé, rivolta all’esterno diventa l’ego… Il cotone intessuto in vari panni lo chiamiamo con vari nomi. L’oro forgiato in vari ornamenti lo chiamiamo con vari nomi. Ma tutti i panni o vestiti sono cotone e tutti gli ornamenti oro. L’Uno è reale, i molti sono semplici nomi e forme. La mente non esiste separata da Sé; cioè essa non ha esistenza indipendente. Il Sé esiste senza la mente, la mente mai senza il Sé.[7]

La tradizione esoterica indiana e quella greca, dunque, sono d’accordo sulla essenzialità di tale prassi d’introversione.

Tutte le tecniche ‘mistiche’, nelle loro infinite varianti, sono volte a questo fine.

La ‘concentrazione’ su qualcosa è solo un ‘pretesto’ per creare uno stato di coscienza diverso ed una prima forma di ‘liberazione’ attraverso l’arresto del flusso dei pensieri, la meta vera è però la ‘meditazione’, la quale consiste nel rimanere stabili in una condizione di consapevolezza senza pensieri.

Per tale motivo quelle civiltà hanno elaborato nel corso dei secoli ed indipendentemente l’una dall’altra una medesima dottrina secondo la quale solo l’io che rientra in se stesso, che si ‘unifica’, che realizza così, poco a poco, la sua autonomia dalle ‘cose’ e dal suo stesso ‘corpo’, può conoscere la sua vera natura, accedere al mondo ‘divino’ e comprendere conseguentemente la vera natura del mondo.

Tu sei consapevolezza – afferma Ramana – Consapevolezza è un altro tuo nome. Poiché tu sei consapevolezza, non è necessario conseguirla o coltivarla. Tutto ciò che devi fare è rinunciare all’essere consapevole di altre cose, cioè del non-Sé. Se si rinuncia a essere consapevoli di esse, allora rimane soltanto la pura consapevolezza, e quella è il Sé”.[8]

Naturalmente, per il saggio indiano, la consapevolezza è ‘pura’ quando non è contaminata dal ‘mondo materiale’ e rimane ‘da sola’, ‘separata’, ‘libera’ da ciò che le è estraneo, quieta in se stessa.

Al maharishi venne anche chiesto quale fosse la differenza tra la comune pratica meditativa (dhyana) e il suo metodo dell’autoricerca (atma vichara) ed egli rispose così:

La meditazione richiede un oggetto su cui meditare, laddove in ‘vichara’ c’è soltanto il soggetto senza l’oggetto. La meditazione differisce dall’autoindagine in questo modo. Dhyana è concentrazione su un oggetto. Realizza lo scopo di tenere lontani diversi pensieri e di fissare la mente su un solo pensiero, il quale deve anch’esso scomparire prima della realizzazione. Ma la realizzazione non è nulla di nuovo da acquisire. E’ già là, ma ostruita da uno schermo di pensieri. Tutti i nostri tentativi sono diretti a sollevare questo schermo e quindi la realizzazione si rivela. Se ai cercatori viene consigliato di meditare, molti potrebbero andarsene soddisfatti di questo consiglio. Ma qualcuno tra loro potrebbe volgersi a chiedere: ‘Chi sono io che medito su un oggetto?’. A uno così bisogna dire di scoprire il Sé. Quella è la finalità. Quella è vichara.”[9]

 

 

NISARGADATTA MAHARAJI

 Nisargadatta Maharaji

La via diretta alla realizzazione del Sé è stata insegnata anche da un altro maestro spirituale indiano vissuto tra il 1897 ed il 1981.

Egli, che nella vita ordinaria fu un semplice tabaccaio della periferia di Bombay, dimostrò una profonda sapienza che aveva le sue radici storiche nel sistema filosofico Vedanta ma che egli in realtà maturò personalmente attraverso una intensa e lucida indagine interiore.

I suoi discorsi con i ricercatori spirituali che si recavano a trovarlo sono stati raccolti in vari testi; in uno dei colloqui che vi sono riportati un interlocutore che già praticava la meditazione gli chiese quale fosse la vera natura dell’uomo ed egli sinteticamente rispose:

 

Tu sei l’infinito, concentrato in un corpo. Per ora vedi solo il corpo. Se insisti, arriverai a vedere solo l’infinito”.

 

E all’interlocutore che ulteriormente gli chiedeva quale fosse la disciplina più adatta per giungere a tale Conoscenza  precisò:

Concéntrati unicamente sull’”io sono”. Così, quando la mente diventa completamente silenziosa, si fa fulgida e vibra di nuova conoscenza. Tutto avviene da sé, devi solo aderire all’”io sono”… Il ricordo di sé, la consapevolezza dell’”io sono”, fanno maturare in fretta. Abbandona tutte le idee su di te, semplicemente sii… Smetti di usare la mente, e vedi ciò che capita. Concentrati su quello ininterrottamente. Non c’è altro”.[10]

 

Per Nisargadatta, come per Ramana, tutte le tecniche realizzative hanno l’unico scopo di volgere la coscienza verso l’interno:

Puoi seguire varie strade: ogni volta sarà quella giusta in quel momento; seguila con tutto il cuore, non sprecare tempo in dubbi ed esitazioni. Molti cibi diversi occorrono al bambino per crescere, ma l’atto di mangiare è identico. Teoricamente tutti gli approcci sono buoni. In pratica, la strada su cui cammini in un dato momento non può che essere unica. Presto o tardi scoprirai che, se vuoi davvero trovare, devi scavare in un solo posto: dentro. Né il corpo né la mente possono darti ciò che cerchi, cioè essere e conoscere te stesso e la grande pace che li accompagna”.[11]

 

Poiché la maggior parte dei suoi interlocutori sottolineava il fatto che la mente, per sua natura, è costantemente instabile egli disse:

E come si può stabilizzare una mente instabile? Ovviamente non si può. E’ la natura della mente di vagabondare. Tutto quello che puoi fare è spostare il fuoco della coscienza oltre la mente. Rigetta tutti i tuoi pensieri tranne uno: ‘io sono’. Dapprima la mente si ribellerà, ma con pazienza e tenacia potrà maturare e diventare quieta: Quando sarai quieto, le cose cominceranno ad accadere da sé, naturalmente, senza che tu inteferisca”.[12]

 

Per Nisargadatta, come per Ramana, la più consapevole e ‘razionale’ metodologia di ricerca non può che porre l’inizio nell’autoindagine e poiché taluni suoi interlocutori di orientamento devozionale ritenevano importante iniziarla invece dal concetto di Dio egli precisò:

Dio è solo un’idea della mente, ma il fatto sei tu. L’unica certezza che hai è: ‘io sono qui-ora’. Rimuovi il ‘qui-ora’, e resta l’’io-sono’, inattaccabile. La parola esiste nella memoria, la memoria entra nella coscienza, la coscienza esiste nella consapevolezza, e questa è il riflesso della luce sulle acque dell’esistenza… L’unica cosa che posso affermare con cognizione di causa è: ‘io sono’. Tutto il resto posso solo dedurlo. E la deduzione è diventata un’abitudine. Distruggi tutti i pensieri e i punti di vista che erediti dall’abitudine. L’’io sono’ è la manifestazione di una causa più profonda cui puoi dare molti nomi: l’Essere, Dio, Realtà, eccetera. L’’io sono’ è nel mondo, ma è a sua volta la chiave che ti apre la porta per uscire dal mondo. La luna che danza sull’acqua è causata dalla luna nel cielo, benché sembri stare sull’acqua”.[13]

 

Altrettanto chiaro e coerente fu nel rispondere a chi affermava la necessità di ammettere teoricamente l’esistenza di un Principio universale come causa di tutto l’esistente:

Quello che crea e sostiene il mondo puoi chiamarlo Dio o Provvidenza, ma in ultima analisi la prova che Dio esiste sei tu, e non viceversa. Infatti, prima che si possa porre alcuna domanda su Dio, devi essere tu a porla”.[14]

 

Per Nisargadatta è fondamentale distinguere quindi tra due livelli dello spirito umano, quello della ‘coscienza’ ordinaria (l’ego) con cui si percepisce il mondo, si ragiona sulle sensazioni  collegandole razionalmente e si costruisce la comune ‘personalità storica’, e quello della pura ‘consapevolezza’. Poiché questa ci consente di poter ‘osservare’ persino la propria attività di pensiero appartiene ad un livello di cosceinza più elevato, cioè trascendente (appunto: il Sé).

La consapevolezza – egli afferma – è primordiale; è lo stato originale, senza inizio, senza fine, non causato, non sostenuto, senza parti né mutamento. La coscienza <invece> è per contatto, il riflettersi su una superficie, uno stato di dualità. Non può esserci coscienza senza consapevolezza, ma può esserci consapevolezza senza coscienza, come nel sonno profondo. La consapevolezza è assoluta, la coscienza è relativa al suo contenuto; la coscienza è sempre di qualcosa: è parziale, è mutevole. La consapevolezza è totale, immutevole, calma e silenziosa. La matrice comune ad ogni esperienza”.

E all’interlocutore che lo incalzava chiedendogli come si potesse penetrare oltre la coscienza nella consapevolezza, rispose:

“Poiché è la consapevolezza che rende possibile la coscienza, c’è consapevolezza in ogni stato della coscienza. Perciò proprio la coscienza di essere consapevole è già un movimento verso la consapevolezza. La tua attenzione al flusso della coscienza, ti porta alla consapevolezza. Non è un nuovo stato. E’ subito riconosciuto come lo stato originale e fondamentale”.[15]

 


[1] Plotino, Enneadi, VI, 9,7, 14-20. Purtroppo le correnti traduzioni di tale brano non consentono di comprendere appieno le indicazioni ‘tecniche’ indicate da filosofo, per questo abbiamo preferito presentarne una nostra.

[2] Plotino, Enneadi, VI, 4, 16.

[3] Ibidem, II, 9, 2.

[4] Ramana Maharishi, Sii ciò che sei, a cura di David Godman, ed. Il Punto d’Incontro, 2007, p. 20.

 

[5] Ibidem, pp. 69-70.

[6] Ibidem, pp. 72-73.

[7] Ramana Maharishi, Sii ciò che sei, a cura di David Godman, ed. Il Punto d’Incontro, 2007, p. 25.

[8] Ramana Maharishi, Sii ciò che sei, a cura di David Godman, ed. Il Punto d’Incontro, 2007, p. 19.

[9] Ramana Maharishi, Sii ciò che  sei, op. cit., pp. 66-67.

[10] Nisargadatta Maharaji, Io sono Quello, Rizzoli, Milano, 1981, vol. I, p. 154.

[11] Ibidem, p.158.

[12] Ibidem, p.34.

[13] Ibidem, pp. 155- 156.

[14] Ibidem, p. 157.

[15] Ibidem, pp. 39-40.