Plotino e le vie per l’estasi filosofica

di Attilio Quattrocchi

Plotino

La filosofia plotiniana rappresenta il punto più alto della metafisica occidentale. Il filosofo di origine egiziana è l’ultimo grande rappresentante della cultura greca ‘classica’ e porta a compimento un percorso speculativo che, ispirandosi soprattutto a Platone ed Aristotele, in realtà ripropone, consapevolmente, le grandi intuizioni della tradizione sacrale greca, in particolar modo di quella misterica.

Egli dà voce all’istanza di una metafisica ‘realizzativa’ cioè di una speculazione che si ‘concluda’ con una diretta esperienza del mondo spirituale, costituendo di fatto l’esponente più illustre di una gnosi ‘filosofica’, ben diversa dalla gnosi ‘religiosa’ del suo tempo (cristianesimo, manicheismo e, per alcuni aspetti, lo stesso gnosticismo).

Egli infatti non si affida ad una qualche ‘fede’ ma riconosce nell’attività logica un necessario preliminare per ogni esperienza metafisica autentica la quale è accessibile all’uomo in quanto tale e dunque è indipendente da qualsiasi ‘rivelazione storica’.

In tal modo egli  distingue sempre nettamente l’irrazionale dal sovrarazionale, l’esperienza mistica ‘visionaria’ della prassi ‘fideistica’ religiosa da quella ‘consapevole’, ‘lucida’ e ‘veritativa’ della via filosofico-metafisica.

Pur costituendo la sua filosofia ‘il più astratto sistema metafisico occidentale’, Plotino inizia la sua ricerca partendo dalla concreta realtà del mondo.

Questo, alla nostra esperienza empirica, risulta come una sterminata congerie di enti aventi ciascuno una sua  specifica identità, una sua particolare ‘individualità’.

Alla luce, però, della ragione è assolutamente evidente la loro connessione ed interazione nell’ambito un’unica realtà.

Oltretutto gli enti singoli non solo interagiscono ma si ‘generano’ gli uni dagli altri.

Per questo la molteplicità postula, implica, l’Unità Suprema che è in effetti una totalità relazionale.

Per questo la mente non solo ci consente ma anzi ci ‘obbliga’, attraverso lo stesso processo conoscitivo, a ricondurre ogni realtà singola che nel contempo genera ed è generata, ad una Realtà Suprema che tutto include; e questa Realtà la si può chiamare per quanto detto l’Uno, l’Uno-Tutto (én-tò-pan).

Non ci può essere ‘filosoficamente’ concetto più ‘elevato’, cioè più ‘includente’ di questo.

Sulla base di quanto detto è evidente che da ogni ente particolare possiamo e dobbiamo ‘ascendere’ logicamente ed ontologicamente all’Assoluto universale.

Per di più, a ben vedere, anche ogni singolo ‘ente’, pur essendo ‘uno’, è tuttavia costituito da una ‘interna’ molteplicità di organi, strutture, elementi:

In virtù dell’Uno – egli dice – tutti gli esseri sono quello che sono: infatti, che cosa sarebbe un essere se non fosse uno?…In ogni cosa c’è un’unità alla quale si deve risalire e tutto si deve ricondurre all’unità che è antecedente, finché di grado in grado si giunge all’Uno assoluto che non ci riconduce ad altro” (Enneadi, VI, 9, 1).

L’Uno inoltre non può che essere ‘infinito’; infatti se fosse soggetto a limitazioni esisterebbe qualcosa ‘al di fuori’ di Lui e questo comporterebbe che l’Uno non sarebbe più veramente tale.

L’Uno che è l’Ente per eccellenza, l’Unità Assoluta, nella sua infinita potenza, non può che ‘irradiare’, ‘emanare’, ‘generare’ la realtà, la quale per ciò stesso non può essere ‘totalmente altra da Lui’: ogni singola ‘realtà’ anche la più minuta, la più infima, la più ‘insignificante’ è un ‘modo’ di manifestarsi dell’Uno, è, per così dire, una sua ‘parte’ organica.

Tale processo emanativo è indicato da Plotino con termini (forzatamente ‘metaforici’) come apòrroia (απόρροια, da από = da e ρέω = scorro; dunque ‘deflusso’); oppure prόodos (da πρό = verso, e οδός = via; dunque: uscita, avanzata, generazione) oltre che perίlampsis (περίλαμψις, da περί= intorno e λάμπω = illumino, dunque : ‘irradiazione’, ‘splendore’, ‘illuminazione’).

L’Uno, dunque, ‘irradiandosi’ produce vari gradi di realtà: lo Spirito universale, (a cui corrisponde nel microcosmo uomo la ‘coscienza’), l’Anima del mondo (a  cui corrisponde nell’uomo l’anima come ‘energia vitale’) e la Materia (a cui corrisponde nell’uomo il corpo).

Plotino dunque ripropone la tradizionale tripartizione dell’uomo in soma, psichè, nous considerando le tre componenti come ‘parti’ di corrispondenti realtà universali; con ciò spiega ‘teoreticamente’ la concreta possibilità per lo spirito umano di ascendere a stati di coscienza sovraindividuali sino all’identificazione mistica con la Sorgente stessa del Tutto, l’Uno, attraverso un processo di ‘riconversione’ o ‘ritorno’.

Per indicare i gradi della realtà ‘intellegibile’ Plotino utilizza il termine ‘ipostasi’ (υπόστασις, da υπό = sotto e ίστημι = stare, dunque ha il senso di ‘fondamento’, ‘base’, ‘sostanza’, ‘essenza’).

Tre sono le ipostasi l’Uno, lo Spirito e l’Anima, da lui paragonate alla luce, al sole, alla luna (Enn., V, VI, 4).

La Materia non è per Plotino una ipostasi ma l’estrema propaggine dell’Anima (per cui, propriamente, non è l’anima ad essere ‘dentro’ il corpo ma è questo ad essere dentro l’anima, la quale lo ’avvolge’ come una invisibile ‘aura’).

Per quanto detto è evidente che le tre ‘ipostasi’ sono più che tre realtà ontologiche distinte, tre aspetti dell’unica ‘sostanza’ (ousìa).

Nelle successive elaborazioni teologiche cristiane (chiaramente ‘ispirate’ alla tripartizione plotiniana) sarà utilizzato il termine ‘ipostasi’ per indicare la specificità delle tre ‘persone’ divine mentre il termine ousìa rimarrà a designare l’essenza unica delle tre ipostasi.

 

L’UNO E LA SUA NATURA

 

Nelle Enneadi Plotino sostiene con forza l’impossibilità di ‘definire’ l’Uno. E ciò per un motivo speculativo molto evidente, poiché ‘definire’ qualcosa significa ‘circoscriverla’, differenziarla da altre.

Il ‘definire’ nella logica aristotelica è l’atto con cui di qualcosa  indichiamo il ‘genere prossimo’ e la ‘differenza specifica’; così un ‘uomo’ per definizione è un ‘animale’ (genere prossimo) ‘razionale’ (differenza specifica rispetto alle altre specie animali). Dunque, se ‘definire’ significa porre dei ‘fines’, dei ‘confini’, come potrà essere fatto ciò in relazione alla Realtà Assoluta, da che cosa potrà essere ‘delimitata’ e ‘circoscritta’ se essa stessa è la Totalità?

L’Uno pertanto è concettualmente ‘indefinibile’ così come la esperienza umana di Lui, che avviene con l’estasi, sarà ‘ineffabile’ (árreton).

L’Uno è al di là di ogni ‘concetto’ e della logica discorsiva, può essere ‘oggetto’ solo di una mistica intuizione.

Lo stesso Plotino riconosce, molto coerentemente, che anche la designazione ‘Uno’ è, a rigore, impropria:

“…lo stesso termine ‘Uno’ non significa altro che la negazione della molteplicità…si può adoperare questa parola per cominciare la ricerca con un vocabolo che denoti la massima semplicità , ma infine bisogna negare anche questo stesso attributo, il quale non merita più degli altri di definire quella natura che non può essere attinta dall’udito né compresa da colui che la nomina” (Enneadi, V, 5, 6).

Pertanto dell’Uno può dirsi solo “ciò che non è”:

Essendo infatti la natura dell’Uno generatrice del Tutto, non è nulla di ciò che esso genera: essa non è pertanto ‘qualcosa’, né è qualità, né quantità, né Spirito, né Anima; non è neppure ‘in movimento’, né, d’altronde, ‘in quiete’; non è ‘in uno spazio’; non è ‘in un tempo’; essa è invece l’Ideale solitario, tutto chiuso in se stesso o, meglio, l’Informe che esiste prima di ogni ideale, prima del moto, prima della quiete; poiché tali valori aderiscono all’essere e lo fanno molteplice…” (Enneadi, VI, 9, 3).

Da tale posizione prenderà le mosse la cosidetta ‘teologia negativa’ o ‘apofatica’ (da apofatikόs – αποφατικός, da απόφασις = negazione, termine che si collega a απόφημι  = non-dire) per la quale possiamo dire di Dio solo ‘ciò che non è’.

Essa influenzerà anche talune speculazioni dottrinarie cristiane.

Essendo concettualmente impossibile ’spiegare’ perché dall’Uno sia derivata la molteplicità degli enti e persino la ‘materia’, il filosofo ricorre ad espressioni figurate ed analogiche:

Un irradiamento che si diffonde da Lui, da Lui che resta immobile, com’è nel sole la luce che gli splende tutt’intorno; un irradiamento che si rinnova eternamente, mentre Egli resta immobile. Tutti gli esseri, finche sussistono, producono necessariamente dal fondo della loro essenza, intorno a sé e fuori di sé, una certa esistenza …: il fuoco effonde da sé il suo calore, e la neve non conserva il freddo soltanto entro di sé; un’ottima prova di ciò che stiamo dicendo la danno le sostanze odorose, dalle quali, finché sono efficienti, deriva qualcosa tutt’intorno, di cui gode chi gli sta vicino. Tutti gli esseri giunti a maturità generano; ciò che è eternamente perfetto genera sempre in eterno”(Enneadi, V, 1, 6).

L’idea che l’intera realtà derivi da un unico Principio e che ad esso l’Uomo possa ‘ritornare’ logicamente ed ontologicamente Plotino la ritrova nel celebre aforisma di Eraclito che egli espressamente cita: “Da tutte le cose l’Uno e dall’Uno tutte le cose” (Fr., 10 Diels).

LE IPOSTASI, LA MATERIA ED I CORPI

 

L’Uno è, dunque, Suprema Potenza, “sovrabbondanza d’essere” e per questo ‘irradia’ la realtà nelle sue articolazioni; con tale processo, però, Egli “non esce da sé” (e dove potrebbe andare?) ma “produce in sé” ogni cosa.

Facendo ciò non si ‘depotenzia’, non si ‘sminuisce’, perché, anche in tal caso, dovrebbe in qualche modo ‘estinguersi’ in qualcosa che sia altro da sé.

Dall’Uno, prima ipostasi, scaturisce per emanazione, cioè per un movimento di ‘de-gradazione’ (gradus in latino significa appunto ‘scalino’) la seconda ipostasi, il Nous, lo Spirito Universale la cui ‘natura già implica però una dualità: quella tra pensante e pensato.

Lo spirito ha dunque ha un grado ‘minore’ di ‘realtà’, vale a dire di ‘perfezione’ rispetto all’Uno. Nell’uomo tale grado ontologico universale si manifesta come ‘coscienza’ e ‘ragione’.

Da questo procede la terza ipostasi, l’Anima del mondo, che vivifica la Materia da essa stessa prodotta dando origine agli enti, come l’uomo, dotati di vita.

Per tale motivo tutte le anime degli esseri viventi vanno intese come ‘parti’ e ‘frammenti’ di una cosmica Forza Vitale.

Al limite inferiore di tale ipostasi compare infine la Materia la quale pur essendo il punto più lontano dall’Uno nel suo processo emanativo è ancora in qualche modo ‘all’interno’ dell’Uno stesso (e dove potrebbe essere altrimenti?).

Tuttavia la Materia, avendo origine dall’impoverimento dell’Uno, dall’indebolimento del suo irradiarsi, si presenta all’esperienza umana come il Male.

La coscienza dell’Uomo, immersa nel corpo/materia, può tuttavia ‘risalire’, vale a dire ‘sublimarsi’, ripercorrendo a ritroso la via seguita dal processo emanativo e quindi ‘sollevarsi’ dalla materia/corpo (sede degli istinti) all’anima (sede delle emozioni), da questa allo spirito (sede dei pensieri) e oltre questo pervenire alla meta,  cioè all’identificazione estatica sovrarazionale con l’Uno: la henosis (ένωσις, propriamente ‘unificazione’, dal neutro έν = uno).

Tale processo di ‘risalita’ implica una ‘purificazione dell’anima’ che consisterà pertanto in un suo svincolamento dal corporeo e in una sua ascensione dal piano della individualità a quello della universalità.

L’uomo (anche se spesso inconsapevolmente) ha un bisogno innato, strutturale, ontologico dell’Infinito perché da Esso proviene ed in Esso la sua coscienza ha un perenne fondamento.

Tuttavia il processo ascensivo è difficoltoso perché la connessione con il corpo fa in qualche modo degradare anche l’anima.

Plotino ripropone a tal proposito la teoria platonica esposta nel Timeo, nella Repubblica  e nel Fedro (con il mito della ‘biga alata’) secondo la quale la stessa anima individuale ha tre diversi livelli ‘qualitativi’ tra loro connessi e quindi tre corrispondenti funzioni.

Esiste una parte più elevata che svolge la funzione intellettiva ed è il loghistikόn, un’altra parte (sostanzialmente opposta alla prima) è quella legata ai bisogni istintivi del corpo e dominata dal principio del piacere sensibile ed è la ‘parte’ concupiscibile: epithymetikόn; infine c’è una ‘parte’ mediana, la parte ‘emotiva’, da Platone definita ‘irascibile’: thymikόn la quale può ‘allearsi’ sia con quella più elevata che con quella infima.

Per Plotino, così come per il suo Maestro, ‘saggio’ è colui che coltivando ed esercitando la ragione, come principio sia della vita teoretica che di quella pratica alimenta il principio ‘divino’ che gli è immanente.

Ma la ragione può essere trascesa e mutarsi in pura contemplazione solo se viene utilizzata sino alle sue estreme possibilità dialettiche.

Solo l’esercizio della ragione ne consente successivamente il suo stesso trascendimento.

Pertanto, secondo Plotino, l’esperienza mistica ‘filosofica’ (a differenza di quella ‘fideistico-religiosa’) non è antitetica a quella razionale ma, al contrario, il suo ‘naturale’ sviluppo.

Per questo il filosofo, avendo compreso ‘razionalmente’ che ‘tutto è uno’, cioè che la molteplicità del sensibile e dei fenomeni può e deve essere ricondotta ad un quadro relazionale unitario,  avverte la necessità di una esperienza diretta di tale unità metafisica e dalla ‘concettualizzazione’ filo-sofica  tende a passare alla intuizione ‘sofica’, cioè meta razionale, dell’Uno.

La finalità della prassi filosofica s’identifica così perfettamente con quella ‘rituale’ iniziatica.

Essa, infatti, avrà valore solo se ‘abituerà’ ed ‘allenerà’ l’uomo a ‘svincolare la coscienza dal corpo’ giacché non solo la coscienza dell’uomo ordinario identifica erroneamente la realtà con la sensibilità, ma è anche ‘legata’ e ‘subordinata’ alle pulsioni che da questa provengono.

Dunque chi cerca la ‘conoscenza’ deve ‘centrare’ la propria coscienza sulla funzione più elevata dello spirito, deve ‘operare’ con essa e avere quindi una vita ‘morale’ allontanando le ‘passioni’ la cui vera natura è quella di ‘vincoli’ corporei.

L’imperativo filosofico/iniziatico è chiaro: bisogna ‘staccare’ la coscienza dai bisogni del corpo, , ‘isolarla’ dalla stessa percezione del corpo e dai ricordi, fantasie, immagini che da esso provengono per poi ‘fissarla’, ‘concentrarla’ unicamente su se stessa per conoscerne la vera natura.

Divenuta così ‘pura’ ed ‘incontaminata’ l’anima può innalzarsi alla dimensione metafisica per un suo ‘spontaneo’ movimento ‘verso l’Alto’, per un suo ‘naturale’ tendere verso il divino, l’Uno da cui proviene.

L’anima del saggio vuole ‘ritornare a casa’ poiché ne prova una struggente ‘nostalgia’ e non è necessaria alcuna ‘fede’ per iniziare e completare tale processo ascensivo, ‘anagogico’ ma solo un processo ‘delfico’ di autoconoscenza.

Plotino condivide del tutto la ‘tecnica mistico-estatica’ che Platone aveva indicato nel Fedone:  “Quando l’anima, restando in sé sola e per sé sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immutabile, e, avendo natura affine a quello, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola” (Trad. di G. Reale; 74 d).

Bisogna che l’anima si ‘alleni’, si ‘abitui’ a ‘rimanere in se sola’; è necessario un ‘esercizio’, cioè un’ascesi interiore che consiste nel rimanere nella pura coscienza dell’io-sono.

Plotino esprime tali medesime convinzioni in modo molto sintetico e chiaro nel nono trattato della seconda Enneade:

La nostra anima ha una parte che è sempre presso gli intellegibili (è, appunto, il loghistikόn); un’altra che è presso le cose sensibili (l’ epithymetikόn), un’altra che è tra le une e le altre (il thymikόn); l’anima è una natura unica con parecchie potenze (le ‘parti di cui parla Platone con le rispettive funzioni e facoltà: conoscenza, sentimento, istinto) che ora si raccoglie tutta in quella parte che è la migliore di lei e dell’essere (naturalmente quella ‘razionale’), ora la sua parte inferiore precipitando trascina con sé la parte mediana: poiché non è permesso che l’anima sia trascinata tutt’intera (vale a dire che finché l’uomo è ‘vivo’ nessuna delle tre funzioni può essere del tutto eliminata: anche nell’uomo che perviene all’estasi attraverso la separazione della coscienza, dell’anima ‘razionale’ e di quella ‘sensitiva’ dal corpo rimane un suo collegamento, anche se molto ridotto, con quella vegetativa e dunque con il corpo stesso e le sue funzioni vitali, altrimenti si verificherebbe una morte all’istante. L’estasi infatti è una ‘piccola morte’). E questa sventura – continua Plotino – le accade perché essa non è rimasta nella bellissima sede dell’Anima universale” .

Per una misteriosa colpa e per una ignoranza ‘metafisica’ l’anima dell’uomo si è separata dal Tutto, dall’Anima universale e, a causa del prevalere della ‘parte concupiscibile’, è ‘precipitata’ nel nostro mondo, si è ‘incarnata’ sino ad essere :” …profondamente immersa nell’essere individuale” (IV, 8, 4).

Così l’uomo diventa ‘scisso’, ‘prigioniero’ del corpo che lo limita, lo rende ‘individuo’, non più connesso alle fonti universali dell’Essere.

La coscienza ‘identificandosi’ con i bisogni e le pulsioni del corpo si autolimita, si acceca, diviene infelice perché cerca la felicità nel piacere dei sensi.

Per descrivere tale situazione drammatica, tale involuzione, Plotino cita congiuntamente, non a caso, sia Platone che le più antiche dottrine misteriche:

Allora accade all’anima ciò che è detto di lei, cioè che ‘perdette le ali’ e che ‘cadde nei legami corporei’ (il riferimento è al Fedro di Platone, 246 c) poiché perdette quella innocenza con cui si curava prima di cose più alte e che possedeva presso l’Anima universale; e questo stato anteriore era assolutamente migliore di quello dell’anima che deve risalire verso l’alto. L’anima dopo la sua caduta, è imprigionata e messa in ceppi (chiaro riferimento alla dottrina ‘tradizionale’ del corpo carcere/tomba) ed agisce soltanto per mezzo dei sensi poiché è impedita ad agire, almeno all’inizio, mediante la sola intelligenza. Essa è, come si dice,’nel sepolcro’ e ‘nella caverna’ (è chiaro il riferimento al corrispondente e celebre mito platonico narrato nel VII libro della Repubblica); ma quando si volge al pensare, si libera dalle catene e risale non appena la reminiscenza le abbia offerto l’avvio alla contemplazione dell’Essere: essa infatti conserva sempre un qualcosa che, malgrado tutto, rimane in alto” (Enneadi, IV, 8, 4).

E’ chiara la tesi di Plotino: proprio attraverso l’attività ‘astrattiva’ del pensiero (cioè attraverso la filosofia), cioè quando l’anima ‘si volge al pensare’, l’uomo inizia a liberarsi dalle catene del sensibile. Ciò accade perché l’uomo che ‘pensa’ si concentra tutto nelle sue immagini interiori, per cercare la Verità dubita dei sensi, s’inoltra nella dimensione invisibile del puro pensiero e pertanto comincia, anche se spesso ‘incoscientemente’, a volgere la consapevolezza verso l’interno, cioè a percorrere la giusta strada alla Conoscenza.

Quindi è l’attività ‘razionale’ del logos che lo mette in condizione di poter ‘ricordare’ la sua natura metafisica, ma ciò può accadere perché, pur ‘precipitata’ e ‘imprigionata’ nel mondo materiale, l’anima conserva sempre una parte che ‘rimane in alto’, cioè che è in virtuale (noi oggi diremmo: inconscio) contatto con l’Uno.

Il loghistikόn, se  viene svincolato dal sensibile, quindi ‘purificato’, scopre la sua ‘occulta’ ma constante connessione con l’Uno.

La Materia per Plotino è l’ultimo esito del processo di emanazione dell’Uno e per questo si può definire come ‘privazione’ (ma non ‘totale’) del Bene; è il ‘margine d’ombra al limitare della luce’, ma non è propriamente il ‘male’.

Il Male ontologicamente non esiste perché ciò che esiste è l’Uno ed Esso è il Sommo Bene.

Il male sembrerebbe dunque esistere per Plotino solo nell’errata prospettiva degli enti singoli sottomessi alla legge della nascita e della morte.

Con ciò, tuttavia, bisogna riconoscere che il problema non è risolto poiché, ammesso che non esista ‘ontologicamente’, essendo solo una ‘privazione dell’essere’, si dovrebbe comunque spiegare perché esistano gli enti singoli che proprio per tale singolarità sono condannati alla sofferenza…

In altri termini il problema è solo spostato: si può negare che esista ‘ontologicamente’ ma non certo che esista ‘esistenzialmente’…

E’ lo stesso problema che si porrà di lì a poco il cristiano S. Agostino formulando la celebre domanda: “Si Deus est unde malum?”. Se Dio, Sommo Bene, ha creato il mondo dal nulla – afferma il vescovo d’Ippona – perché lo ha formato così imperfetto e pieno di male fisico e morale?

A tale centrale domanda, sia essa posta da un punto di vista filosofico/emanazionista (come in Plotino) o da un punto di vista religioso/creazionista (come in Agostino, che fa ricorso al mito del peccato originale) non c’è evidentemente una risposta ‘logica’.

Per questo la persona più razionale è quella che, pervenuta consapevolmente ai limiti delle sue possibilità conoscitive, ammette l’esistenza sovrarazionale del Mistero e cerca di procedere verso di Esso con l’intuizione mistica.

Così il corpo dell’uomo ( che con le sue pulsioni – per Plotino – è l’origine del male morale) non è solo ‘materia’ o solo ’male’, né potrebbe mai esserlo perché è ‘abitato’ dall’anima la quale non è solo principio vivificante ma anche, ad un livello superiore, di consapevolezza.

Ancor meglio, si potrebbe dire che l’anima ‘avvolge’ e ‘circonda’ il corpo, per cui non è l’anima ‘dentro il corpo’ ma il corpo ‘dentro un’ anima’ poiché questa ‘ontologicamente’ lo precede nel processo emanativo.

L’anima costituisce un ‘corpo sottile’ che ‘guida’ e ‘plasma’ con istinti, emozioni e pensieri il corpo ‘denso’ fatto dei quattro elementi (per questo le malattie dell’anima possono diventare malattie del corpo come aveva già notato Platone).

Plotino, come il suo Maestro sa bene che l’anima è capace di ‘plasmare il corpo’ infatti nel Carmide Platone scrive:

«Perché, caro Carmide, questo carme non è capace di guarire la testa separatamente; ma come forse anche tu sai per aver udito dei bravi medici se per esempio ci va uno con male agli occhi, gli dicono che non si può cominciare a sanare gli occhi soli, ma che bisognerebbe curare anche la testa se si vuole guarire gli occhi; e dicono ancora che è un’assurdità pensare di curare la testa per se stessa senza tenere conto dell’intero corpo. Così in base a questo ragionamento, cercano di curare e sanare la parte applicando un regime all’intero corpo. [...] Il nostro Zalmosside [lo ‘sciamano’ Zalmoxis che operò nella Grecia arcaica], che è un dio, vuole che come non si deve cominciare a sanare gli occhi senza tenere conto del capo, né il capo senza il corpo, così neppure si deve cominciare a sanare il corpo senza tenere conto dell’anima, anzi questa sarebbe proprio la ragione per cui tante malattie la fan franca ai medici greci, perché essi trascurano il tutto di cui invece dovrebbero prendersi cura, quel tutto che è malato e dunque non può guarire in una parte. In realtà, soggiungeva, ogni cosa, il male o il bene, non irrompe nel corpo e in tutto l’uomo se non dall’anima, dalla quale tutto proviene, come dalla testa proviene tutto ciò che corre agli occhi; così che si deve cominciare a curare soprattutto quella, se si vuole che la testa e le altre parti del corpo stiano bene»(Carmide, 156 d-157 b).

Ma questo corpo che in vita è permeato dall’anima ha il suo destino ineluttabile: la morte che lo dissolve.

Per questo in palese polemica con i cristiani Plotino sottolinea il fatto che se di una ‘’resurrezione’ si deve parlare questa non è quella (come rozzamente può concepirla il volgo) del corpo ma quella dell’anima che sopravvive alla morte e rinasce in un altro mondo:

Il vero risveglio (egrègorsis) è dal corpo (apό sòmatos = letteralmente: lontano dal corpo) e non del corpo (metà sòmatos = letteralmente: in unione ad un corpo)… e la vera ‘resurrezione’ (anástasis – ανάστασις) ha qualcosa di definitivo: non da un corpo solo ma da tutti i corpi” (Enneadi, III, 6, 6).

Per Plotino chi parla di ‘resurrezione dei corpi’ (come i cristiani) confonde i piani dell’Essere.

L’ESTASI E LE TRE VIE DEL RITORNO

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Plotino raffigurato da Raffaello nella Scuola di Atene

Per Plotino l’Uno, Dio, non ha ‘bisogno’ dell’uomo essendo totalmente completo e quindi privo di quella ‘tensione’ che nasce dall’Amore che è desiderio di completezza. Al contrario, noi esseri umani, in quanto ‘imperfetti’ aspiriamo alla infinita Perfezione dell’Uno.

L’Amore è una tensione del finito verso l’Infinito.

Chi prova tale bisogno, ‘sente’ il vivere quaggiù come un ‘esilio’, una ‘perdita d’ali’:

La vita vera – egli dice – è solo lassù, poiché la vita dell’oggi, che è vita senza Dio, è solo un’orma di vita … la vita di lassù genera bellezza, genera giustizia, genera virtù”(Enneadi, VI, 9, 9).

Gli dèi dell’Olimpo che il popolo prega sono figure e simboli di quell’universo metafisico, figure e simboli ‘antropomorfi’ che il filosofo può e deve trascendere.

L’anima deve dunque ‘riconvertirsi’, seguire la via all’in su; per indicare tale ‘conversione’, cioè tale radicale cambiamento del movimento di direzione dell’anima, Plotino usa il termine epistrophè (επιστροφή) che letteralmente significa ‘volgersi indietro’, ‘ritorno’(da επί – στρέφω = verso l’alto ritornare, dunque propriamente ‘risalire’).

La coscienza umana deve quindi progressivamente liberarsi dal suo ‘ordinario’ legame con il corpo e con le passioni che lo ‘abitano’, deve ‘vivere secondo il logos’.

Quando tale processo sarà compiuto l’anima, ‘sublimata’, s’innalzerà intuitivamente alla percezione del mondo spirituale e potrà ricongiungersi ‘amorosamente’ all’Uno attraverso l’estasi, provando la beatitudine suprema.

La Luce di Dio è già dentro l’uomo, è nel principio della sua stessa coscienza, bisogna solo ‘svelarla’.

Plotino condivide con il suo Maestro Platone l’idea che sostanzialmente esistono tre ‘vie’ per ricondurre l’anima all’Uno e che esse corrispondono ai tre ‘ideali’ di vita di ogni essere umano quelli del Bello, del Bene, del Vero.

Questi ‘ideali’ non vanno naturalmente intesi come tre distinte realtà ontologiche ma come tre ‘aspetti’ dell’Uno e dunque hanno solo un valore ‘relazionale’, cioè sono solo ‘modi’ con cui l’uomo percepisce l’Uno e ne viene ‘attratto’, ‘ispirato’. La Realtà suprema di per sé rimane totalmente ‘unitaria’.

A ciascuno di questi ‘aspetti’ corrisponde una via realizzativa o, meglio, un grado del  suo unitario sviluppo.

La via del Bello è quella in cui l’uomo ‘affascinato’ da un aspetto della dimensione sensibile percepisce ‘oscuramente’ la presenza in essa di un qualcosa di più ‘elevato’ che tende ‘anagogicamente’ ad attrarlo verso l’alto.

Il Bello riluce nel mondo come armonia e perfezione di forme ed induce l’Amore in chi lo contempla.

L’uomo stesso attraverso l’Arte può (grazie al suo spirito!) ‘produrre’ Bellezza.

Colui il quale è sensibile al Bello vive in uno stato d’interiore ‘entusiasmo’ ma percorre una via il cui termine ultimo ‘nascosto’ è immateriale e sovraformale poiché nessuna bellezza ‘sensibile’ (soggetta alla imperfezione, al decadimento e alla morte) può del tutto appagare il suo inesausto bisogno metafisico.

La via del Bene è quella delle Virtù, cioè di quei costumi di vita che si manifestano come Bellezza ‘morale’, cioè come Bellezza dell’Anima.

E’ una via più ‘elevata’ di quella del Bello poiché essa è già ‘immateriale’. Lo aveva detto già Platone nel Simposio ammonendo a passare dall’Amore per dei bei corpi all’amore delle belle anime.

Dal piano ‘estetico’, dunque, l’uomo deve innalzarsi al piano ‘etico’ praticando le virtù e svincolandosi, sia pur ancora parzialmente, dal piano della materialità e dai legami passionali alle ‘cose’ materiali.

Si potrebbe così dire che il Bene è in realtà un Bello ‘smaterializzato’, ‘trasfigurato’ grazie ad un processo ascensivo.

Tale valenza ‘interiore’ del Bene (che Plotino sottolinea) non deve far dimenticare che Platone (in un contesto storico ben diverso) ne aveva esaltato anche la valenza ‘esteriore’ giacché esso è il fondamento ‘ideale’ di ogni polis.

Ma l’uomo ‘buono’, il ‘buon cittadino’ sono tali in quanto si comportano nel rispetto di sé e degli altri, dunque la virtù è legata all’ambito ‘pratico’ e non implica di per sé la Conoscenza metafisica a meno che essa non pervenga al grado ‘ascetico’, realizzando una radicale indipendenza dello spirito dal corpo.

Per questo la via più elevata e quella che ‘sussume’ e ‘sublima’ le altre è quella del Vero, la via della Conoscenza, della Filosofia.

A tale ‘livello’ si è del tutto consapevoli dell’origine metafisica del Bello e del Bene poiché si giunge a conoscere per identificazione l’Origine di ogni Bello, di ogni Bene e di ogni Verità.

A tale livello l’uomo è capace di fuggire dalla gabbia del mondo attraverso una condizione particolare dell’anima, l’estasi, e di farsi ‘simile a Dio’.

Svuotandosi dalle ‘cose terrene’ l’anima s’eleva e permette al Principio Primo di ‘manifestarsi’ in lei, di ‘palesare’ la sua ‘presenza’.

 

 

LA VIA DEL BELLO

La percezione intuitiva della Bellezza suscita nell’Anima la forza d’Amore (ed è questo il motivo per cui nell’iconografia il piccolo Eros alato è posto accanto ad Afrodite) ma per  Plotino, come per il suo Maestro fondatore dell’Accademia, l’eros ‘umano’, ‘terrestre’, persino ‘biologico’, ha una sua occulta radice metafisica.

La stessa Bellezza ha una sua radice metafisica.

Il Bello è tale in quanto è forza invisibile che s’impone  alla Materia informe, plasmandola e tanto più riesce in tale opera tanto più essa si manifesta nel suo splendore.

Le cose sono ‘belle’ in quanto ‘partecipano’, ‘imitano’, sono la ‘rivelazione’ di qualcosa di più compiuto, di più ‘perfetto’, di qualcosa insomma che appartiene al mondo invisibile delle ‘idee’.

Per il filosofo egiziano le idee sono ‘forme energetiche’ (enérgheiai), ‘forze’ capaci di plasmare la materia (dynámeis) e nel contempo ‘modelli’ perfetti del reale (lόgoi), potenze attive nel determinare la forma ‘visibile’ delle cose.

Anche nell’uomo l’idea che plasma la materia/ corpo determinandone salute o malattia non è altro che la sua anima.

La Bellezza (la cui ‘visione’provoca nell’uomo i ‘brividi’, cioè la percezione delle energie sottili della sua anima) è la manifestazione della presenza’ dell’Uno persino nell’oscurità della Materia; in tal senso si può definire come l’estrema ‘traccia’ di Dio sulla Terra, oppure come l’unica ‘idea’ visibile.

Il Bello ‘innalzandosi’ diviene (ovvero ‘si manifesta come’) il Bene e, ancor più su, il Vero.

Questa ‘trinità’ estetico-etico-teoretica per cui l’Uno è il Bello in sé, il Bene in sé, il Vero in sé, è il ‘paradigma’ che illustra meglio di tutto la visione del mondo di Plotino.

Proprio per questi motivi la Bellezza che è determinata dalla presenza dell’Uno nella materia può essere il primo gradino del processo ‘ascensivo’ dell’anima che quando è ‘incarnata’ è essa stessa ‘immersa’ nella materia.

Finché si è in tale condizione non ci può essere conoscenza; finché l’anima è legata alle passioni del corpo non c’è né ci può essere conoscenza.

C’è conoscenza quando ci si libera dal corpo, dunque solo nell’uscita, nell’estasi.

La filosofia è un esercizio estatico.

Ma già la contemplazione ‘estetica’ ha un’occulta radice ‘estatica’.

Infatti nella materia c’è ancora un residuo della luce divina e la percezione intuitiva di tale ‘presenza’ determina nell’animo dell’uomo un sentimento di ‘nostalgia’ per il mondo di perfezione da cui proviene; sentimento la cui ‘origine’ però rimane ai più misteriosa, inconscia.

A questa via di ‘ritorno’che è la filosofia stessa fa da guida proprio l’Eros, forza ‘demonica’, dunque intermedia tra il mondo umano e quello divino.

L’iniziato/filosofo, come ha insegnato Platone nel Simposio deve ‘evocare’, ‘alimentare’, ‘sublimare’ l’Eros.

Esso si ‘nutre’ dell’immagini ‘fisiche’ del Bello ma poi per sua intima forza le trascende ‘volando’ verso la dimensione beatifica del Bello spirituale ed universale, il quale non esclude il bello ‘particolare’ e ‘materiale’ ma totalmente lo include essendone l’Origine.

L’uomo che ‘ama’, ama in realtà la bellezza ‘presente’ in un ente, dunque l’ ’universale’ nel ‘particolare’, lo ‘spirituale’ nel ‘materiale’, e con ciò riconosce in termini ontologici che ogni ‘singolarità’ è aspetto parziale di una Realtà onnicomprensiva che è ‘suprema’ e ‘totale’ Bellezza, insomma la ‘Bellezza in sé’, ‘pura’, ‘immortale’.

Tale Realtà (‘incontaminata’ dalla materia che irriducibilmente la limita e deforma) è al di là dello spazio e del tempo, non soggetta allo strazio della decadenza e dell’annientamento.

La Bellezza, l’Amore, l’Arte ci ‘eternizzano’ e non solo nella memoria di chi ci sopravvive ma anche nella trasfigurazione ‘ontologica’ dell’anima che esse operano rendendola degna nell’al di là del mondo degli dei.

Se il Bello non è nelle singole cose se non in modo molto parziale ci si deve allora ‘allenare’ a vederlo in tutte e oltre di esse.

Ogni cosa bella è tale in quanto si concretizza in essa la perfezione di una ‘idea’, per questo il filosofo dice che l’idea è “ciò che si percepisce nei corpi quando unisce e domina la natura (vale a dire: la materia) informe”, per cui si può anche dire che “la semplice bellezza è dovuta ad una forma che domina l’oscurità della materia e alla presenza di una luce incorporea che è ragione ed idea” (Enn., I, 6, 3).

Plotino condivide in pieno la teoria del maestro Platone circa i diversi livelli dell’Eros a cui corrispondono diversi gradi ontologici della Bellezza, da quello empirico/individuale a quello del tutto spirituale/universale della Bellezza in sé, così come esposta nel Simposio.

Platone stesso attribuisce tale dottrina alla tradizione iniziatica poiché la fa esporre a Socrate da Diotima, una sacerdotessa dei culti misterici:

Chi inizia il cammino (iniziatico-amoroso) che può portarlo al fine ultimo, sin da giovane deve essere attento alla bellezza fisica. In primo luogo, se chi lo dirige sa indirizzarlo sulla giusta strada, si innamorerà di una sola persona e troverà con lei le parole per i dialoghi più belli. Poi si accorgerà che la bellezza sensibile della persona che ama è sorella della bellezza di tutte le altre persone: se si deve ricercare la bellezza che è propria delle forme sensibili, non si può non capire che essa è una sola, identica per tutti. Capito questo, imparerà a innamorarsi della bellezza di tutte le persone belle e a frenare il suo amore per una sola: dovrà imparare a non valutare molto questa prima forma dell’amore, a giudicarla di minor valore. Poi, imparerà a innamorarsi della bellezza delle anime piuttosto che della bellezza sensibile: a desiderare una persona per la sua anima bella, anche se non è fisicamente attraente. Con lei nasceranno discorsi così belli che potranno elevare i giovani che li ascoltano. E giunto a questo punto, potrà imparare a riconoscere la bellezza in quel che fanno gli uomini e nelle leggi: scoprirà che essa è sempre simile a se stessa, e così la bellezza dei corpi gli apparirà ben piccola al confronto. Dalle azioni degli uomini, poi, sarà portato allo studio delle scienze, per coglierne la bellezza, gli occhi fissi sull’immenso spazio su cui essa domina. Cesserà allora di innamorarsi della bellezza di un solo genere, d’una sola persona o di una sola azione – una forma d’amore che lo lascia ancora schiavo – e rinuncerà così alle limitazioni che lo avviliscono e lo impoveriscono. Orientato ormai verso l’infinito universo della bellezza, che ha imparato a contemplare, le sue parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che dà l’amore per il sapere. Finché, reso forte e grande per il cammino compiuto, giungerà al punto da fissare i suoi occhi sulla scienza stessa della bellezza perfetta”. (210a-210d)

Lo stesso Plotino, secondo la testimonianza di Porfirio, pervenne personalmente all’estasi proprio sublimando ‘misticamente’ la forza d’Amore:

E così, seguendo la strada indicata da Platone nel Simposio, gli apparve quel Dio che non ha Figura né Forma, ma domina sull’Intelligenza e su tutto l’intelligibile. Per il vero, anch’io, Porfirio, posso affermare di essermi avvicinato ed unito a Lui una volta sola, e ora ho sessantotto anni. A Plotino, dunque, apparve e si pose vicino il Fine”. (Porfirio, Vita di Plotino, 23, 9-14)

Per Plotino la coscienza umana riesce a cogliere attraverso il Bello qualcosa che le è affine:

“La bellezza dei corpi è’ una qualità che diventa sensibile sin dalla prima impressione; attraverso l’intuizione l’anima la percepisce, la riconosce e l’accoglie in sé, plasmandosi in qualche modo su di essa. Quando invece ha l’intuizione di una cosa brutta, l’anima si agita e la rifiuta, respingendola come cosa che non si accorda con lei e che le è estranea.

Ora, noi affermiamo che l’anima, per sua natura, è affine all’essenza delle realtà superiori ed è lieta contemplando gli esseri della sua stessa natura, o almeno le loro tracce; attratta dalla loro vista, le rapporta a se stessa e sale così al ricordo di sé e di ciò che le appartiene.

Ebbene, quale somiglianza può esservi tra le cose di quaggiù e quelle superiori? Se c’è somiglianza, deve essere possibile osservarla. Per quanto riguarda la bellezza, qual è la natura delle une e delle altre? La nostra tesi è che le cose sensibili sono belle perché partecipano di un’idea. Infatti, tutto ciò che è destinato a ricevere una forma e un’idea, ma non l’ha ancora, è privo di qualsiasi bellezza ed è estraneo alla ragione divina, perché non partecipa né della sua razionalità né della sua forma: è il brutto in assoluto. Ma brutto è persino tutto ciò che è sé dominato dalla forma e dalla ragione, ma non perfettamente: e questo accade perché la materia non può essere plasmata in modo perfetto secondo un’idea, ricevendo così la forma.

Dunque l’idea si avvicina alla materia e pone ordine tra le parti multiple, di cui una cosa è fatta, combinandole insieme. L’idea le riconduce a un tutto ordinato, e crea l’unità accordandole loro, perché essa stessa è una, e l’essere che prende da lei la forma deve dunque essere uno, almeno nei limiti in cui può esserlo una cosa composta da molte parti.

La bellezza prende così dimora in questo essere, così ricondotto a unità, ed essa si dà sia a tutte le sue singole parti sia all’insieme. Quando poi la bellezza prende dimora in un essere che è già uno ed omogeneo, allora essa splende interamente: è come se la potenza della natura, procedendo come fa l’uomo attraverso l’arte, donasse la bellezza, nel primo caso, a una casa tutta intera con tutte le sue parti, nel secondo caso a una sola pietra. Così la bellezza del corpo deriva dalla partecipazione alla razionalità che proviene da Dio. ”. (Enneadi, I, 6, 2)

 

La bellezza è dunque il ‘segno’ della ‘potenza invisibile’ che ‘plasma’ la materia creando in essa armonia ed equilibrio nel tentativo di avvicinarla alla perfezione ‘ideale’ ma poiché anche l’anima viene da quel mondo iperuranio essa prova una spontanea ‘affinità’ con essa ed è capace di ‘riconoscerla’ per via di una consonanza metafisica.

L’uomo attraverso la bellezza comincia a ricordare (è il tema platonico ma anche misterico della ‘reminiscenza’) la sua origine: “La facoltà (dynamis) dell’anima – dice il filosofo – che corrisponde a questa bellezza, la riconosce” (Enn., I, 6, 3).

Questa esperienza è propedeutica ad altre più elevate:

Cos’è dunque questa bellezza presente nei corpi? Questo dovremo indagare anzitutto. Cos’è dunque ciò che muove lo sguardo degli spettatori, lo attrae a sé e suscita la gioia della contemplazione? Se noi scopriremo ciò, potremo forse servircene come di un gradino [così le correnti traduzioni, ma il termine epibáthra significa propriamente: base, mezzo di passaggio, mezzo di accesso, oltre che ‘scala’] per contemplare le altre bellezze” (Enn., I, 6, 1).

Ma la bellezza ‘fisica’ non deve ‘imprigionare’ l’anima.

Esistono bellezze di ordine più elevato e che danno allo spirito gioie sublimi:

Riguardo alle bellezze più elevate che la sensazione non può percepire e che solo l’anima vede e giudica senza gli organi sensoriali, è necessario che noi risaliamo più in su e le contempliamo abbandonando in basso la sensazione. Queste, è necessario che un’anima sia capace di contemplarle: coloro che le vedono provano una gioia, uno stupore, un sussulto ben maggiore che nel caso precedente, perché essi toccano allora delle realtà. Queste sono infatti le emozioni che devono sorgere al contatto con ciò che è bello: lo stupore, la meraviglia gioiosa, il desiderio, l’amore ed un sussulto accompagnato da piacere. Ma è possibile provare queste emozioni – e l’anima infatti le prova – anche riguardo alle cose invisibili; ogni anima, per così dire, le prova, ma specialmente quella che è innamorata; così pure, tutti vedono la bellezza dei corpi, ma non tutti ne sentono egualmente l’assillo, bensì quelli che son detti amanti.  Bisogna anche sapere quali sono gli effetti dell’amore per le cose non sensibili. Che cosa vi fanno provare le belle occupazioni, i bei caratteri, i costumi temperanti e, in generale, le azioni e le disposizioni virtuose e la bellezza dell’anima?  E che provate quando vi vedete interiormente belli? E perché voi ‘folleggiate’ e siete emozionati e bramate d’essere con voi stessi raccogliendovi fuori del corpo?   Questo provano infatti i veri amanti. E per quale cosa lo provano? Non per una forma, per un colore, per una grandezza, ma per l’anima che è senza colore e possiede in sé l’invisibile temperanza e lo splendore delle altre virtù; lo provate quando vedete in voi stessi o contemplate in altri la grandezza dello spirito, un carattere giusto, la purezza dei sentimenti, il coraggio su un viso nobile, la gravità, quel rispetto di sé che si diffonde in un’anima calma, serena ed impassibile e sopra tutto l’irraggiare dell’intelligenza di essenza divina…”(Enn., I, 6, 4).

 

Plotino sottolinea con forza il concetto che il Bello ed il Buono siano tali perché hanno una comune origine metafisica e sono sostanzialemnte la stessa cosa con la sola differenza che il bello è connesso alla dimensione fisica della percezione sensibile ed il buono alla dimensione invisibile della condotta morale, propria, appunto, dell’anima ‘bella’.

Per questo è molto significativo ed appropriato il riferimento che egli fa in tale contesto (come già il suo maestro Platone) ai Misteri:

Abbiamo dunque ragione di dire che la bruttezza dell’anima deriva da questo mescolarsi impuro con il corpo e dalle inclinazioni verso la materia. La bruttezza per l’anima è il non essere in sé pura, come per l’oro è di essere mescolato a terra: se si toglie questa terra, l’oro rimane ed è bello perché depurato dalle scorie di altre materie e puro in se stesso. Nello stesso modo, isolata dai desideri che provengono dal corpo, con cui essa aveva legami troppo stretti, liberata dalle altre passioni, purificata da tutte le scorie della materia, l’anima rimane pura in se stessa, deposte tutte le brutte impurità che le provenivano da una natura diversa dalla sua.

E’ proprio come dice un vecchio detto: la temperanza, il coraggio, tutte le virtù e la prudenza stessa sono delle purificazioni. E’ per questo che gli iniziati ai Misteri dicono con parole velate che l’anima non purificata persino nell’Ade vivrà in un pantano, perché l’essere impuro ama il fango a causa dei suoi vizi, come i porci il cui corpo è impuro.

In che consisterà dunque la vera temperanza se non nel non unirsi ai piaceri del corpo, ma a fuggirli come impuri? Essi non permettono all’anima di rimanere pura. Il coraggio consisterà nel non temere la morte. Ora la morte è la separazione dell’anima dal corpo. Non temerà questa separazione quell’anima che è vissuta isolata dal corpo. La grandezza d’animo nasce dal disprezzo delle cose che passano. La prudenza è il pensiero stesso che si allontana da tutto ciò che passa e conduce l’anima verso l’alto.

L’anima, una volta purificata, diviene dunque una pura forma, pura razionalità. Essa diviene pura realtà intellettuale, liberata da ogni scoria di materia. Così appartiene interamente alla sfera di ciò che è divino, là dove è la sorgente della bellezza: da lì, infatti, proviene tutto ciò che è bello. Dunque l’anima restituita alla pura intelleggibilità torna ad essere bella. Ma l’intelligenza e ciò che ne deriva è per l’anima una bellezza propria e non le deriva dall’esterno, perché l’anima pura è adesso realmente se stessa.

Per questo si dice – e con ragione – che il bene e la bellezza dell’anima consistono nel rendersi simile a Dio, perché da Dio deriva la bellezza e tutto ciò che costituisce l’essenza della vera realtà. Ma la bellezza è realtà autentica, la bruttezza è una natura differente da questa realtà. La bruttezza e il male, quanto alla loro origine, sono la stessa cosa, così come sono la stessa cosa il buono e il bello (tautòn agathόn te kaì kalόn). Il bene e la bellezza si identificano (tagathόn te kaì kallonè). (Enneadi, I, 6, 5-6)

La conseguenza di tale concezione è che il passaggio dalla percezione del bello ‘esterno’ a quella del bello ‘interno’ può avvenire solo attraverso una costante ed operosa attenzione alla vita interiore, poiché è sempre valido il principio per cui il simile conosce il simile e la stessa Conoscenza metafisica può appartenere solo ad un’anima purificata:

 “Ma come si può vedere la bellezza dell’anima buona che ha in sé la bellezza? Ritorna in te stesso e guarda (ánaghe epì sautòn kaì íde = letteralmente: vai in alto dentro di te e fissa lì la tua attenzione): se non ti vedi ancora interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventare bella: egli toglie, raschia, liscia, ripulisce, finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non cessare di scolpire la tua propria statua, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù  e tu  non veda la temperanza sedere su di un trono sacro.  Se tu sei diventato ciò, se tu vedi tutto questo, se pura sarà la tua interiorità, e tu non avrai alcun ostacolo alla tua unificazione e nulla che sia mescolato interiormente con te stesso, se tu sei diventato completamente una luce vera, non una luce di grandezza e di forma misurabile che può diminuire  o aumentare indefinitamente, ma una luce del tutto senza misura, perché superiore a ogni misura e a ogni qualità, se ti vedi in questo modo, tu sei diventato ormai una potenza veggente e puoi confidare in te stesso; anche rimanendo quaggiù tu sei salito né hai più bisogno di chi ti guidi; fissa lo sguardo e guarda: questo soltanto è l’occhio che vede la grande bellezza… L’occhio non vedrebbe mai il sole se non fosse già simile al sole, né un’anima vedrebbe il bello se non fosse bella. Ognuno dunque diventi anzitutto divino e bello, se vuole contemplare Dio e la Bellezza” (Enn., I, 6, 9).    

         

 

LA VIA DEL BENE

 Se il Bello ci affascina e ci ammalia è pur sempre per noi espresso ed ‘incarnato’ da una ‘forma’ concreta ed individuale e dunque il ‘pericolo’ insito in esso è che il ‘piacere sottile’ che determina possa non ‘innalzarsi’ – come dovrebbe – al mondo delle pure forme ideali ma ‘de-cadere’ e ‘de-gradarsi’ al livello del piacere ‘cieco’, passionale e belluino.

Consapevole di tutto ciò il filosofo deve ‘spogliarsi’ dall’attaccamento alle forme ‘concrete’ e dal ‘desiderio’ di esse, dalla ‘brama’ radicale del corpo che vuole procurasi la felicità ‘possedendo’ una qualche realtà particolare.

L’illusiorietà della identificazione tra felicità e piacere è un tema ben noto anche all’intera tradizione spirituale orientale, soprattutto a quella buddista.

Sia in Oriente che in Occidente la via dell’ascesi è la via di un processo di ‘disidentificazione’ della coscienza dal corpo/materia perché si ritiene che questo è la radice dell’io ordinario e per ciò stesso soggetto al medesimo destino dissolutivo del corpo.

Costruire già in vita un io non più ‘dipendente’ dal corpo è considerata l’unica via possibile per ‘immortalizzarlo’: a ciò serve l’esercizio  purificatorio delle virtù.

Per questo ci si deve ‘esercitare’ (non solo ‘mentalmente’, cioè ‘astrattamente’, ‘immaginativamente’) a creare una ‘distanza’ tra la coscienza ed il mondo ‘esterno’.

Il saggio è ‘impassibile’ e ciò vuol dire che il suo ‘io’ è altrove, radicato in una dimensione metafisica.

Per tutto ciò è necessario operare interiormente una ‘catarsi’ delle passioni (sublimandole) e dalle passioni (liberandosene) disciplinando la vita del nostro stesso corpo.

Il principio, la facoltà attraverso cui raggiungiamo questo fine non può che essere la ‘ragione’ intesa sia come coscienza che come capacità di autocontrollo.

Così si può comprendere appieno il precetto plotiniano di ‘spogliarsi di tutto’, di ‘fare il vuoto’ nell’anima, perché solo quando essa non è più ‘piena’ delle cose materiali riesce a creare lo spazio interiore affinché  la luce dell’Uno la illumini.

Il Tutto (l’Uno) ti si fa presente – dice Plotino – quando hai eliminato [dalla tua coscienza e dalla tua vita] le altre cose, ma a chi resta con le altre cose, Esso non si manifesta”.

 

Ma sempre nello stesso passo il filosofo precisa che Dio è costantemente presente nell’anima dell’uomo, nel suo ‘fondo’ ed è ‘assente’ solo perché ci volgiamo, mossi da brame, verso le cose concrete; in tal modo, cioè quando ci comportiamo in maniera non virtuosa, il contatto con l’Uno rimane ‘inconscio’ e solo ‘potenziale’:

“Egli però non è ‘venuto’ per starti vicino, ma sei tu che te ne vai quando Egli non ti è presente. E se tu te ne sei andato, non sei in realtà andato via da Lui, poiché Egli è sempre presente “ (Enn. VI, 5, 12).

Nessuna coscienza può ‘allontanarsi’ dalla sua Origine (e dove potrebbe andare?) ma può esserne, per così dire, solo ‘scollegata’.

Nel primo libro sottolinea con forza tale concetto:

La nostra patria è quella donde veniamo e lassù è il nostro Padre. Che cosa sono dunque questo ‘viaggio’ e questa ‘fuga’? Non coi piedi bisogna farlo, perché i nostri piedi ci portano sempre di terra in terra; neppure c’è bisogno di preparare cocchi o navigli, ma è necessario staccarsi da queste cose e non guardare più <le cose sensibili>, ma mutando la vista corporea con un’altra, ridestare quella facoltà che ognuno possiede ma che pochi adoperano [il filosofo usa il verbo anegheiro che significa propriamente ‘ridestarsi’, per cui la sua dottrina è come quella del Buddha una ‘via del risveglio’] (Enn., I, 6, 8).

La ‘conoscenza di Dio’ pertanto non è il dono ‘gratuito’ di una Grazia che viene dall’esterno e che dipende dall’arbitrio di una qualche divinità antropomorfa e che l’uomo non può comunque ‘meritare’ (come sosterranno i cristiani) ma è il frutto di un’ascesi che l’uomo volontariamente e deliberatamente può porre in atto con il semplice cercare la verità in se stesso e (il che è la stessa cosa) al di là del mondo sensibile.

La pratica filosofica delle virtù è condizione ma anche ‘segno’ di tale giusto orientamento.

Alla conoscenza ineffabile dell’estasi predispone dunque la vita morale, intrinsecamente ‘catartica’, la quale però ha due livelli: quello ‘inferiore’ che consiste in una pratica ancora parziale delle virtù che in tal senso vengono definite dal filosofo ‘civili’ in quanto esse nel buon cittadino si esprimono attraverso un ragionevole compromesso tra le istanze del corpo e quelle dello spirito (per cui a tale livello l’uomo acquisisce la capacità di dare alle passioni un limite ed una misura) ed uno più ‘alto’, quello in cui ci si rende del tutto indipendenti dai bisogni del corpo e dal dominio della materia.

Il saggio, insomma, realizza già in vita quella indipendenza dello spirito che gli appartiene strutturalmente non appena ritrovi la sua essenza ‘dimenticata’ col suo scendere nel mondo illusorio e doloroso della materia in cui vige la legge della Necessità.

La vita morale consiste, quindi, nel farsi guidare nell’agire dalla ‘pura’, trascendente ragione:

Quando l’anima è senza il corpo, essa è del tutto padrona di sé, libera e fuori della causalità cosmica; quando è stata gettata in un corpo [come in un carcere!], essa non è più padrona di sé completamente perché posta tra esseri diversi (da essa). Gli eventi fortuiti conducono nel loro giro tutti i molteplici esseri in mezzo ai quali è caduta, sicché essa ora agisce passivamente sotto quelle influenze, ora invece le domina e le conduce ove vuole. La parte superiore dell’anima comanda di più, quella inferiore di meno. Quest’ultima infatti obbedisce al temperamento fisico ed è costretta a desiderare, ad adirarsi, ad essere avvilita nella povertà, orgogliosa nella ricchezza e tirannica nell’esercitare il potere. Quella superiore invece, che ha una natura buona, resiste nelle stesse circostanze, modifica le cose piuttosto che essere modificata, cosicché ne muta alcune, altre ne tollera, ma senza peccare… Quando l’anima, modificata dalle cose esterne, agisce come sotto l’impulso di un movimento cieco, né l’azione né la disposizione sue si devono chiamare [propriamente] volontarie; similmente avviene quando essa peggiora spontaneamente in quanto non segue sempre i suoi impulsi retti ed essenziali. Ma quando essa, nel suo impulso, prende come guida la sua propria ragione pura e impassibile, soltanto allora si deve dire che quell’impulso dipende da noi, che è volontario ed è opera nostra, che esso non viene  da altro luogo se non dall’interno dell’anima pura, dal principio primo dominatore e signore, non da un’anima sviata dall’ignoranza, prostrata dalla violenza dei desideri che sopraggiungendo la conducono, la trascinano e non permettono più che in noi ci siano azioni (erga) ma solo passioni (pathemata).[1]

Pervenuto al livello ‘ascetico’ delle virtù, totalmente guidato nel suo agire da una ragione che aspira al Bene, il saggio sa trascendere radicalmente la forza attrattiva della materialità che disperde la mente nel dominio della molteplicità e le causa l’oblio della sua vera natura.

Per contro, una mente pacificata, ‘unificata’, cioè ‘concentrata in se stessa’ non vaga più compulsivamente da un pensiero ad un altro, da una passione ad un’altra.

Dominare le passioni, acquisire una ‘libertà interiore’ significa, quindi, anche padroneggiare il flusso della coscienza, divenirne ‘signori’ perché i pensieri nascono dalle passioni e si alimentano di esse.

La mente va dove le brame, i desideri, i timori, le ansie, insomma il nostro pathos la dirige (con linguaggio moderno, psicanalitico, si potrebbe dire che l’Es, l’inconscio muove ‘occultamente’ l’ego ed è la sorgente delle nostre ‘automatiche’ associazioni mentali).

Per questo non può esistere un nostro pensiero ‘libero’ fintantoché esso è ‘vincolato’ o semplicemente ‘condizionato’ dalle ‘passioni’.

Dunque le virtù ‘politiche’, quelle necessarie al vivere in una polis, cioè le virtù ‘civili’,  riescono a moderare, correggere, armonizzare attraverso la ragione le passioni ma non le estinguono.

Le virtù ‘superiori’ non sono altro che quelle ‘politiche’ ma portate ad una grado più elevato  tale da consentire la esperienza mistica del distacco della coscienza dal corpo/materia e dal disperdente flusso coscienziale.

A tal proposito Plotino cita ancora il suo Maestro:

Platone dice che la rassomiglianza con Dio (tèn homόiosin pros tòn theòn) consiste nella fuga da questo mondo, ed alle virtù che riguardano la vita politica dà il nome non di virtù semplicemente, ma di virtù ‘civili’ ( politikàs) e chiama ‘purificazioni’ tutte le virtù: evidentemente egli ammette così due generi di virtù e non pone per quelle ‘politiche’ la finalità della rassomiglianza con Dio. In che senso diciamo dunque che sono ‘purificazioni’ e che soprattutto mediante la purificazione diventiamo ‘simili a Dio’?  Perché l’anima è cattiva finché è mescolata al corpo, simpatizza con esso e giudica ogni cosa d’accordo con esso [il riferimento è al Fedone: 82 A 11; 66 B 5; 69 C 1; 83 D 7]; mentre essa è buona e possiede la virtù se non opina più in accordo con quello ma agisce sola, e per questo acquisisce la virtù della saggezza, della prudenza [nel testo compaiono i verbi ‘voein’, che indica la capacità di ‘pensare’ e ‘fronéin’ che indica la capacità di ben deliberare le proprie azioni]. Similmente la virtù della temperanza (sofronéin – sofrosyne) consiste nel non simpatizzare più con il corpo (omopathès ghinoméne tò sòmati = letteralmente: provare le stesse passioni del corpo); altrettanto si può dire per la virtù del coraggio (andrίzesthai = letteralmente la virtù dell’uomo ‘maschio’, ‘virile’) che consiste nel non temere il distacco dal corpo; quando la ragione e lo spirito (lógos kaì nous) dominano incontrastati ecco la giustizia (dikaiosyne) [per noi è interessante la distinzione tra lógos e nous che evidentemente riprende quella tra diánoia e nous, tra il livello ‘razionale/dialettico’ della coscienza e quello più elevato definibile come ‘intuitivo/metafisico’]. L’anima coglie così la dimensione spirituale ed è priva di passioni, quando si trova in questa disposizione che può essere detta, senza tema d’errare, la ‘rassomiglianza con Dio’; puro è infatti l’essere divino e così anche la sua potenza (enérgheia), conseguentemente chi lo imita possiede la saggezza” (Enn., I, 2, 3).

L’ideale per Plotino non è, quindi, semplicemente quello dell’uomo ‘buono’ ma quello più elevato dell’uomo che si ‘divinizza’:

Nessuna delle tendenze naturali è di per sé peccato (amartίa), poiché all’uomo inerisce una sostanziale rettitudine; in realtà lo sforzo che deve compiere non è quello di essere fuori di ogni peccato (exo amartίas) ma di essere un dio (theòn einai)” (Enn., I, 2, 6).

 

Il saggio (spoudaios) sa elevarsi al di sopra delle comuni virtù civili:

”Arrivato ai princípi e alle norme superiori, agirà secondo queste, non col riporre la sua temperanza nel limitare i desideri, ma coll’isolarsi completamente [dai bisogni del corpo] (ólos chorízon), per quanto possibile

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; egli non vive più la vita dell’uomo dabbene, come esige la virtù civile (è politikè aretè), ma la abbandona scegliendone un’altra, quella degli dèi, infatti bisogna coltivare la homoiosis (somiglianza) rispetto agli dèi e non agli uomini” (Enn., I, 2, 7).

Il saggio comprende chela purificazione consiste nell’isolare l’anima affinché non si unisca  ad altro e non guardi ad altro e non abbia più idee che si riferiscano ad altre realtà, qualunque sia la forma delle idee o delle passioni, come s’è detto, né si volga ad immagini interiori (eidola), né con esse si procuri delle passioni” (Enn., III, 6, 5).

Per il filosofo, dunque, l’isolamento dell’anima non implica solo la capacità di distaccarsi dalla diretta percezione di realtà sensibili capaci di suscitare passioni, ma anche quella di separarsi dalle immagini interiori (fantasie, ricordi) capaci di suscitarle.

A tal fine bisogna, a suo parere, spostare la coscienza ‘dal basso’ (del corpo) verso  ‘l’alto’ ( è il processo di sublimazione delle energie psichiche ben noto alla fisiologia mistica indiana e non solo…):

Come non potrà <tale prassi interiore> dirsi catarsi se la coscienza procede dal basso verso l’alto?” (Enn., III, 6, 5).

Per questo Plotino ricorda che il suo maestro Platone riferiva la capacità più elevata dello spirito umano alla ‘sommità del capo’, alla ‘testa’ (Timeo, 90 A 5); tuttavia da un punto di vista metafisico è l’anima che avvolge il corpo come principio dinamico e coscienziale:

Non bisogna cercare un luogo in cui collocare l’anima, ma dobbiamo collocarla fuori di qualsiasi spazio…perciò si è detto che il dio avvolse l’universo nell’Anima ‘anche al di fuori’ per accennare a quella parte dell’anima che rimane nel mondo intelligibile; quanto a noi, invece, Platone dice in enigma ‘sulla sommità’, ‘nella testa’” (Enn., V, 1, 10).

Per Plotino, dunque, se si praticano le virtù in un grado ‘eroico’ (come direbbero i cristiani) l’anima segue un processo ‘ascensionale’ assecondando una sua profonda e ‘connaturata’ aspirazione metafisica; diventa ‘divina’ e poiché ‘il simile conosce il simile’, essa ‘purificata’ potrà ‘vedere’ lo Spirito, l’Uno da cui proviene.

 

 

LA VIA DEL VERO

 

Se l’essenza delle virtù consiste nell’allontanarsi (secondo diversi ‘gradi’) dai condizionamenti, dalla potenza attrattiva e dalle limitazioni del corpo in che cosa consisterà propriamente l’esercizio della filosofia?

Per Plotino, come per Platone, essa è essenzialmente ‘dialettica’, cioè l’insieme di quei processi logici con cui si cerca di raggiungere il vero: per questo il filosofo egiziano la definisce “la parte più nobile della filosofia”.[2]

L’arte dialettica (è dialektikè téchne) procede da verità/enti particolari a verità/enti sempre più universali attraverso l’analisi di concetti antiteci o diversi, ma quello che interessa a Plotino (il che sostanzialmente non è stato compreso dagli studiosi moderni del suo pensiero) non è quel procedere conoscitivo quanto quello che esso significa ed implica ‘operativamente’ oltre che ‘sottilmente’ nella relazione ‘ontologica’ tra coscienza e corpo.

Per lui la dialettica, con la sua prassi dell’astrazione concettuale, della connessione logica, della ricerca dei principi primi comporta un necessario allontanamento dal mondo della semplice percezione sensibile e dunque dal corpo.

Chi si ‘concentra’, chi ‘ragiona’, chi opera connessioni concettuali compie tali operazioni ‘all’interno del suo spirito’ e per tutto il tempo in cui ‘riflette’ si separa dal mondo della sensibilità, sconnette la sua coscienza dal corpo, si volge verso la sua interiorità.

La persona è tanto più ‘sapiente’ e tanto più ‘saggia’ quanto più è capace di concentrarsi, di isolarsi rispetto ad un’attività semplicemente empirico/istintiva che è quella prevalente nella maggior parte degli uomini.

L’attività del pensiero, l’esercizio sistematico del pensiero, la pratica della filosofia purificano l’anima perché essa si abitua a ‘sussistere’ pur sconnessa dal corpo cioè in una condizione che dovrà affrontare comunque dopo la morte.

Per lui, come per il Platone del Fedone, la filosofia è un esercizio di morte e la dialettica è per questo motivo un processo intrinsecamente mistico.

La dialettica è dunque la ‘via regia’ alla conoscenza estatica dell’Uno, è la ‘via diretta’ in quanto dipende dall’esercizio tutto interiore della consapevolezza.[3]

Non più, quindi, la via che cerca l’Uno, per così dire, ‘dall’esterno’, cioè a partire da forme sensibili in cui traluce l’Uno come Bello o da una vita virtuosa in cui si manifesta l’Uno come Bene, ma quella che – sin dall’inizio – cerca l’Uno lì dove propriamente si cela, vale a dire nella stessa attività della coscienza di colui che cerca.

Significativamente Plotino ispirandosi all’antica sapienza di Delfi che si esprimeva nel motto: ‘Conosci te stesso’ e al Protagora di Platone (343 B), indicò la prassi dell’introspezione intuitiva:

Iniziando questa ricerca noi obbediamo al precetto del dio che ci comanda di conoscere noi stessi. Se vogliamo cercare e trovare ogni altra cosa, è giusto che ricerchiamo chi è colui che ricerca: desiderando così di cogliere l’amorosa visione delle cose supreme”(Enneadi, IV, 3, 1, 1).

Il termine ultimo della ricerca dialettica fintanto che rimane nell’ambito proprio non può essere altro che il concetto, dunque la ‘rappresentazione’ della Realtà come onnicomprensiva ‘Unità’ ma giunta a tale meta non può più procedere oltre e per questo si acquieta nella constatazione del Mistero.

L’anima a tal punto se cerca ancora la Verità, cioè l’Uno, capisce che deve farne diretta esperienza e la cerca senza concetti, facendo tacere ormai la mente ma mantenendo sempre attiva la sua ‘sete’ di conoscenza e di felicità.

Così avviene il passaggio per il quale la dialettica si tramuta, si ‘sublima’ in contemplazione in theoria, parola che, lo si ricordi, significa letteralmente ‘visione di Dio’.

In tale condizione non si pensa più, semplicemente si è.

Dalla dianoia si è passati al nous.

Si è una ‘presenza’; in tale condizione lo spirito umano manifesta la sua ‘divinità’ poiché la presenza di Dio nell’anima è la presenza dell’anima a se stessa.

Lo stesso suo maestro Platone aveva indicato la via per arrivare alla sapienza, alla sofia, proprio nel coltivare una coscienza svincolata dal corpo e volta su se stessa:

In particolare nel dialogo intitolato Fedone egli aveva affermato che con tale prassi si opera una ‘catarsi’ che è “la stessa dell’antica dottrina (chiaro riferimento alla sapienza misterica orfico-pitagorica)  che consiste appunto nel separare (to chorizein) il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla (ethisai; ciò presuppone una costante prassi meditativa) a raccogliersi (sunagheiresthai; vale a dire ‘concentrarsi’) e a restare sola in se stessa (athroizesthai kath’auten; la‘ricerca del Sé’!) e a rimanere per il tempo presente (nella vita ‘terrena) e futuro (dopo la morte) sola in se medesima (oikein katà to dunatòn), sciolta dal corpo come da catene”.[4]

 

In un altro passo dello stesso dialogo è altrettanto chiara la natura di quel processo attraverso cui l’anima s’innalza al sovrasensibile:

Quando l’anima contempla se stessa (kath’autèn skopè: letteralmente ‘guarda in direzione di se stessa’) si muove verso là (ekeise oichetai), verso  ciò che è puro (katharon), eterno ed immortale”(aei on kai athanaton) e che non ha mutazioni e avendo natura affine a quello (synghenès; c’è dunque una consonanza sostanziale tra lo spirito umano e quello di Dio), rimane sempre con quello ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola (otanper autè katrh’autèn ghenetai)… e questo stato dell’anima (to pathema) si chiama ‘sapienza’ (frόnesis, sinonimo di sofίa)”.[5]

Anche per il filosofo ateniese bisogna dunque allenarsi a svincolare l’anima dalla sua abituale connessione col corpo: in questo consiste la pratica mistica.

Questa prassi caratterizzò l’Accademia platonica e, di conseguenza, anche il neoplatonismo dell’età tardo-antica.

Prova ne è una stupenda pagina delle Enneadi in cui Plotino parla della sua personale esperienza illuminativa conseguita appunto separando la coscienza dal corpo.

Per lui finché l’anima è legata ad esso, pur trovandosi nel cosiddetto ‘stato di veglia’, è come immersa nell’incoscienza di un qualche altro tipo di sonno da cui bisogna ‘risvegliarsi’.

Per lui, come per il Buddha, l’illuminazione è un ‘risveglio’:

Spesso – egli diceridestandomi dal mio corpo a me stesso, eccomi diventato estraneo a tutto il resto e intimo solo a me stesso (emautou de eiso), contemplo allora una bellezza meravigliosa e sono sicuro di appartenere in sommo grado al mondo superiore; ho vissuto la più nobile forma di vita, sono diventato identico al divino, mi sono basato sul suo fondamento, sono pervenuto a quella suprema forma di attività e mi sono stabilito al di sopra di ogni altra realtà spirituale; quando, dopo questa quiete in seno al divino, ricado da quella consapevolezza (ek nou) al ragionamento (eis loghismon), mi domando come abbia potuto mai, e ora di nuovo, scendere così, come la mia anima abbia potuto entrare all’interno di un corpo se già quando si trova all’interno di un corpo è quale ella mi è apparsa” (Enneadi, IV, 8, 1, 1-11).

Da sottolineare in tale brano la distinzione netta che Plotino pone tra la consapevolezza del Nous che è artefice dell’attività intuitiva contemplativa perché in costante collegamento con l’Intelletto divino (e che corrisponde al Sé) e il mero ‘umano’ ragionamento (loghismos) operato dal logos che corrisponde all’attività raziocinante dell’ego ‘storico’, al manas della tradizione indiana.

Il nous che precipita in un corpo, secondo Plotino, si manifesta a tale livello ormai solo come capacità razionale (il logos) ma è evidente che indagando circa l’origine di tale facoltà si può, proprio per quanto detto, risalire al nous.

Il logos non è nient’altro che il nous incarnato, il nous non è nient’altro che il logos disincarnato, cioè svincolato dai condizionamenti limitanti del piano materiale dell’Essere-Uno.

La conseguenza è che il logos non deve essere ‘negato’ ma trasceso e che tale procedura di trascendenza deve partire proprio da esso.

Per questo motivo nella filosofia platonica e neoplatonica rimane sempre saldo il principio che il misticismo è la naturale evoluzione del razionalismo e non la sua antitesi, come accade invece nel misticismo ‘religioso’ in cui l’esperienza noetica viene ‘deformata’ dal sentimentalismo fideistico al punto da degenerare nel visionarismo.[6]

Plotino, con uno straordinario parallelismo con la tradizione indiana, indica nel ‘vuoto mentale’ la condizione per la scoperta della nostra vera natura.

Così infatti egli dice in un passo di cui sino ad ora non sembra sia stata compresa l’importanza da parte degli studiosi:

L’anima deve divenire priva d’idee (aneidon tèn psychèn ghinesthai) se desidera che nulla intervenga a ostacolare la realizzazione della sua perfezione (letteralmente: la pienezza, plerosin) e l’ illuminazione (ellampsin) in lei da parte della Natura essenziale (letteralmente: della Natura prima). Se è così essa deve staccarsi da tutte le cose esteriori, rivolgersi completamente (pante) alla sua interiorità (epistraphenai pros to eiso: letteralmente ‘volgersi verso il di dentro’), non più piegarsi verso qualcosa di esterno ma dimenticando tutte le cose (agnoesanta ta panta), dapprima con un opportuna stabilizzazione (del corpo) (pro tou men diathesei) poi anche dei pensieri (kai tois eidesin), dimenticando persino se stesso (vale a dire: il suo ego; agnoesanta de kai auton) deve procedere nella contemplazione di Lui (en te thea ekeinou ghenesthai).”[7]

Fondamentale, per comprendere tale brano, è comprendere il senso ‘tecnico’ del termine aneidos con cui il filosofo indica il ‘vuoto mentale’:  esso è composto, infatti, dal prefisso privativo ‘alpha’ (che diventa an davanti a vocale ed ha un valore negativo in quanto indica ‘mancanza’ o ‘assenza’) ed il vocabolo eidos che è sinonimo di idéa.  

Ciò significa che secondo Plotino, esattamente come nella tradizione yoga, l’anima per ‘contemplare’ deve allontanarsi non solo dai suoi contenuti ‘esterni’, cioè le sensazioni, ma anche da quelli interni, cioè dai ‘pensieri’, intendendo  tale termine  nel senso più vasto, valer a dire ‘da tutti i contenuti particolari della coscienza’ che rappresentano nient’altro che un legame più sottile della coscienza con quel mondo empirico da cui hanno origine.

Altro  vocabolo del brano su cui bisogna soffermare l’attenzione più di quello che non si sia fatto sinora è ellampsis. Esso proviene dal verbo ellampo che vuol dire ‘illuminare’, ‘risplendere’.

Plotino quando parla dell’anima dice che essa  ‘dà luce a se stessa’[8] (ellampse pros eauten) e dice inoltre che ‘in quanto illumina è sempre illuminata’ [9](osper ellampousa aei ellampetai).

Dunque chi raggiungere la condizione estatica è definito da Plotino, esattamente come in India, un ‘Illuminato’, un ‘risvegliato’ dal sonno del corpo e sono questi, com’è noto, i significati del termine sanscrito ‘Buddhah’.

Inoltre, a nostro avviso, non è stata ben compreso dai traduttori il termine diathesis con cui Plotino indica ‘yoghicamente’ la necessità di una opportuna stabilizzazione del corpo e non solo una disposizione ‘mentale’.

Il corretto significato del termine (che deriva dal verbo diatithemi che significa ‘disporre ordinatamente’, ‘stabilizzare’) lo si comprende dal fatto che dopo aver utilizzato quel vocabolo egli aggiunge la precisazione ‘anche dei pensieri’.

Dunque la diathesis coinvolge ad un primo livello qualcosa che non ha a che fare direttamente con la condizione psicologica ma ne è la premessa oltre che una condizione predisponente.

In ciò egli dà indicazioni per nulla diverse da quelle della tradizione yoghica in cui le asanas, cioè le varie posture, sono concepite esplicitamente come condizioni corporee stabili atte a favorire la concentrazione mentale.

Oltretutto è lo stesso discepolo Porfirio a raccontarci che Plotino si mise al seguito dell’imperatore Gordiano III, conducente una spedizione militare in Oriente, per poter conoscere direttamente la sapienza persiana dei magi e quella indiana dei ‘saggi nudi’, i celebri ‘gimnosofisti’(ghymnosofistai).[10]

Per questo gli doveva essere ben nota la pratica anche fisica della immobilità tipica dello yoga attuata sia per ottenere la condizione estatica che per ottenere quei poteri occulti di cui molto si favoleggiava in Occidente e in particolar modo nella cosmopolita Alessandria d’Egitto di quell’epoca da cui egli stesso proveniva.

Potrebbe non essere del tutto priva di fondamento l’ipotesi (avanzata recentemente) che il misterioso maestro di Plotino, Ammonio Sacca, possa essere stato egli stesso un buddista e ne sarebbe traccia proprio il nome, poiché il maestro indiano il cui nome era ‘Siddharta (cioè ‘colui che ha realizzato lo scopo’) ‘Gautama’ (discendente del saggio vedico Gotama) era appellato appunto ‘Shakyamuni’, cioè il ‘saggio silenzioso del clan degli Shakya’.

Certo la conoscenza dell’Uno presenta delle difficoltà specifiche poiché esso non ha forma e non si coglie con un atto di riflessione logica.

Plotino è ben consapevole di ciò e ribadisce sovente che la conoscenza dell’Uno avviene per intuizione sovrarazionale e per identificazione, è cioè una conoscenza ‘unitiva’ capace di superare la barriera ordinaria ed invalicabile sul piano sensibile tra soggetto ed oggetto.

Solo nell’esperienza amorosa l’uomo ordinario ha una esperienza embrionale della possibile ed ‘estatica’ fusione tra due diverse coscienze.

Lo sforzo di conoscere qualcosa di ‘informale’, di ‘indeterminato’ è arduo.

E questo Plotino lo riconosce:

Quanto più l’anima penetra in seno all’informe, spossata nel suo vano tentativo di coglierlo, per la sua indeterminatezza e per il fatto che essa non viene più per così dire ‘impressionata’ da una qualche impronta <di cose sensibili>, ella allora sdrucciola e teme di trovarsi a mani vuote…ma quando l’anima desidera vedere con le sue sole forze <facendo a meno di impulsi sensibili> e, vedendo solamente con il concentrarsi in sé (mόnon orosa tò suneinai), essendo una sola cosa (unificandosi completamente) attraverso l’essere una sola cosa con l’Uno, non ritiene di aver conseguito ‘qualcosa’che sia stato ricercato <e quindi di diverso de sé>…proprio così deve fare colui che  si avvia a filosofare intorno all’Uno…<per questo> dobbiamo risalire al Principio che è immanente in noi (epì tèn eautò archèn anabebekénai) ed ‘unificarci’(én ghenésthai) separandoci dalla molteplicità  <sia degli enti sensibili che delle loro immagini interiori> (ek pollòn), allora potremo contemplare il Principio primo e l’Uno (archès kai enòs theatèn esómenov).”(Enn., VI, 9, 3).

Per Plotino, dunque, coincidono il fare filosofia e l’ascendere all’Uno, ma poiché Questo si trova nel profondo del nostro ‘io’, Esso si scopre nella nostra umana interiorità. La filosofia stessa è una metafisica dell’esperienza interiore e non solo un ‘conoscere’ ma un ‘trasformarsi’.

La mistica di Plotino è ‘naturale’, nel senso che non è fondata su di una fede ma sulla filosofia, cioè sulla pura ed universale aspirazione dell’uomo alla Conoscenza.

Plotino ben distingue, come Platone, il processo discorsivo della mente (la dianoia) dalla intellezione pura (la nòesis) del Principio e per questo riconosce il fatto che l’insegnamento (sia orale che scritto) può tutt’al più “additare la via ed il viaggio” al discepolo (tema tipicamente orientale):

Invero nasce soprattutto un’ aporìa (ghínetai aporía), perché la conoscenza di Lui (il termine usato: synesis da syn-íemi, significa andare incontro, unione, ricongiungimento) non si ottiene né per mezzo della scienza (kat’epistémen) né per mezzo del pensiero astratto (katà nóesin), come per i restanti oggetti della Intelligenza, ma solo per via di una presenza (katà parousían) che vale più della scienza (epistéme kreíttona). L’anima sperimenta un allontanamento dalla sua unità e non resta completamente una allorché acquista la conoscenza scientifica di qualche cosa; la scienza infatti è un processo logico: ma il processo logico implica la molteplicità: perciò, una volta caduta nel numero e nella molteplicità, essa perde l’Uno. E’ dunque necessario oltrepassare la scienza e non deviare mai dall’unitarietà del nostro essere; è necessario allontanarsi sia dalla scienza, sia dai suoi oggetti e da ogni altra cosa, anche se bella da contemplare poiché ogni bellezza è inferiore all’Uno, come la luce del giorno deriva tutta dal Sole. Perciò si dice che Egli è ineffabile e indescrivibile (oudè retòn oudè graptón). E tuttavia noi parliamo e scriviamo per avviare verso di Lui, per destare dal sonno delle parole alla veglia della visione, come coloro che mostrano la strada a chi vuol vedere qualcosa. L’insegnamento può riguardare soltanto la via ed il cammino, ma la visione è tutta opera personale di colui che ha voluto contemplare… Egli, in realtà, è già presente <nella coscienza di ciascuno> ma è presente soltanto a coloro che possono accoglierlo e che si sono preparati ad armonizzarsi e ad entrare in contatto con Lui in virtù di un’affinità e di una potenza insita in Lui, consustanziale a ciò che da Lui deriva; qualora questa potenza si conservi così com’era quando uscì da Lui, essi, allora, sono capaci di contemplarlo nel modo in cui Egli è, per sua natura” (Enn., VI, 9, 4).

L’iniziato ed il filosofo hanno una meta comune: la unio mystica; in quello spazio interiore i pensieri non scorrono più poiché l’esperienza è al di là del dicibile e per questo i misteri hanno sempre prescritto il silenzio:

Proprio questo – sottolinea Plotino – vuol significare quel famoso comando dei nostri misteri: ‘non divulgare nulla ai non iniziati’; appunto perché il divino non è da divulgarsi, fu vietato di manifestarlo ad un altro, tranne che quest’altro abbia già avuto per se stesso la sorte della contemplazione…Poiché non erano due <distinte realtà>, ma il veggente era una cosa sola con l’oggetto visto, ‘unito’, dunque, non ‘visto’(òs an mè eoraménon, all’ènoménon)…il veggente asceso a quell’altezza non provava animosità né brama di nulla, ma non c’era nemmeno ragione né pensiero alcuno; non c’era neppure lui stesso, insomma, se è proprio inevitabile dire questa enormità! E invece, quasi rapito o ispirato (arpasthèis è enthousiásas) egli è entrato silenziosamente (esychè) nell’isolamento (en erèmo) e in uno stato che non conosce più scosse e non declina più dall’essere di Lui e non si torce più verso se stesso, del tutto fermo, quasi trasformato nella stessa immobilità”(Enn., VI, 9, 11).

Nel momento dell’estasi contemplativa il saggio comprende che la Bellezza e le Virtù sono ideali e mete finalizzate al diretto contatto con l’Uno:

Egli ha trasceso ormai le cose belle, anzi, ha trasceso il Bello stesso ed il coro delle virtù: è simile ad uno che, entrato nell’interno del penetrale, abbia lasciato dietro di sé le statue collocate nel tempio, quelle statue che, quando uscirà nuovamente dal penetrale, gli si faranno avanti per prime, dopo aver avuto l’intima visione e dopo essersi unito non con una statua, con una immagine, ma con Lui stesso” (Enn., VI, 9, 11).

La conoscenza dell’Uno dunque è possibile solo se si rende l’anima ‘pura’, affine, consustanziale all’Uno stesso, essa è frutto di una trasformazione interiore dell’uomo e non di mere astrazioni concettuali.

Ci si può predisporre alla conoscenza dell’Uno, ci si può ‘purificare’ ontologicamente attraverso l’esercizio delle virtù, ma la prassi filosofico/iniziatica più ‘diretta’ consiste nell’esercitarsi deliberatamente e coscientemente all’acquisizione della  ‘indipendenza/trascendenza’ dello spirito dal mondo delle forme.

Il filosofo porrà in atto una serie di ‘operazioni interiori’ tendenti a fargli acquisire un nuovo ‘abito’ non solo ‘comportamentale’ ma anche e soprattutto ‘noetico’ che lo condurrà dalla filosofia ‘speculativa’ a quella ‘realizzativa’, dalla filosofia ‘razionale’ alla sofia ‘intuitiva’.

Per giungere a tale meta sublime bisogna allenare l’anima, come diceva già Socrate, a ‘raccogliersi in se stessa’.

Quando la stessa attività del pensiero viene ‘azzerata’ si crea quel ‘vuoto mentale’ in cui il Principio Primo manifesta la sua ‘presenza’, la sua parousìa (da parà-eimi = essere presso) nell’anima umana.

Per separarsi dal corpo – egli dice – essa si raccoglie in se stessa (synágousan prόs eautén; da syn  = assieme e ágo = conduco; dunque è una con-centrazione, una uni-ficazione) come se provenisse da luoghi diversi, del tutto priva di turbamenti (pánthos apathòs), considerando i piaceri necessari come delle semplici sensazioni…E’ chiaro che non c’è in lei nessun desiderio di cose turpi; desidera il mangiare ed il bere non per sé, ma per soddisfare i bisogni del corpo, né ricerca i piaceri d’amore, o, soltanto, io credo, quelli naturali che non sono espressione di un cieco impulso, e se lo fa, lo fa con una fantasia già dominata” (Enn., I, 2, 5).

Socrate stesso era ‘abituato’ a tale pratica di profonda interiorizzazione e ne dava anche  ‘visibilità’ attraverso una straordinaria capacità d’immobilità del corpo (a cui corrispondeva – e non poteva essere altrimenti- la pacificazione e stabilità della mente) di cui dà esplicita testimonianza Platone.

La concentrazione interiore era una pratica del resto ben nota alla tradizione sacrale della Grecia arcaica ed era esplicitamente indicata come la ‘tecnica estatica’ per eccellenza.

Plotino stesso raggiunse quattro volte la pienezza di questa condizione, secondo la testimonianza del discepolo Porfirio:

“…seguendo la via additata da Platone nel Simposio, Plotino contemplò quel Dio che non ha forma né essenza, poiché si trova sopra l’intelligenza e l’intelligibile. A questo Dio, io, Porfirio, mi sono accostato e con esso mi sono unito una sola volta: ed ora io ho sessantotto anni. A Plotino apparve la visione del fine vicino: questo fine e questo scopo era per lui l’unione intima con Dio (tò enothenai: il verbo evόo significa letteralmente: ‘farsi uno’ ed è connesso, come si è già visto, al termine hénosis = riunione, unità) che è sopra tutte le cose. Finché io fui con lui, egli raggiunse questo fine quattro volte con un atto ineffabile…(Porfirio, Vita di Plotino, 23).

Egli è del tutto consapevole che le sue ‘dottrine’ e le sue ‘tecniche’ concentrative non sono altro che la riproposizione di una conoscenze e prassi sacre antiche:

Le nostre teorie non sono nuove e non sono di oggi, ma sono state enunciate in maniera non del tutto esplicita molto tempo fa: noi con le nostre dottrine siamo oggi gli esegeti di queste teorie, la cui antichità ci è testimoniata dagli scritti di Platone” (Enn., V, 1, 8).

In effetti per descrivere la condizione dell’anima ‘estatica’ Plotino usa termini ben noti alla tradizione mistica greca come estasi, rapimento, ispirazione, isolamento (da ogni contenuto sensibile), immobilità (nel senso di ‘assenza di turbamento’), comunione (amorosa fusione), unificazione (non-dispersione della coscienza nella molteplicità dei suoi contenuti sensibili).

Nella V Enneade Plotino, ad esempio, affronta decisamente il problema della ‘tecnica’ o dell’ ’arte’ dell’estasi e ricorda che l’Uno, che è Totalità ed assoluta Semplicità, non può essere colto attraverso il pensiero discorsivo che passa faticosamente di concetto in concetto; si deve pertanto giungere ad un tipo di prassi conoscitiva diversa, capace d’indurre una esperienza talmente  non ordinaria della realtà che sarà poi impossibile descriverla una volta ritornati al livello ‘ordinario’ ed ‘umano’ della razionalità.

Quando la coscienza ‘purificata’ e ‘pacificata’ avrà realizzato il ‘contatto’ con la Luce dell’Uno la mente cesserà di fatto totalmente il suo compulsivo processo, sentirà il bisogno di ‘tacere’ e capirà che parlarne sarebbe un ‘profanazione’.

Mano a mano che l’anima ascende procede infatti verso il silenzio assoluto della ineffabilità.

Per giungere a tanto il filosofo rivolge ai discepoli il suo celebre ammonimento ad un atteggiamento di risoluto e radicale trascendimento del mondo materiale, illusorio ed effimero che implica non solo un’ascesi dell’azione attraverso la virtù ma anche ad un’ascesi del pensiero  attraverso la pratica contemplativa:

“…è necessario che il pensiero discorsivo (diànoia), per poter dire qualcosa, colga i concetti l’uno dopo l’altro: solo così infatti si ha il processo del pensiero (diéxodos). Ma in relazione all’Uno che è assolutamente semplice (aplόos) qual è il processo per  una possibile conoscenza? Nessuno; ma occorrerà un ‘contatto interiore’ (noeròs ephápsasthai) [noeròs  è un avverbio che significa ‘intelligentemente’, ‘attraverso l’intelligenza’; da noèo = pensare e quindi usato in riferimento alla platonica nóesis; quanto al verbo ephápsasthai viene da ephápto che significa: attaccarsi a, prendere, toccare, possedere; quindi il senso della espressione è che l’Uno si conosce attraverso un processo del tutto ‘spirituale’ che non fa più riferimento ad alcun dato della sensibilità]. Ma durante il contatto – continua Plotino – almeno finché avviene, non si avrà affatto né la possibilità né il bisogno di parlare: solo più tardi ci si potrà ragionare sopra. Ma in quell’istante saremo costretti a credere di aver ‘visto’ perché quello è il momento in cui l’anima percepisce la Luce direttamente ed istantaneamente [cfr. Platone, Simposio, 210 E 4; Lettera VII, 341 C7-D1 ]. Poiché questa Luce proviene da Lui, o meglio è Lui stesso…questo è il vero fine dell’anima: ‘toccare’ quella Luce… Ma come questo può avvenire?  Elimina ogni cosa (áphele pánta)” (Enn.V, 3, 17).

Questo famoso precetto, per quanto detto, non ha però solo il significato di un invito a praticare una moralità rigorosa allontanandosi dai beni di ‘questo mondo’ (così come comunemente viene interpretato) ma anche e soprattutto il senso ‘tecnico’ di un processo ‘meditativo’ che va compiuto.

Se non ci sono ‘attaccamenti’ non ci sono più ‘pensieri’ compulsivi, capaci di oscurare la coscienza.

La coscienza diventa ‘pura’.

L’esercizio consiste allora nell’isolare l’anima, vale a dire: nell’allontanare la coscienza non solo da ogni contenuto sensibile e dalle connesse e ‘dirette’ ‘appetizioni ‘ ma anche dai contenuti ‘interiori’(fantasie, ricordi, emozioni) collegati anch’essi alle esperienze sensibili e che ne sono, per così dire, il ‘riflesso interno’.

Ciò implica  la necessità di distaccarsi persino dallo stesso processo logico/discorsivo, che, per quanto ‘astratto’, è pur sempre collegato di necessità al mondo delle forme.

Plotino non si stanca di ripetere che bisogna ‘unificare’ lo spirito: per lui alla molteplicità degli enti in cui l’Uno si ‘disperde’ corrisponde la molteplicità delle sensazioni e dei pensieri in cui l’anima smarrisce il suo primigenio contatto con la sua stessa Essenza, con il Sé, con il suo ‘centro’. Egli dice:

E’ dunque questo ‘centro dell’anima’ che noi cerchiamo (tò oun tès psichès oiov kéntrov toutó esti tò zetoùmenon)…poiché una parte di noi è prigioniera del corpo, come se uno avesse i piedi nell’acqua e ne fosse fuori col resto della persona, noi ci eleviamo al di sopra del corpo con quella parte dell’anima che non è immersa in esso e allora col nostro centro ci mettiamo in contatto col centro del Tutto (Enn., VI, 9, 8).

La coscienza liberata e distaccata dai suoi contenuti ‘sensibili’(‘diretti’ o ‘indiretti’), divenuta pura ed assoluta ‘autocoscienza, si ‘purifica’, si potenzia, si rasserena e ascende.

A tale ‘ascensione’ dell’anima umana corrisponde allora la ‘discesa’ della Potenza divina entro di lei che non è una Grazia che si comunica immotivatamente ma una Luce che si mostra a chi intensamente l’ha ricercata.

E’ necessario – ammonisce il filosoforivolgere verso l’interiorità anche la facoltà percettiva (eis tò eiso epistréfein) ed anche far sì che abbia lì la sua attenzione (prosochèn)” (Enn., V, 1, 12).

Questa pratica dà la possibilità di “serbare pura la potenza percettiva dell’anima”(dynamin phyláttein katharàn), pronta a tal punto ad “ascoltare le voci dall’alto” (Enn., V, 1, 12).

Altrove così descrive la condizione estatica:

L’anima allora accogliendo in sé l’influsso che viene da lì (labousa eis autèn tèn ekeithen aporroèn) freme (kineitai) e prova le stesso entusiasmo divino di una baccante (anabakcheutai: termine in cui la preposizione anà indica una emozione che si volge verso ‘l’alto’) e pervasa di desiderio mistico si fa tutta ‘amore’ (éros ghìnetai)…Quando su di lei scende il ‘calore’ che viene di lassù (thermasía ekeithen: la metafora è riferita al potere della luce solare che dà energia agli esseri viventi) essa si rinvigorisce, si ridesta e veramente mette le ali…” (Enn., VI, 7, 22).

 

L’anima stessa dell’uomo che giunge ad ‘intuire’ Dio, a ‘fondersi’ con Lui, si trasforma in un ente ‘divino’, perde la sua ‘terrestrità’, scopre finalmente la sua vera natura; ma ciò può essere compreso solo da chi ha provato quell’esperienza:

Chiunque ha ‘visto’ sa ciò che dico: che l’anima, sia perché si è elevata sino a Lui, sia perché è già vicina e partecipe di Lui, possiede una vita nuova; e perciò, in tale disposizione, sa ormai che il largitore della vita è lì presente e che non le occorre più nulla. Noi invece dobbiamo deporre ogni altra cosa e attenerci a Lui solo; dobbiamo anzi trasformarci in Lui liberandoci di ogni aggiunta, a tal punto che bramiamo di uscire dal mondo e non sopportiamo più di essere ancora legati al sensibile, poiché vorremmo abbracciare Dio con tutto l’essere nostro e non aver più alcun punto che non sia in contatto con Dio. Qui l’uomo può vedere Lui e se stesso, finché è concesso vedere: vedere se stesso splendente, ripieno di luce intellegibile o meglio, diventato luce pura, lieve, senza peso, che sta diventando un dio (theόn ghenόmenon), o meglio che è già un dio (màllon dé όnta), tutto infiammato in quell’attimo” (Enneadi, VI, 9, 9).

Ma da dove viene la Luce metafisica e quale deve essere la nostra disposizione d’animo per accoglierla, una vola placata la mente ed i suoi tormenti?

Noi non sappiamo – dice Plotino – donde è nata la grande Luce, se dall’esterno o dall’interno; e quando essa è sparita diciamo: essa era interiore – eppure non era interiore. Non bisogna chiedere donde sia apparsa, poiché qui non c’è nessun punto d’origine: essa non parte da un luogo per andare ad un altro, ma appare e non appare. Perciò non bisogna inseguirla, ma attendere tranquillamente (all’esychè ménein) finché essa appaia (éos àn fanè), come l’occhio attende lo spuntare del sole, il quale si eleva dall’orizzonte (dall’Oceano dicono i poeti) e si offre ai nostri sguardi per essere contemplato” (Enn., V, 5, 8).

Questa è la vita degli dèi e degli uomini divini e beati: essere liberi rispetto alle realtà di questo mondo, vita che non si compiace più delle cose terrene, fuga da soli  verso il Solo (fughè mόnou pròs mónon)” (Enn., VI, 9, 11).

Si può pertanto dire che il senso profondo della sua ricerca filosofica è tutto nelle parole che pronunziò alla presenza del discepolo Eustochio in punto di morte: “Io mi sforzo di ricondurre il divino ch’è in me al divino che è nell’universo” (Porfirio, Vita di Plotino, 2).


[1] Plotino, Enneadi, III, 1, 8-9.

[2] Enneadi, I, 3, 5.

[3] E’ evidente che, per quanto detto, la ‘via della dialettica’ corrisponde sostanzialmente alla via ‘regia’ dello yoga (raja yoga), a quella della ‘conoscenza’ (jnana yoga).

[4] Platone, Fedone, 67 c-d.

[5] Platone, Fedone, 79 d.

[6] Prova ne è, ad esempio, l’utilizzazione impropria, strumentale e mistificante che il cristiano Sant’Ambrogio fa della confessione autobiografica plotiniana in un suo sermone in cui descrive l’estasi dell’apostolo San Paolo (Seconda epistola ai Corinzi, XII, 1-4) servendosi alla lettera della testimonianza del filosofo neoplatonico. Dice infatti il vescovo di Milano: “Beata l’anima che penetra i segreti del Verbo. Perché, risvegliandosi dal corpo, divenendo estranea a ogni altra cosa, cerca all’interno di sé, scruta per capire se, in qualche modo, le sia possibile raggiungere l’essere divino… Così era Paolo, che sapeva di essere stato rapito fino al Paradiso; ma, rapito nel corpo o al di fuori del corpo, questo non lo sapeva. Perché la su anima si era risvegliata dal suo corpo e si era allontanata e innalzata al di fuori delle sensazioni e dei legami della carne e, divenuto così estraneo a se stesso, accolse in sé parole ineffabili che intese e non poté divulgare perché, osserva, all’uomo non è concesso dire queste cose” (Sermone De Isaac, IV, 11). Naturalmente per Ambrogio il Verbo-Logos è Gesù e non, come per Plotino, un principio metafisico universale immanente all’uomo stesso e per ciò stesso sovrastorico…

[7] Plotino, Enneadi, VI, 9,7, 14-20. Purtroppo le correnti traduzioni di tale brano non consentono di comprendere appieno le indicazioni ‘tecniche’ indicate da filosofo, per questo abbiamo preferito presentarne una nostra.

[8] Plotino, Enneadi, VI, 4, 16.

[9] Ibidem, II, 9, 2.

[10] Cfr. Porfirio, Vita di Plotino, 3.