ATTILIO QUATTROCCHI

LE PAROLE DEL SACRO

NELLA TRADIZIONE MISTERICA

PREMESSA

La più alta esperienza del sacro nella Grecia antica fu quella realizzata nel corso dei secoli all’interno della tradizione esoterica nota come quella dei ‘Misteri’.

Prova ne è che la stessa filosofia (disciplina a cui si riconosceva nel mondo antico il massimo grado del sapere speculativo) non solo si servì di concetti e termini propri di essa ma si propose anche (attraverso la speculazione metafisica) di realizzare o, quantomeno, di propiziare quella diretta conoscenza del mondo spirituale che era lo scopo specifico dei Misteri.

Infatti, soprattutto da Socrate in poi, la stessa filosofia si porrà come strumento di ‘purificazione’ dell’anima, cioè come strumento speculativo e pratico atto a conseguire la medesima ‘catarsi’ attraverso la quale i Misteri ‘ritualmente’ cercavano di condurre gli iniziati ad uno stato supremo di conoscenza e beatitudine.

La tradizione esoterica fu sempre concorde nel ritenere che solo grazie a tale illuminativa esperienza interiore l’uomo può scoprire la sua vera natura ‘spirituale’.

C’è un’ulteriore prova che dimostra la centralità della tradizione mistica/misterica del mondo greco ed è data dall’uso sistematico del suo lessico non solo nella filosofia antica ma anche in quella moderna. Si pensi a termini come: mistero, esoterismo, misticismo, iniziazione, estasi, mania, entusiasmo e tanti altri ancora.

Essi sono diventati, nel tempo, parte integrante ed essenziale sia del lessico sia degli schemi concettuali interpretativi della esperienza e della condizione umana generalmente riferibili alla cultura ed alla civiltà occidentali.

Questo breve studio (che nella sostanza è un piccolo glossario) vuole ‘didatticamente’ illustrare i vocaboli fondamentali di quella specifica tradizione spirituale (nella consapevolezza che il lessico sacrale greco è, naturalmente, più ampio).

Lo scopo di tale lavoro è sia di agevolare la comprensione della filosofia antica, sia, più specificatamente, di porre le premesse per uno studio sistematico circa la formazione e diffusione della Sapienza Sacra nell’antico Occidente.

Veritas est quod ubique, quod semper,

quod ab omnibus creditum est

(Vincenzo di Lerino, Commonitorium)

 

Da sempre, in tutte le culture, l’ Uomo ha tentato di svelare il ‘mistero’ della propria condizione esistenziale ponendosi le domande fondamentali: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo ed ha posto in correlazione a tali domande altri quesiti, simmetrici e collegati: qual è l’origine del mondo, quale la sua struttura, quale il suo destino.

Da sempre ha compreso che la consapevolezza ordinaria, basata unicamente sull’esperienza sensibile, non è in grado di rispondere a quelle domande; per questo ha tentato di andare oltre il visibile, per esplorare il fondo oscuro dell’Essere.

Da sempre, sulla base delle proprie esperienze, l’uomo si è anche convinto “che si può sollevare al di sopra dell’orizzonte limitato della sua coscienza normale, sino all’altezza d’intuizioni e di conoscenze illimitate, e che all’anima umana non è negata la facoltà di vivere in certi momenti, nella realtà e fuori di qualunque fantasia, la vita degli dèi: da questa credenza scaturisce ogni religione mistica”( Erwin Rohde, Psiche, II, 1982, p. 396).

 

Il termine ‘misteri’ designa diverse ‘forme’ religiose proprie dell’antichità greca i cui ‘rituali’, le cui ‘dottrine’, le cui ‘esperienze’ erano rigorosamente tenuti segreti.

Costitutivo dei misteri è appunto l’elemento iniziatico, cioè il segreto che può essere comunicato solo a persone prescelte che, a loro volta, sono tenute a mantenere il silenzio più rigoroso circa quanto appreso e sperimentato in quel sacro contesto.

In Grecia la tradizione misterica più antica, stando almeno alle testimonianze pervenuteci, è quella dei misteri di Eleusi, una località non molto distante da Atene, documentata dal VII secolo avanti Cristo. Tuttavia la sua espansione, così come quella di altri culti analoghi si ebbe soprattutto a partire dal III secolo a. C., in piena età ellenistica.

I misteri eleusini dal mondo greco si propagarono verso l’occidente, tanto che in piena età imperiale risultano penetrati in tutto il mondo romano.

Si è soliti distinguere due diverse ‘famiglie’ di culti, quelli di origine greca (oltre quelli eleusini, quelli orfici, quelli dionisiaci e di Samotracia) e quelli di origine orientale (di Attis e Cibele, provenienti dall’Asia minore, di Iside ed Osiride, di provenienza egizia, di Adone, originari della Siria e di Mitra, sorto in Persia).

Caratteristica comune alle dottrine misteriche è quella d’essere imperniate sul culto di un Uomo/Dio morto violentemente e risorto, capace per ciò stesso di rendere immortali gli iniziati garantendo alla loro anima un destino oltremondano di felicità.

 

Il termine usato in Grecia per indicare quella sacra tradizione fu mysterion (μυστήριον).

Esso si fa in effetti derivare dal verbo myo (μύω) che significa ‘chiudere gli occhi e le labbra’ ma anche, per traslato, ‘essere calmo’, ‘rimanere silenzioso’. Molto probabilmente esso è collegato alla remota radice indoeuropea ‘mu’ che indicava il dito posto sulle labbra per intimare il silenzio, radice che è anche alla base dei verbi latini musso e muttio, che vogliono dire appunto ‘tacere’, ‘balbettare’ e dell’aggettivo, usato anche come sostantivo, mutus.

Il termine è però, nella consuetudine greca, generalmente usato al plurale: tà mystèria (τά μυστήρια).

Oltre a myo nella lingua ellenica esiste un’altra simile voce verbale: myeo (μύεω). Essa però viene usata più propriamente e specificatamente nel senso di ‘iniziare ai misteri’ e, in una accezione più estensiva, di ‘istruire’, ‘insegnare’; conseguentemente tale verbo nella forma medio-passiva assume il significato di ‘essere iniziato’ e quindi di ‘imparare’.

Il termine ‘mistero’ ha assunto nella cultura sacrale greca sostanzialmente due significati: da un lato ha indicato ciò che non poteva ( per una prescrizione giuridico-religiosa) essere comunicato, ‘pubblicizzato’, circa la dottrina ed i riti della relativa tradizione, dall’altro ciò che di per sé, per sua stessa natura, non è spiegabile dalla ragione ‘discorsiva’ umana né comunicabile attraverso il linguaggio.

Al primo significato si riferiva l’impegno al ‘silenzio’ (esuchìa – ησυχία, termine che aveva anche i significati di ‘calma’, ‘tranquillità’, ‘quiete’, ‘pace’, ‘riposo’) che si assumeva al momento della iniziazione; al secondo, più propriamente ‘filosofico’ si associava il concetto che l’esperienza misterica era di natura tale da non poter essere ‘rivelata’ o ‘descritta’ neanche volendolo fare.

Correlato a tale più ‘esoterico’ significato era il concetto di ‘ineffabilità’ che venne esplicitato soprattutto dal neo-platonismo di Plotino.

Questo filosofo, che per molti aspetti si può considerare il massimo esponente della metafisica speculativa occidentale, affermò infatti nelle sue Enneadi che la esperienza mistica è basata su di un processo di identificazione spirituale ( la famosa unio mystica) che di per sé abbatte la barriera tra soggetto conoscente ( uomo) e oggetto conosciuto (Dio) attraverso una fusione intuitiva (noetica ed emotiva).

Tale forma di conoscenza è quindi ben diversa da quella ordinaria, che si realizza nel mondo materiale, tutta basata sul dualismo tra soggetto ed oggetto, dice pertanto Plotino: “ Proprio questo vuol dire la prescrizione dei misteri che proibisce di rivelare Dio ai non iniziati, vietando come illecito il manifestare ciò che è divino a colui che non può comprenderlo, tranne che costui non abbia già di per se stesso avuto la ventura di contemplarlo. Infatti (nello stato mistico) il contemplante ed il contemplato erano una sola cosa, l’’oggetto’(Dio) non era ‘visto’(come altro da sé) ma ‘unito’ al soggetto ” (Enneadi, VI, 9, 11).

Il mondo ‘profano’ per Plotino è dunque quello che non avendo avuto diretta esperienza di ‘contemplazione’(θεωρία/theoria; da theόs più oráo= vedere dio) non è in condizione di ‘comprendere’ quel tipo straordinario di esperienza; anzi, se essa gli venisse descritta, tenderebbe per i suoi stessi limiti ad alterarne il significato o addirittura a negarne a priori la possibilità.

 

Alcuni secoli dopo, nel contesto cristiano del Nuovo Testamento, myeo sarà usato nel significato di ‘dare il battesimo’, vale a dire ‘iniziare al mistero cristiano’. E’ noto, in effetti, come la nuova religione originaria della Palestina non solo si presentò (soprattutto ad opera di S. Paolo) come un ‘mistero’ imperniato anch’esso sul culto di un Uomo/Dio morto e risorto con cui i fedeli si dovevamo ‘misticamente’ identificare, ma si appropriò di molta parte della terminologia, della simbologia e della ritualistica misterica ‘adattandola’, naturalmente, alle sue particolari prospettive ‘dottrinarie’ ed ‘esclusivistiche’ di origine giudaica. Pertanto il termine ‘mistero’ venne usato spesso dal cristianesimo per indicare genericamente il contenuto della sua Fede, presentata appunto come la ‘rivelazione’ definitiva di esso ( Mat. 13, 11; Cor. I, 14, 2). Ma poiché un mistero rivelato… non è più un mistero… in altri casi la stessa religione, più ‘modestamente’ e ‘realisticamente’, pur continuando ad usare il termine per indicare la propria ‘verità’ che asseriva rivelata dal ‘vero’ Dio, riconosceva tuttavia che a noi il Mistero, anche dopo la venuta del Cristo rimane ‘non comprensibile pienamente’…

Inoltre, sempre il cristianesimo, ha spesso usato in latino il vocabolo ‘sacramentum’ come sinonimo di mysterium’. In effetti il termine sacramentum, oltre a significare ‘giuramento’, ‘vincolo’, ‘patto’, poiché viene dal verbo sacro che significa ‘consacrare’, ‘dedicare ad una divinità’, ‘rendere inviolabile’, poiché è composta dal suffisso –mentum, utilizzato per formare sostantivi designanti il prodotto o il risultato di un’azione, può indicare anche l’atto con cui si concede il ‘sacro’, si rende qualcosa ‘sacra’. In tal modo si comprende perfettamente come l’antico cristianesimo lo considerasse sinonimo di misterium, vocabolo con cui s’indicava l’ atto rituale finalizzato a dare all’iniziato/proselita la possibilità di accesso al mondo metafisico trasmettendogli/conferendogli la Forza Sacra, la Grazia.

In particolar modo il vocabolo è stato utilizzato dalla religione di origine palestinese per designare i due atti ‘rituali’ per eccellenza, quello battesimale (antico rito d’iniziazione tramite immersione in acqua o aspersione -praticato sin dalle età più remote sia in oriente che in occidente- con cui nella dottrina cristiana si viene ‘purificati’ dal ‘peccato’di Adamo, si riceve la Grazia e si entra nella comunità ecclesiastica) e quello eucaristico ( il ‘pasto sacro’ attraverso il quale sotto le specie del pane e del vino ci si ciba del dio: rito ben noto anch’esso ai misteri greci e da essi collegato alle figure di Dioniso per il vino e di Demetra per il pane).

 

Colui che veniva iniziato veniva chiamato mystes (μύστης) ed era introdotto alla sacra conoscenza dai mystagogòi (μυσταγογόι, termine composto con il verbo άγω che significa: conduco).

Nel cristianesimo ‘mistagoghi’ saranno chiamati i sacerdoti e le guide spirituali.

Dal vocabolo con cui si designava l’iniziato, mystes, oltre che da quello con cui si designava l’iniziazione, myesis (μύησις), deriva mystikòs (μυστικός) utilizzato come per designare colui che cerca il contatto diretto col Dio, con il Sacro, con il Divino attraverso i culti misterici.

Dal termine ellenico i latini derivarono il loro mysticum, oltre che mysta, mystagogus e, naturalmente, mysterium.

Per indicare la sacra cerimonia con cui si accedeva al mondo divino i latini usarono il termine initiatio-initiationis, in collegamento con il verbo initio-initiare e col sostantivo initium, ( in genere usato anch’esso al plurale: initia, come nell’espressione: initia Cereris per indicare quelli di originegreca) sottolineando così il concetto che il rito esoterico introduce alla percezione metafisica e ne dà la prima esperienza.

Poiché però il termine latino initium indica oltre che ‘il primo passo’ anche ‘l’ origine’, ‘il fondamento’, è evidente che la initiatio poteva essere intesa come una ‘nuova nascita’ e l’iniziato stesso indicato come un re-natus, un essere diverso dal precedente perché mutato interiormente dalla potenza dell’esperienza misterica.

Lo stesso termine ‘adeptus’ con cui i Latini indicavano l’iniziato (oltre che, più genericamente il seguace di una dottrina, di una setta), essendo participio passato di ‘adipisci’, significava ‘che ha raggiunto’, ‘che ha conseguito’. Pertanto è ‘adepto’ chi ha realizzato la propria ‘perfezione’, in perfetta corrispondenza con il vocabolo greco telestòs con cui s’indicava chi attraverso la teletè, cioè appunto la iniziazione, raggiungeva o era sul cammino della ’perfezione’. In effetti in greco il sacerdote che iniziava ai misteri era indicato come telestés e l’aggettivo telestikós era sinonimo di mysterikós o mystikós.

 

Il segreto iniziatico era ‘esoterikós (εσωτερικός , termine composto da éso=dentro ed il suffisso téros che, caratterizzando il grado comparativo di un aggettivo, significa: ‘più’) accessibile cioè solo ad una ristretta cerchi di adepti (e che dunque si contrapponeva a ciò che è e può essere divulgato: ‘essoterico’ o ‘exoterico’ (εξωτερικός, da έξω = fuori).

 

Si riteneva che l’esperienza iniziatica fosse di per sé indicibile e per questo in Grecia la si indicava col termine árretos(άρρητος) che vuol dire appunto ‘in-esprimibile’, da rètòs il cui significato è appunto esattamente contrario, cioè quello di ‘espresso’, ‘razionale’, ‘misurabile’, dunque: dicibile.

 

La cerimonia dell’iniziazione era per lo più indicata col termine teleté (τελετή) che al plurale assumeva spesso il significato generico di ‘feste’, ‘solennità religiose’. Esso è collegato significativamente a quello di télos (τέλος) che significa ‘fine’, ‘compimento’, ‘realizzazione’, ma anche ‘pieno sviluppo’, ‘perfezione’, e dunque, di nuovo: rito, festa, mistero. Dal che si arguisce che l’iniziazione era considerata la cerimonia con cui il miste poteva accedere alla sua piena realizzazione spirituale. L’aggettivo telestikós (τελεστικός) significava pertanto non solo genericamente ‘che porta a termine’, ‘che realizza’ ma anche ‘che inizia ai misteri’ e nel cristianesimo sarà pertanto utilizzato per connotare quelle preghiere e quei riti che danno la Grazia.

Inoltre – ed anche questo è molto significativo- nell’uso greco si soleva mettere in connessione, come fece anche Plutarco, teleté con il termine quasi omofono di teleuté (τελευτή), il cui significato era quello di ‘fine’, ‘compimento’ ma anche ‘morte’: per questo dire ‘iniziazione’ era come dire ‘morte’, cioè passaggio (e ritorno!) della psiche al mondo che le è proprio, cioè alla dimensione metafisica. L’iniziazione era intesa come una morte, un processo di morte, indotto nel miste per far conseguire l’esperienza del distacco dell’anima dal corpo per poi farvela ritornare. Era così come un far ‘resuscitare’ il corpo che essa aveva provvisoriamente abbandonato.

 

L’esperienza mistica culminante di tutto il processo iniziatico, il più alto grado dei misteri eleusini, era indicata col termine epoptéia (εποπτεία) composto da epí (επί), preposizione che significa: ‘su’, ‘sopra’, ‘in alto’, e dal verbo optéuo (οπτεύω) che significa ‘vedere’.

Dunque la epopteia era la ‘visione di ciò che è in alto’ e l’epóptes (επόπτης) era sia l’officiante dei misteri che l’iniziato del grado più elevato. L’aggettivo epoptikós (εποπτικός) significava pertanto: ‘concernente i misteri’, ‘esoterico’, ‘contemplativo’ ed ‘epoptiche’ erano definite in Grecia le filosofie che assumevano come loro compito specifico l’introdurre a quella diretta conoscenza/esperienza metafisica che è lo scopo esplicito dei misteri.

Per questo Plutarco dirà che Platone ed Aristotele chiamavano ‘epoptica’ quella parte essenziale della filosofia che si proponeva di far cogliere direttamente il Principio Primo della Realtà permettendo così di conseguire per via speculativa quell’esperienza illuminativa (“che lampeggia attraverso l’anima come un fulmine”) che è il fine stesso dell’iniziazione (De Iside et Osiride 382 d-e). Teone di Smirne così ribadì il concetto: “ La filosofia è, possiamo dire, una iniziazione (mýesin) alla vera perfezione (alethoùs teletès) e una trasmissione dei veri misteri. Vi sono cinque parti dell’iniziazione: la prima è la purificazione (katharmós), la seconda la trasmissione della iniziazione (teletès parádosis), la terza viene chiamata visione (epoptéia), la quarta prevede assunzione di una fascia e di una corona come simboli della possibilità di trasmettere ad altri l’iniziazione…la quinta è il conseguimento della pura felicità che deriva dall’essere amato da Dio” (Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem, pp.14-15 Hiller = pp. 20-23 Dupuis).

I greci utilizzavano come equivalente del termine epoptéia quello di theorìa ed a buona ragione, poiché esso deriva da theòs, cioè ‘dio’, ed il verbo orào che vuol dire ‘vedere’.

Quindi prima di indicare una forma della speculazione intellettuale, una dottrina filosofica o scientifica, il senso originario del termine ci riconduce appunto alla ‘visione’ mistica del divino.

 

Il lessico latino ha conosciuto come equivalente dei termini greci epopteia e theorίa sia la pura trasposizione di quest’ultimo nei propri caratteri linguistici, sia, in accezione più mistico-religiosa, quello di contemplatio. Non è priva di fondamento l’ipotesi che tale termine comportasse in origine riferimento alla volta celeste e alla sua ammirata e rispettosa osservazione da parte dell’uomo antico che considerava quello come lo spazio sacro degli dei o del dio.

In effetti il termine templum indicava non solo genericamente lo spazio celeste ma anche, in senso rituale, quella porzione del cielo che il sacerdote, l’augure, circoscriveva col suo bastone ricurvo, il lituus, per trarne gli auspici osservando entro di esso il volo degli uccelli. Da ciò il significato indotto di ‘santuario’, cioè di ‘spazio sacro’ in cui il divino si può manifestare.

 

I cristiani si appropriarono di tutti questi termini. Il vocabolo epopteia sarà usato ad esempio da Clemente Alessandrino il quale lo usa per indicare appunto la ‘visione’ di Dio concessa ai santi (E. R. Dodds, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, Firenze, 1988, p. 95, n. 85) oppure per indicare la finalità della teologia e della metafisica. Per lui (Strom. VII, 11) l’epoptéia è “il coronamento della via aperta all’anima desiderosa di conoscenza”(per altri passi si veda: Pat. Lex., s. v. εποπτεία).

Analoga sorte ebbe ebbe quello latino di contemplatio-contemplationis, il quale non solo venne usato dallo stesso Clemente ma anche da Origene e poi da S. Agostino, dallo Pseudo-Dionigi Areopagita, da S. Gregorio Magno, S. Bernardo di Chiaravalle, S. Tommaso d’Aquino e insomma da tutta la teologia cristiana posteriore.

 

Al termine epoptéia di uso per lo più ‘eleusino’ corrisponde sostanzialmente quello utilizzato dalla tradizione orfica di ‘estasi’(έκστασις), il cui significato letterale è appunto ‘essere fuori’(dal corpo), giacché derivato dalla preposizione ék (εκ) o éx (εξ) –‘fuori da’- e dal verbo ίstemi (ίστημι) = stare. L’estasi è dunque quella condizione ‘sacra’ della coscienza a cui essa perviene quando si separa dal corpo (considerato dagli orfici la ‘tomba’ dell’anima, secondo la nota equazione sòma=sèma (σωμα=σήμα) e contempla il divino.

 

Connesso in particolar modo alla tradizione bacchica è l’altro termine manίa (μανία) con cui s’indicava lo stato non ordinario della coscienza quando essa viene a contatto col ‘sacro’(e ciò era ritenuto possibile sia che si fosse capaci d’innalzarsi ad esso ‘uscendo fuori’ dal corpo, sia che il corpo stesso- naturalmente dopo opportune invocazioni e preghiere- ne venisse ‘invasato’). Già nel lessico greco la parola aveva il duplice significato di ‘pazzia’, ‘follia’, ‘passione’ che di ‘invasamento’, ‘entusiasmo’, ‘ispirazione’. E’ noto come le seguaci di Dioniso, le baccanti, nella loro frenesia ‘abreativa’, cioè ‘catartica’, si muovessero come ‘possedute’ (il verbo medio/passivo mainòmenai – μαινόμεναι- indicava appunto la presenza nel corpo e nello spirito della baccante di una ‘forza’che può divenire incontrollabile una volta evocata). Al culmine del rito l’energia miracolosa del Dio sanava le seguaci liberandole dalle loro sofferenze interiori. Platone esalterà tale forma risanatrice ed ispiratrice della manìa e farà dire a Socrate nel Fedro (244 a): “I beni più grandi ci vengono dalla manìa”, aggiungendo tuttavia una essenziale precisazione :”dalla pazzia concessa per dono divino” e distinguerà quattro tipi di ‘divino furore’: quello ‘profetico’(che ha per patrono Apollo), quello telestico,cioè iniziatico (che ha per patrono Dioniso), quello poetico (ispirato dalle Muse) e quello erotico (ispirato da Afrodite e da Eros).

 

Dioniso donava così la kátharsis (κάθαρσις, da καθαίρω = purifico, lavo, detergo). Riferendosi proprio a tale processo di liberazione interiore e di ascesa spirituale Platone parlerà dei filosofi come di coloro che si purificano mediante l’esercizio della filosofia (οι φιλοσοφία καθηράμενοι).

Secondo la tradizione esoterica, quando la purificazione giunge al suo compimento l’anima, ormai del tutto indipendente dal corpo, capace di una esistenza ‘separata’, si svincola dal ciclo della nascita/morte proprio di tutte le forme materiali ( kύklos tès ghenéseos - ο κύκλος της γενέσεως), si affranca dalla ruota di Moira, cioè del Destino (ο της Μοίρας τροχός).

A sua volta il cristianesimo riferirà il termine ‘catarsi’ soprattutto al battesimo, rito con cui ci si purifica dal peccato originale, letteralmente: lo si ‘deterge’.

 

Il termine con cui s’indica il ciclo reicarnazionistico all’interno della tradizione misterica (ma non solo) è metempsýkosis (μετεμψύχωσις) composto dalla preposizione metà, che vuol dire ‘oltre’, da en, che vuol dire ‘dentro’ e, naturalmente, psichè; pertanto tutta la parola indica il reiterarsi nella nostra dimensione spazio/temporale dell’entrata e dell’uscita dell’anima dai corpi, la sua trasmigrazione.

In realtà il greco conosce anche il termine equivalente di metensomátosis (μετενσωμάτωσις) con cui si sottolinea il concetto e l’immagina del passaggio dell’anima da un soma ad un altro.

 

Altro vocabolo usato per indicare i riti misterici (sia quelli di Demetra ad Eleusi che quelli bacchici o dei Cabiri, oltre che di Orfeo) era quello di όrghia (όργια, neutro plurale da όργιον) accompagnato spesso dall’aggettivo ierá (ιερά) che significava ‘sacre’. Esso genericamente aveva il senso di ‘cerimonia’, ‘rito’, ‘sacrificio’ ed era etimologicamente connesso a érgon (έργον) = azione (sacrificale), gesto (sacro), dunque ‘rito’. Con il vocabolo orghiázo (οργιάζω) s’indicava appunto il celebrare i riti misterici (indicati con i tre termini equivalenti: όrghia, ierá e teletè). Il termine è connesso al verbo orgáo (οργάω) che significa ‘essere gonfio’, ‘essere maturo’ ma anche ‘essere eccitato’, ‘essere in calore’, ‘essere smanioso’. Da qui lo stesso termine italiano ‘orgasmo’, dal greco orgasmós (οργασμός). La celebrazione dei misteri era anche indicata col termine orghiasmós ed il celebrante era chiamato orghiofàntes, orghiastés o orgheón, da cui l’aggettivo orghiastikós.

Al termine greco corrisponde esattamente il latino orgia, orgiorum. Com’è noto la festa rituale in onore di Dioniso/Bacco era caratterizzata da danze sfrenate e altre manifestazioni di licenziosità per cui esso assunse il significato generico di ‘bagordo’, ‘gozzoviglia’ o di ‘riunione di persone che si eccitano e danno sfogo ai loro istinti’. Dioniso era il dio della liberazione delle forze istintive e quindi di una follia ‘terapeutica’, ben nota alle pratiche psicanalitiche ‘catartiche’ contemporanee.

A Roma le feste in onore di Dioniso/Bacco erano appunto i ‘baccanali’(bacchanalia) e baccanti ( bacchae-arum) erano le donne che vi partecipavano (da baccante(m), propriamente participio presente del verbo bacchari, ‘celebrare la festa di Bacco’). Da baccanale viene il termine italiano (di uso più ‘profano’…) di ‘baccano’, con cui si indica appunto uno strepito assordante.

L’atto con cui il ‘sacro segreto’ veniva trasmesso era indicato con il termine parádosis (παράδοσις) da paradídomi (παραδίδωμι) verbo che significa ‘affidare’, ‘trasmettere’, ‘lasciare in eredità’ e quindi è sinonimo di ‘tradizione’, ‘dottrina’, ‘insegnamento’. Il corrispondente latino è naturalmente il vocabolo traditio-traditionis, connesso al verbo tradere che significa appunto ‘consegnare’. Anche in tal caso del termine s’impadronì il cristianesimo per indicare la propria trasmissione dottrinaria ecclesiastica è ecclesiatichè parάdosis (ή εκκλησιαστική παράδοσις).

Nel contesto misterico (anche se non solo in esso), ad indicare lo stato di vitale esaltazione provato dalla psiche nel momento in cui viene in contatto con il ‘sacro’, è usato spesso anche il termine entousiasmόs (ενθουσιασμός), la cui etimologia ci rimanda al suo originario significato mistico, giacché esso è composto dalla preposizione en(εν) e dalla radice del verbo thousiázo (θουσιάζω=essere ispirato, essere invasato dalla divinità ed era quindi considerato lo stato conseguente all’entrata del dio (θεός) nel corpo del myste, il quale allora diviene éntheos; letteralmente:‘ha Dio dentro di sé’. Così anche i vocaboli enthousίasis (ενθουσίασις) o enthousίa (ενθουσία) indicano lo stesso ‘divino trasporto’, il gioioso empito vitale e la ‘frenesia’ (letteralmente: l’esaltazione del frén – φρήν = coscienza) che ne consegue. La enthousiastiké sofìa (ενθουσιαστική σοφία) è pertanto la ‘sapienza ispirata’ ma anche il dono della divinazione. Al neutro sostantivato l’aggettivo tό enthousistikόn (τό ενθουσιαστικόν) può significare ‘agitazione’, ‘estro’, ma anche ‘orgasmo’. Tale ultima accezione è particolarmente significativa in quanto corrisponde alla dottrina platonica sull’Amore rivelata dalla sacerdotessa dei misteri Diotìma a Socrate, secondo quanto narra Platone nel Simposio. La tradizione iniziatica, secondo la testimonianza del filosofo ateniese, riteneva che l’impulso sessuale, se sublimato, è esso stesso forza di trascendenza mistica (così come la kundalini in India).

In latino i termini omofoni entheatusedentheusqualificarono l’uomo ispirato e spesso Cibele era indicata come la dea invasatrice per eccellenza: enthea mater. Tale ‘invasamento’ che veniva considerato positivo o negativo a seconda della ‘divinità’ incorporata veniva spesso indicato col termine theiasmόs, sinonimo, per quanto detto, di ‘ispirazione’, ‘entusiasmo’, oltre che da quello di daimonismόs, utilizzato però per lo più nell’accezione negativa di ‘ossessione’, ‘possessione’.

Questa condizione veniva anche indicata col termine katoché, da cui il termine con cui spesso s’indicava il ‘posseduto’: kátochos (κάτοχος), il cui significato letterale è: ‘tenuto a terra’ , ‘trattenuto saldamente’, in quanto esso deriva dalla preposizione katà,che vuol dire ‘in basso’, e dal verbo écho , che vuol dire ‘ho’, ‘possiedo’.

 

La terminologia greca ci fa capire come si schiudessero, per quella cultura, due diverse possibilità per l’anima che guidata da un’aspirazione religiosa riesce a superare i suoi ordinari ‘confini’: quella di ‘uscire’ dal corpo ed ‘elevarsi’ dalla dimensione materiale a cui esso appartiene o, al contrario, ma con gli stessi esiti, quella di ‘far scendere’ la Potenza invocata (positiva o negativa) nel corpo e naturalmente nello spirito stesso dell’individuo.

L’idea di fondo è che tra l’uomo e Dio non c’è una differenza ‘ontologica’ per cui l’uomo può, grado a grado, ‘indiarsi’, espandere la propria coscienza sino a identificarsi con quella universale.

Tale processo ‘mistico’ veniva indicato esplicitamente attraverso espressioni e termini ben precisi come theόs ghenésthai (da θεός e γίγνομαι) che letteralmente significa ‘divenire dio’, oppure theopoiéisthai (da θεοποιέω), letteralmente ‘farsi dio’, oppure ancora (apo)theothénai (da αποθεόω) da cui proviene il sostantivo apothéosis, da cui lo stesso italiano ‘apoteosi’ per indicare anche semplicemente una ‘glorificazione’.

Un’altra espressione molto diffusa fu quella che si ritrova nel Teeteto platonico: ‘rendersi simili a dio’: omόiosis theò (ομοìωσις θεω), che sarà utilizzata anche in contesto cristiano.

L’aggettivo éntheossarà usato dal cristianesimo per indicare il profeta, la persona ‘ispirata’ da Dio (naturalmente dal ‘vero’ Dio…).

L’iniziato considerava il dio dei misteri, morto e risorto, come un ‘Salvatore’ non solo di se stesso ma, potenzialmente, dell’intera umanità, appunto un Sotèr (Σωτήρ). Generalmente nei misteri si rappresentava cerimonialmente proprio la morte ed il suo superamento da parte del miste che veniva per questo definito come ‘rinato’, ‘risorto’, ‘trasformato’, ‘deificato’, ‘trasfigurato’, ‘portatore della medicina dell’immortalità’ avendo ripetuto in se stesso le vicende del dio.

Naturalmente l’epiteto di ‘Salvatore’ sarà riferito dal cristianesimo (che mantenne lo spirito e l’impostazione dottrinaria esclusivistica tipici del giudaismo) al solo Gesù, ritenuto l’unico capace di dare agli uomini la Salvezza (σωτηρία).

A tale ultimo termine corrisponde il latino salus, salutis.

 

CONCLUSIONE

 

Quello iniziatico era un percorso di progresso spirituale che si articolava in diversi momenti e secondo ‘riti’ progressivi, gradi successivi.

Nei misteri eleusini,ad esempio, sembra che i ‘livelli’ siano stati sostanzialmente tre: quello della preliminare catarsi, quello della iniziazione propriamente detta e quello della perfezione illuminativa, della ‘visione’ (kάtarsis, teleté, epoptéia).

Lo scopo fondamentale di tutti i ‘culti misterici’ antichi era, comunque, quello di procurare all’iniziato una personale esperienza religiosa, un contatto con ‘il sacro’ capace di trasformarlo e procurargli anche nell’al di là una vita più felice. Per questo l’iniziato doveva ‘morire’ e ‘rinascere’, (come Dioniso, come Osiride, come Attis, come Mitra…) cioè ripetere personalmente l’esperienza tragica e trionfante di quell’uomo/dio morto e risorto con cui cerca di identificarsi. 

L’esperienza mistica/misterica consisteva appunto nel ‘vivere il mito’, vale a dire: riprodurre nell’anima quella trasformazione di cui il mito era solo un ‘simbolo’.

Anche in tal caso sembra che si debba rovesciare l’interpretazione intellettualistica e storicistica del mito, tipica del mondo moderno, per cui esso è solo un racconto razionalmente assurdo, tutt’al più capace di rappresentare istanze psicologiche tipiche dei popoli ‘primitivi’, collegate quasi sempre a vicende cicliche della natura.

I riti ed i miti misterici, in particolare quelli eleusini ed orfici, non erano solo la ingenua rappresentazione del ciclo annuale della natura che muore e risorge, a cui si voleva ‘culturalmente’ partecipare attraverso una trasposizione ‘religiosa’.

L’iniziazione era, al contrario, concepita come una ‘vicenda’ reale, una esperienza il cui significato era un connettersi intimo con quelle Forze invisibili che sono a fondamento non solo della Natura ma anche dell’Uomo, che di Essa è parte.

L’iniziato tendeva a farsi misticamente ed intuitivamente ‘uno’ con Essa, a trasfigurarsi, a ‘indiarsi’, a risorgere dopo ogni morte ed infine, a conclusione di una lunga catena di esistenze, ad affrancarsi dal ciclo stesso giacché esso è permeato di sofferenza.

Operativamente, al fondo del ‘culto’, del ‘rito’ sembra così esserci stata una esperienza indotta e guidata di distacco dell’anima dal corpo (estasi) ed una conseguente ‘resurrezione’.

Come dice Plotino (sostanzialmente l’ultimo grande rappresentante di tale tradizione nel mondo antico): “Uscire dal corpo è il risveglio vero: uscire dal corpo è resuscitare”(Enneadi, III, IV, 6). Anche una traduzione più letterale dello stesso passo riconduce allo stesso significato: “Condurre l’anima al giudizio comporta riassumere la medesima forma che si aveva prima della nascita”: è evidente che per Plotino esiste una ‘forma’ della nostra coscienza prenatale, un ‘corpo sottile’ in cui il nostro ‘io’ rientra dopo la morte.

Per questo nel passo indicato Plotino per indicare la morte usa il termine apoghénesis (απογένεσις) che letteralmente vuol dire genesi/nascita che avviene ‘lontano’(apό), naturalmente lontano dal ‘nostro’ mondo. Alla morte subita sul piano ‘materiale’ segue una rinascita, l’anima staccandosi dal corpo ri-nasce in un nuovo mondo, che per essa del tutto nuovo non è perché è lo stesso da cui proviene.

L’iniziato che era stato capace attraverso il ‘rito’ di uscire dal corpo già da vivo, per questo, avendo conosciuto la sua personale essenza ‘divina’ ed il mondo metafisico, non aveva più terrore della morte. Per lui la morte era solo un passaggio, un cambiamento di stato ed a tale pacificante consapevolezza non arrivava per speculazione intellettuale (che per sua natura non può andare oltre la mera ipotesi) ma a seguito di una probante esperienza metafisica: è la stessa ‘speranza orfica’ che sosterrà Socrate nel momento in cui berrà la cicuta.

Dunque la dottrina ‘mistica’ è propriamente la dottrina dei misteri, la quale sostenendo che di Dio si può avere solo una conoscenza ‘intuitiva’ di natura sovrarazionale per ciò stesso non può essere definita, a rigore, una dottrina, nel senso che si dà ordinariamente a tale termine , cioè di sistema razionale di spiegazione del reale.

Il ‘misticismo’afferma la possibilità e la ‘necessità’ di una ‘esperienza’ di per sé ‘indicibile’ a cui non può giungere nessuna ‘riflessione’, un’esperienza ‘metarazionale’a cui la ragione può solo predisporre.

La filosofia con il suo procedere logico-discorsivo ne può tutt’al più essere una preparazione, una tecnica preliminare ‘catartica’.

La sofìa, come meta e scopo dichiarato della filosofia, s’identifica in tal modo con la conoscenza di ordine metafisico connessa alla esperienza mistica stessa. Questa è conoscenza unitiva del divino, conoscenza per identità, di cui l’esperienza di ‘fusione’amorosa umana è solo un pallido riflesso e debole premonizione.

Tale intima esperienza del divino anche nel cristianesimo sarà appunto definita ‘mistica’ e la conseguente esperienza dell’anima che si sublima nella contemplazione ‘staccandosi dal corpo’(e tale osservazione è valida sia che s’interpreti tale espressione alla lettera che in senso metaforico) non è proprio un caso che sia indicata in tale religione con l’espressione greco/misterica di ‘estasi mistica’.