Attilio Quattrocchi

RAMANA MAHARISHI E LA VIA DELLA RICERCA DEL SE’

Ramana Maharshi

 

Ramana Maharshi, vissuto in India tra il 1879 ed il 1950, è unanimemente considerato uno dei più importanti e significativi maestri spirituali contemporanei.

Il metodo realizzativo che ha insegnato per l’intera vita venne da lui stesso indicato come atma-vichara cioè come ‘ricerca del Sé’.

Esso consiste nel rivolgere la coscienza entro se stessa per andare alla ricerca della sua sorgente passando così dal falso ‘io’ (che corrisponde alla ‘personalità storica’ transeunte) al vero ‘Io’, al Sé eterno.

Tale metodo si può considerare come la ‘quintessenza’ della tradizione mistico-iniziatica indiana e anche teoreticamente come la via realizzativa più diretta in assoluto poiché pone come oggetto di concentrazione non un suono, un’immagine, un simbolo, una funzione organica, ma direttamente il proprio ‘senso dell’io’.

In effetti l’India, nel corso di migliaia di anni, ha elaborato numerosissime tecniche di autorealizzazione spirituale che, pur nella loro estrema varietà hanno avuto un medesimo fine, quello di arrestare il flusso caotico della mente per poter giungere alla occulta sorgente metafisica della coscienza.

Per questo motivo lo yoga (storicamente la più famosa ed importante di queste tecniche) è stato definito da Patanjali in estrema ed efficace sintesi come ‘interruzione del flusso mentale’.

A ben considerare Patanjali ha genialmente riassunto tutto il senso della pratica nei primissimi aforismi (sutra) del primo libro della sua opera che così recitano:

 

“1.2 Lo yoga è la sospensione (nirodha, arresto, sospensione, cessazione, integrazione,stabilità) delle modificazioni (vrtti, disperso, fluttuante, instabile, mulinello) della mente (citta, i sensi, le emozioni, il pensiero).

1.3 Quando ciò si è realizzato la coscienza (drastr, il testimone, il centro) riposa nella sua natura essenziale (svarupa, la propria forma, natura).

 

1.4 Altrimenti (la coscienza) si identifica (è confusa) con le modificazioni della mente (cittavrtti).”

 

La tradizione mistica sia orientale che occidentale è sostanzialmente accomunata dalla convinzione che solo una mente capace di allontanarsi dal suo passivo cedere al flusso delle sensazioni e dei pensieri concentrandosi attivamente sino al punto di tramutarsi in una pura consapevolezza senza ‘contenuti’, può penetrare profondamente nella struttura della Realtà cogliendone la dimensione transfisica.

Per questo ogni tecnica ‘iniziatica’ implica un allenamento alla ‘concentrazione’, alla ‘unificazione’ dello spirito il quale abitualmente si disperde nel movimento caotico dei contenuti sensoriali e psichici.

Naturalmente per l’uomo l’oggetto primo ed essenziale della Conoscenza non può essere altro che se stesso poiché per conoscere il Mondo, cioè la realtà ‘esterna’, l’oggetto, è necessario conoscere preliminarmente il  Conoscitore, la ‘realtà interna’, il soggetto.

La prima domanda da porsi non è quindi: ‘Come è fatto il mondo?’ ma piuttosto: ‘Chi è colui che si pone la domanda di come è fatto il Mondo?’

A rigore di logica, il cammino della conoscenza per procedere da un sicuro fondamento, non può partire dal di fuori della coscienza, vale a dire dal Mondo percepito tramite i sensi, né tantomeno dal concetto di un Dio che si pone al di là dei dati immediati della coscienza stessa.

L’esistenza di in mondo esterno e di Dio potrebbero essere oggetto di dubbio: in fin dei conti quando sogniamo vediamo una realtà che in quel momento ci appare come indubitabilmente esistente, quanto a Dio: esso per definizione si pone al di là della percezione ‘ordinaria’ degli esseri umani.

Dunque l’unica certezza per l’essere umano (e quindi la base, l’inizio di ogni cammino conoscitivo) è la sua stessa coscienza che dubitando della sua stessa esistenza non farebbe altro che riaffermarla.

L’uomo cioè potrebbe dubitare della validità dei contenuti della sua coscienza, ma non della sua personale coscienza di essi.

La coscienza non è un concetto elaborato dal pensiero ma un’ autoevidenza intuitiva: io sono ‘qualcosa’ che è consapevole.

All’interno e a fondamento della ‘consapevolezza’ del mondo esterno c’è, quindi, l’’auto-consapevolezza’, cioè la coscienza di se stessi come ‘enti’ dotati di tale capacità.

La ‘riflessione’ di cui è capace l’uomo gli consente non solo di ‘conoscere’ ciò che è altro da sé ma anche di ‘sapere di conoscere’ e di assumere come oggetto di conoscenza se stesso.

La capacità di riflessione dunque implica la possibilità di ripiegare (dunque, appunto, letteralmente di ‘riportare indietro’) la coscienza su se stessa.

E’ facile la metafora di una luce che, trovando una superficie riflettente, ritorna alla sua sorgente.

C’è quindi una distinzione da fare tra ‘consapevolezza’ e ‘pensiero’; la consapevolezza è alla base del pensiero ma non è il pensiero.

Io, infatti, posso essere consapevole dei pensieri e, in qualche misura, posso persino modificarli.

Il pensiero, nella tradizione metafisica indiana (il manas) è il riflesso sul piano ‘materiale’ della consapevolezza ed in quanto riflesso appartiene ad un piano inferiore ma nel contempo rimane sempre collegato a quello superiore della consapevolezza.

Separare il senso dell’io dalla mente e dai suoi processi consente alla consapevolezza di espandersi.

Per questo il processo evolutivo metafisico non è propriamente definibile come un ordinario processo di conoscenza perché questo implica un Conoscitore, un Conosciuto ed un atto del conoscere.

Ma quando l’io si volge su se stesso conoscitore, conosciuto ed atto del conoscere sono tutt’uno, quindi ci si ‘conosce’ (per così dire) solo con un atto dello spirito che non è logico-discorsivo ma consiste nel puro ‘essere’, in una pura ‘presenza a se stessi’ priva di pensieri, in una ‘contemplazione’.

Conoscere se stesso equivale, quindi, non a ‘pensare’ a se stesso ma all’’essere’ se stesso.

Per questo il motto più significativo di Ramana è: ‘Sii te stesso’.

Egli afferma:

 

“Se parliamo ([erroneamente]) di ‘conoscere’ il Sé, ci devono essere [ vale a dire: dobbiamo ammettere che esistano]  due sé, un sé che conosce, un’ altro sé che è conosciuto e il processo del conoscere. Lo stato che chiamiamo realizzazione è semplicemente essere se stessi, non ‘conoscere’ o ‘diventare’ qualcosa. Se ci si è realizzati, si è solo ciò che si è sempre stati. Non si può descrivere quello stato. Si può solo esserlo. Naturalmente, parliamo in modo inesatto della ‘realizzazione del Sé’, in mancanza di un termine migliore. Come ‘realizzare’ o rendere reale quello che soltanto è reale?”[1]

 

Lo studioso David Godman ha sintetizzato efficacemente le indicazioni di Ramana relative alla pratica dell’atma vichara:

“Ai principianti dell’autoindagine veniva consigliato di porre l’attenzione sul sentimento interiore di ‘io’ e di trattenere quel sentimento il più a lungo possibile: Veniva detto loro che se l’attenzione veniva distratta da altri pensieri dovevano tornare alla consapevolezza del pensiero ‘io’ ogni volta che diventavano consapevoli che la loro attenzione aveva divagato.

Egli suggerì inoltre diversi metodi per favorire questo processo – ci si poteva chiedere: ‘Chi sono io?’, oppure: ‘Da dove viene questo io? – ma lo scopo ultimo era di essere continuamente consapevoli dell’’io’ che presume di essere responsabile di tutte le attività del corpo e della mente.

Nei primi stadi della pratica, l’attenzione al sentimento ‘io’ è un’attività mentale che prende la forma di un pensiero o una percezione. Man mano che la pratica si sviluppa, il pensiero ‘io’ lascia spazio a un sentimento dell’’io’ sperimentato soggettivamente e quando questo sentimento cessa di collegarsi e identificarsi con i pensieri e gli oggetti, svanisce completamente. Ciò che rimane è un’esperienza di essere in cui il sentimento dell’individualità ha temporaneamente cessato di funzionare…Negli stadi iniziali lo sforzo nel trasferire l’attenzione dai pensieri al pensatore è essenziale, ma una volta che la consapevolezza del sentimento dell’’io’ è stata fermamente stabilita, ulteriore sforzo è controproducente. Da allora è più un processo di essere che di fare, di essere senza sforzo piuttosto che uno sforzo per essere…Alla fine il Sé non viene scoperto come risultato del fare qualcosa, ma soltanto essendo.

Come Sri Ramana stesso una volta osservò:

“Non meditare – sii!”

“Non pensare di essere – sii!”

“Non pensare all’essere – sii!”[2]

 

Ad un principiante che chiedeva come partendo dalla mente si potesse – paradossalmente -  andare altre di essa il saggio di Arunachala disse:

“La mente si calmerà soltanto per mezzo dell’indagine ‘Chi sono io?’. Il pensiero ‘Chi sono io?’ distruggendo tutti gli altri pensieri, verrà esso stesso distrutto, come il bastone usato per attizzare la pira funeraria. Se sorgono altri pensieri, senza tentare di completarli, uno dovrebbe indagare: ‘A chi sono venuti?’. Cosa importa se vengono dei pensieri, per quanti essi siano? Nel momento in cui sorge ogni pensiero, se si indaga con vigilanza: ‘A chi è venuto?’, si verrà a conoscere: ‘A me’. Se allora si indaga: ‘Chi sono io?’, la mente tornerà alla sua sorgente ( il Sé) e il pensiero che era sorto cesserà. Praticando in questo modo ripetutamente, il potere della mente di dimorare sulla sua sorgente aumenta”.[3]

 

 

Significativamente in occidente Plotino nel III secolo dopo Cristo, ispirandosi all’antica sapienza di Delfi che si esprimeva nel motto: Conosci te stesso e al Protagora di Platone (343 B), affermò con chiarezza il medesimo concetto ed indicò la medesima prassi d’interiorizzazione:

 

“Iniziando questa ricerca noi obbediamo al precetto del dio che ci comanda di conoscere noi stessi. Se vogliamo cercare e trovare ogni altra cosa, è giusto che ricerchiamo chi è colui che ricerca: desiderando così di cogliere l’amorosa visione delle cose supreme”(Enneadi, IV, 3, 1, 1).

 

Per volgere la coscienza verso l’interno, verso se stessa è evidentemente necessario distoglierla ed isolarla dai ‘contenuti’ che ad essa provengono dal mondo ‘esterno’.

Ma per la coscienza comune è così costante e ‘normale’ il fatto che essa sia ‘piena di contenuti’ che sembra logico dedurne che una coscienza senza ‘contenuti’ sia semplicemente una non-coscienza.

In effetti, chi identifica la coscienza con l’attività di percezione sensibile e di rielaborazione ‘logica’ ed emozionale dei contenuti esperienziali non può trarne che tale conseguenza.

Per questo nella stessa psicologia occidentale il processo di autoconoscenza si è tradizionalmente limitato ad un’analisi ‘funzionale’ dei rapporti tra l’io ed i suoi contenuti esperienziali.

Tale analisi ha volutamente evitato (soprattutto dopo Kant) di affrontare il problema (ritenuto assurdo o irrisolvibile) della ‘natura’ dell’io.

Nella tradizione esoterica il processo di autoconoscenza con cui si arresta il pensiero ‘discorsivo’ era considerato, invece, il fondamento di una evoluzione conoscitiva che dall’io conduce al Sé universale.

Per la ‘sofia’ mistico-iniziatica sia orientale che occidentale, infatti, la coscienza umana separandosi consapevolmente dai suoi ‘contenuti’ non solo sussiste ma, ancor più, si espande verso campi più vasti della Realtà, a partire dalla sua stessa realtà.

Il primo passo, quindi, in ogni autentica e rigorosa via iniziatica, di ogni ricerca spirituale è quello di volgere la coscienza verso l’interno.

 

“La mente rivolta all’interno è il Sé – afferma Ramana – rivolta all’esterno diventa l’ego…Il cotone intessuto in vari panni lo chiamiamo con vari nomi. L’oro forgiato in vari ornamenti lo chiamiamo con vari nomi. Ma tutti i panni o vestiti sono cotone e tutti gli ornamenti oro. L’Uno è reale, i molti sono semplici nomi e forme. La mente non esiste separata da Sé; cioè essa non ha esistenza indipendente. Il Sé esiste senza la mente, la mente mai senza il Sé.”[4]

 

La tradizione esoterica indiana e quella greca sono d’accordo sulla essenzialità di tale prassi d’introversione.

Tutte le tecniche ‘mistiche’, nelle loro infinite varianti, sono volte a questo fine.

La ‘concentrazione’ su qualcosa è solo un ‘pretesto’ per creare uno stato di coscienza diverso ed una prima forma di ‘liberazione’ attraverso l’arresto del flusso dei pensieri, la meta vera è però la ‘meditazione’, la quale consiste nel rimanere stabili in una condizione di consapevolezza senza pensieri.

Per tale motivo quelle civiltà hanno elaborato nel corso dei secoli ed indipendentemente l’una dall’altra una medesima dottrina secondo la quale solo l’io che rientra in se stesso, che si ‘unifica’, che realizza così, poco a poco, la sua autonomia dalle ‘cose’ e dal suo stesso ‘corpo’, può conoscere la sua vera natura, accedere al mondo ‘divino’ e comprendere conseguentemente la vera natura del mondo.

 

“Tu sei consapevolezza – afferma Ramana – Consapevolezza è un altro tuo nome. Poiché tu sei consapevolezza, non è necessario conseguirla o coltivarla. Tutto ciò che devi fare è rinunciare all’essere consapevole di altre cose, cioè del non-Sé. Se si rinuncia a essere consapevoli di esse, allora rimane soltanto la pura consapevolezza, e quella è il Sé”.[5]

 

Naturalmente, per il saggio indiano, la consapevolezza è ‘pura’ quando non è contaminata dal ‘mondo materiale’ e rimane ‘da sola’, ‘separata’, ‘libera’ da ciò che le è estraneo, quieta in se stessa.

A volte Ramana usa delle metafore per far meglio comprendere la relazione tra il corpo, il Sé e l’ego:

“Da un punto di vista funzionale, l’ego ha solo una caratteristica. L’ego funziona come legame tra il Sé, che è pura coscienza, e il corpo fisico, che è inerte e in senziente. L’ego è perciò chiamato chit-jada-granthi, cioè il nodo tra la coscienza ed il corpo inerte… Devi distinguere tra l’’io’ puro in se stesso, e il pensiero ‘io’. Quest’ultimo, essendo semplicemente un pensiero, vede soggetto ed oggetto, dorme, si risveglia, mangia e pensa, muore e rinasce. Ma il puro ‘io’ è il puro essere, l’eterna esistenza, libera dall’ignoranza e dall’illusione-pensiero. Se rimani come ‘io’, come il tuo essere soltanto, senza pensiero, il pensiero ‘io’ scomparirà e l’illusione svanirà per sempre… L’essenza della mente è soltanto consapevolezza o coscienza… C’è un Sé assoluto da cui proviene una scintilla, come da un fuoco. La scintilla è chiamata ‘ego’…La sua vera natura può essere scoperta quando non è più in contatto con oggetti o pensieri”.[6]

 

In occidente Platone, vissuto tra il V ed il IV secolo avanti Cristo, indicò la via per arrivare alla sapienza, alla sofia, proprio nel coltivare una coscienza svincolata dal corpo e volta su se stessa:

In particolare nel dialogo intitolato Fedone egli afferma che con tale prassi si opera una ‘catarsi’ che è “la stessa dell’antica dottrina (chiaro riferimento alla sapienza misterica orfico-pitagorica)  che consiste appunto nel separare (to chorizein) il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla (ethisai; ciò presuppone una costante prassi meditativa) a raccogliersi (sunagheiresthai; vale a dire ‘concentrarsi’) e a restare sola in se stessa (athroizesthai kath’auten; la‘ricerca del Sé’!) e a rimanere per il tempo presente (nella vita ‘terrena) e futuro (dopo la morte) sola in se medesima (oikein katà to dunatòn), sciolta dal corpo come da catene”.[7]

In un altro passo dello stesso dialogo è altrettanto chiara la natura di quel processo attraverso cui l’anima s’innalza al sovrasensibile:

“Quando l’anima contempla se stessa (kath’autèn skopè: letteralmente ‘guarda in direzione di se stessa’) si muove verso là (ekeise oichetai), verso  ciò che è puro (katharon), eterno ed immortale(aei on kai athanaton) e che non ha mutazioni e avendo natura affine a quello (synghenès; c’è dunque una consonanza sostanziale tra lo spirito umano e quello di Dio), rimane sempre con quello ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola (otanper autè katrh’autèn ghenetai)e questo stato dell’anima (to pathema) si chiama ‘sapienza’ (frόnesis, sinonimo di sofίa)”.[8]

Anche per il filosofo ateniese bisogna dunque allenarsi a svincolare l’anima dalla sua abituale connessione col corpo: in questo consiste la pratica mistica.

“Il pensiero ‘io’ – dice analogamente Ramana – sorge simultaneamente al corpo, prospera e scompare con esso. La coscienza del corpo è l’errato ‘io’. Abbandona questa coscienza del corpo… ciò viene fatto cercando la sorgente dell’io…Il grado di assenza dei pensieri è la misura del tuo progresso verso la realizzazione del Sé”.[9]

Questa prassi mistica caratterizzò in occidente l’Accademia platonica e, di conseguenza, anche il neoplatonismo dell’età tardo-antica.

Prova ne è una stupenda pagina delle Enneadi in cui il principale esponente di tale corrente filosofica, l’egiziano Plotino, parla della sua personale esperienza illuminativa conseguita appunto separando la coscienza dal corpo.

Per lui finché l’anima è legata ad esso, pur trovandosi nel cosiddetto ‘stato di veglia’, è come immersa nell’incoscienza di un qualche altro tipo di sonno da cui bisogna ‘risvegliarsi’.

 

Per lui, come per il Buddha, l’illuminazione è un risveglio:

“Spesso – egli dice – ridestandomi dal mio corpo a me stesso, eccomi diventato estraneo a tutto il resto e intimo solo a me stesso (emautou de eiso), contemplo allora una bellezza meravigliosa e sono sicuro di appartenere in sommo grado al mondo superiore; ho vissuto la più nobile forma di vita, sono diventato identico al divino, mi sono basato sul suo fondamento, sono pervenuto a quella suprema forma di attività e mi sono stabilito al di sopra di ogni altra realtà spirituale; quando, dopo questa quiete in seno al divino, ricado da quella consapevolezza (ek nou) al ragionamento (eis loghismon), mi domando come abbia potuto mai, e ora di nuovo, scendere così, come la mia anima abbia potuto entrare all’interno di un corpo se già quando si trova all’interno di un corpo è quale ella mi è apparsa” (Enneadi, IV, 8, 1, 1-11).

Da sottolineare in tale brano la distinzione netta che Plotino pone tra la consapevolezza del Nous che è artefice dell’attività intuitiva contemplativa perché in costante collegamento con l’Intelletto divino (e che corrisponde al Sé) e il mero ‘umano’ ragionamento (loghismos) operato dal logos che corrisponde all’attività raziocinante dell’ego ‘storico’, al manas della tradizione indiana.

Il nous che precipita in un corpo, secondo Plotino, si manifesta a tale livello ormai solo come capacità razionale (il logos) ma è evidente che indagando circa l’origine di tale facoltà si può, proprio per quanto detto, risalire al nous.

Il logos non è nient’altro che il nous incarnato, il nous non è nient’altro che il logos disincarnato, cioè svincolato dai condizionamenti limitanti del piano materiale dell’Essere-Uno.

La conseguenza è che il logos non deve essere ‘negato’ ma trasceso e che tale procedura di trascendenza deve partire proprio da esso.

Per questo motivo nella filosofia platonica e neoplatonica rimane sempre saldo il principio che il misticismo è la naturale evoluzione del razionalismo e non la sua antitesi, come accade invece nel misticismo ‘religioso’ in cui l’esperienza noetica viene ‘deformata’ dal sentimentalismo fideistico al punto da degenerare nel visionarismo.

Sempre Plotino, con uno straordinario parallelismo con la tradizione indiana, indica nel ‘vuoto mentale’ la condizione per la scoperta della nostra vera natura.

Così infatti egli dice in un passo di cui sino ad ora non sembra sia stata compresa l’importanza da parte degli studiosi:

“L’anima deve divenire priva d’idee (aneidon tèn psychèn ghinesthai) se desidera che nulla intervenga a ostacolare la realizzazione della sua perfezione (letteralmente: la pienezza, plerosin) e l’ illuminazione (ellampsin) in lei da parte della Natura essenziale (letteralmente: della Natura prima). Se è così essa deve staccarsi da tutte le cose esteriori, rivolgersi completamente (pante) alla sua interiorità (epistraphenai pros to eiso: letteralmente ‘volgersi verso il di dentro’), non più piegarsi verso qualcosa di esterno ma dimenticando tutte le cose (agnoesanta ta panta), dapprima con un opportuna stabilizzazione (del corpo) (pro tou men diathesei) poi anche dei pensieri (kai tois eidesin), dimenticando persino se stesso (vale a dire: il suo ego; agnoesanta de kai auton) deve procedere nella contemplazione di Lui (en te thea ekeinou ghenesthai).”[10]

 

Fondamentale, per comprendere tale brano, è comprendere il senso ‘tecnico’ del termine aneidos con cui il filosofo indica il ‘vuoto mentale’:  esso è composto, infatti, dal prefisso privativo ‘alpha’ (che diventa an davanti a vocale ed ha un valore negativo in quanto indica ‘mancanza’ o ‘assenza’) ed il vocabolo eidos che è sinonimo di idéa.  

Ciò significa che secondo Plotino, esattamente come nella tradizione yoga, l’anima per ‘contemplare’ deve allontanarsi non solo dai suoi contenuti ‘esterni’, cioè le sensazioni, ma anche da quelli interni, cioè dai ‘pensieri’, intendendo  tale termine  nel senso più vasto, valer a dire ‘da tutti i contenuti particolari della coscienza’ che rappresentano nient’altro che un legame più sottile della coscienza con quel mondo empirico da cui hanno origine.

 

Altro  vocabolo del brano su cui bisogna soffermare l’attenzione più di quello che non si sia fatto sinora è ellampsis. Esso proviene dal verbo ellampo che vuol dire ‘illuminare’, ‘risplendere’.

Plotino quando parla dell’anima dice che essa  ‘dà luce a se stessa’[11] (ellampse pros eauten) e dice inoltre che ‘in quanto illumina è sempre illuminata’ [12](osper ellampousa aei ellampetai).

Dunque chi raggiungere la condizione estatica è definito da Plotino, esattamente come in India, un ‘Illuminato’, un ‘risvegliato’ dal sonno del corpo e sono questi, com’è noto, i significati del termine sanscrito ‘Buddhah’.

 

Inoltre, a nostro avviso, non è stata ben compreso dai traduttori il termine diathesis con cui Plotino indica ‘yoghicamente’ la necessità di una opportuna stabilizzazione del corpo e non solo una disposizione ‘mentale’.

Il corretto significato del termine (che deriva dal verbo diatithemi che significa ‘disporre ordinatamente’, ‘stabilizzare’) lo si comprende dal fatto che dopo aver utilizzato quel vocabolo egli aggiunge la precisazione ‘anche dei pensieri’.

Dunque la diathesis coinvolge ad un primo livello qualcosa che non ha a che fare direttamente con la condizione psicologica ma ne è la premessa oltre che una condizione predisponente.

In ciò egli dà indicazioni per nulla diverse da quelle della tradizione yoghica in cui le asanas, cioè le varie posture, sono concepite esplicitamente come condizioni corporee stabili atte a favorire la concentrazione mentale.

Oltretutto è lo stesso discepolo Porfirio a raccontarci che Plotino si mise al seguito dell’imperatore Gordiano III, conducente una spedizione militare in Oriente, per poter conoscere direttamente la sapienza persiana dei magi e quella indiana dei ‘saggi nudi’, i celebri ‘gimnosofisti’(ghymnosofistai).[13]

Per questo gli doveva essere ben nota la pratica anche fisica della immobilità tipica dello yoga attuata sia per ottenere la condizione estatica che per ottenere quei poteri occulti di cui molto si favoleggiava in Occidente e in particolar modo nella cosmopolita Alessandria d’Egitto di quell’epoca da cui egli stesso proveniva.

Potrebbe non essere del tutto priva di fondamento l’ipotesi (avanzata recentemente) che il misterioso maestro di Plotino, Ammonio Sacca, possa essere stato egli stesso un buddista e ne sarebbe traccia proprio il nome, poiché il maestro indiano il cui nome era ‘Siddharta (cioè ‘colui che ha realizzato lo scopo’) ‘Gautama’ (discendente del saggio vedico Gotama) era appellato appunto ‘Shakyamuni’, cioè il ‘saggio silenzioso del clan degli Shakya’.

Ramana, il saggio  ‘nudo’, il ‘gimnosofista’ che ai piedi della sacra montagna di Arunachala era solito meditare per lunghi periodi nella più assoluta immobilità ed in un protratto silenzio proprio al fine di svincolare il suo senso dell’io dalla ordinaria correlazione col corpo, è stato nell’epoca contemporanea un esempio vivente di quella prassi antichissima della tradizione spirituale indiana.

Egli, inoltre, ha sempre affermato che il senso dell’io non è di per sé un pensiero poiché è la radice di tutti i contenuti e atti della coscienza.

Infatti l’uomo afferma sempre quell’io quando dice ‘io percepisco’, oppure ‘io voglio’, oppure, io penso, oppure ‘io immagino’, oppure ‘io desidero’, oppure ‘io soffro’, oppure ‘io amo’, ‘io sogno’…insomma ogni atto e condizione dello spirito afferisce, converge, fa capo all’io come centro di unificazione esperienziale e base della personalità individuale.

Per tale motivo l’atma-vichara, l’autoindagine, focalizzando la coscienza sul senso dell’io è, a suo avviso, l’unico metodo diretto per la realizzazione del Sé.

 

“Sebbene il concetto dell’”io” – dice Ramana – o ‘”io sono”, per consuetudine sia conosciuto come come aham-vritti (letteralmente: pensiero ‘io sono’), non è realmente una vritti (modificazione) come altre vritti della mente. Perché a differenza di altre vritti che non hanno essenziale interdipendenza, l’aham vritti è ugualmente ed essenzialmente in relazione a ogni singola vritti della mente.   Senza l’aham vritti non ci possono essere altre vritti, ma l’ aham vritti puo sussistere da sola senza dipendere da nessun’altra vritti della mente…Così la ricerca della sorgente dell’aham vritti non è meramente la ricerca della base di una delle forme dell’ego, ma della fonte stessa da cui sorge l’”io sono”. In altre parole, la ricerca e la realizzazione della sorgente dell’ego nella forma dell’aham vritti, implica necessariamente la trascendenza dell’ego in ognuna delle sue possibili forme…L’esistenza fenomenica dell’ego viene trascesa quando ti tuffi nella sorgente da cui sorge il pensiero ‘io’.”[14]

 

Al maharishi venne anche chiesto quale fosse la differenza tra la comune pratica meditativa (dhyana) e il suo metodo dell’autoricerca ed egli rispose così:

“La meditazione richiede un oggetto su cui meditare, laddove in vichara c’è soltanto il soggetto senza l’oggetto. La meditazione differisce dall’autoindagine in questo modo. Dhyana è concentrazione su un oggetto. Realizza lo scopo di tenere lontani diversi pensieri e di fissare la mente su un solo pensiero, il quale deve anch’esso scomparire prima della realizzazione. Ma la realizzazione non è nulla di nuovo da acquisire. E’ già là, ma ostruita da uno schermo di pensieri. Tutti i nostri tentativi sono diretti a sollevare questo schermo e quindi la realizzazione si rivela. Se ai cercatori viene consigliato di meditare, molti potrebbero andarsene soddisfatti di questo consiglio. Ma qualcuno tra loro potrebbe volgersi a chiedere: ‘Chi sono io che medito su un oggetto?’. A uno così bisogna dire di scoprire il Sé. Quella è la finalità. Quella è vichara.”[15]

Anche quando un suo seguace ricordò che un altro grande saggio indiano di quei tempi, Sri Aurobindo, prescriveva la pratica del vuoto mentale al fine di far scendere dall’alto la Energia divina nella coscienza del meditante, Ramana difese la sua via come una forma più diretta di realizzazione e all’interrogante che chiedeva consiglio rispose:

 

“Sii ciò che sei. Non c’è nulla che debba scendere o manifestarsi. Tutto ciò che è necessario è perdere l’ego. Ciò che è, è sempre presente. Anche ora sei quello. Tu non sei separato da esso. Il vuoto è visto da te. Tu sei presente per vedere il vuoto. Cosa aspetti? Il pensiero ‘Non ho visto’, l’aspettativa di vedere e il desiderio di ottenere qualcosa, sono tutti lavori dell’ego. Sei caduto nella rete dell’ego. E’ l’ego a dire tutto ciò e non tu. Sii te stesso e nulla più”.[16]

 

Una risposta sostanzialmente analoga Ramana diede ad un interrogante che gli chiedeva perché egli non indirizzasse i suoi discepoli alla concentrazione su qualche particolare chakra del corpo sottile o alla ripetizione di qualche mantra:

 

“Le Yoga Sastra dicono che il sahasrara (il chakra localizzato nel cervello) è la sede del Sé. Il Purusha Sukta dichiara che la sua sede è il Cuore. Per mettere in grado il sadhaka (discepolo) di evitare possibili dubbi, gli dico di prendere il filo o la traccia dell’”io” o dell’”io sono” e di seguirlo sino alla sua sorgente. Perché, innanzitutto, è impossibile per chiunque intrattenere alcun dubbio su questa nozione dell’”io”. Secondariamente, perché qualunque sia il metodo adottato, la meta finale è la realizzazione della sorgente dell’”io sono”, che è il dato primario della tua esperienza… Dovunque ti concentri non può esserci danno perché la concentrazione è solo un mezzo per abbandonare i pensieri. Qualunque sia il centro o l’oggetto su cui ti concentri, chi si concentra è sempre lo stesso.”[17]

 

Spesso a Ramana è stato chiesta un’opinione circa la nota pratica yoghica del pranayama, cioè del controllo del respiro. Egli approvava, per chi non fosse capace di attuare l’atma vichara, la tecnica della semplice osservazione del respiro piuttosto che quella del suo trattenimento secondo varie periodizzazioni:

“Tutti questi ritmi – osservò – talvolta non regolati dal conteggio ma da mantra, aiutano a controllare la mente; questo è tutto. Osservare il respiro è anche una forma di controllo del respiro. Trattenere il respiro è più violento e può essere nocivo, se non c’è un buon guru a guidare il praticante a ogni passo; ma osservare semplicemente il respiro è più facile e non comporta alcun rischio… Il controllo del respiro è solo un aiuto per immergersi nella propria interiorità. Ci si può pure immergere controllando la mente. Controllando la mente si controlla automaticamente il respiro. Non c’è bisogno di praticare il controllo del respiro; il controllo della mente può bastare. Il controllo del respiro è consigliabile alle persone che non sanno controllare la propria mente in modo diretto.”[18]

 

In un’altra circostanza Ramana ritornò sull’argomento affermando:

“Il principio che sta alla base del sistema yoga è che la sorgente del pensiero è anche la sorgente del respiro e della forza vitale; perciò se si controlla uno di essi si porta automaticamente sotto controllo anche l’altro…Perciò, quando si placa la mente, anche il respiro e le forze vitali si placano. Il respiro e le forze vitali sono anche definiti le manifestazioni grossolane della mente. Fino all’ora della morte la mente sostiene e sorregge queste forze nel corpo fisico; e quando la vita si estingue, la mente le avviluppa e se le porta via.”[19]

 

In assoluta coerenza con tale linea di pensiero Ramana ha trattato anche il tema della necessità o meno di un ‘guru’ per conseguire la illuminazione. Il saggio indiano, pur rilevando l’importanza che un maestro spirituale può avere nello stimolare e nel sostenere un percorso di evoluzione spirituale nondimeno sottolinea sempre il concetto che il vero Maestro è per ciascuno il Sé interiore:

“Il Guru è il Sé. Il maestro è all’interno…ma finché pensi di essere separato (dall’Esistenza) o di essere il corpo, è necessario anche un maestro esterno ed egli sembrerà avere un corpo. Quando l’erronea identificazione di se stessi col corpo cessa, si scoprirà che il maestro non è null’altro che il Sé.”[20]

In numerose circostanze Ramana è stato poi sollecitato ad esprimere il suo parere anche sulla via ‘religiosa’ della devozione ad un Dio (bhakti marga) egli rispose sempre che anch’essa può condurre all’autorealizzazione ma solo nel caso in cui si sappia superare la illusoria separazione dualistica tra adorato e adorante e superare così ogni limitazione egoica:

“Ci sono due vie; chiedetevi: ‘Chi sono?’ o abbandonatevi (a Dio)… Se ci abbandona completamente, non resterà nessuno a fare domande o a essere considerato. O si eliminano i pensieri aggrappandosi al pensiero-radice, l’’io’, o ci si abbandona al Potere Superiore. Queste sono le uniche due vie per la Realizzazione.”[21]

 

C’è un altro tema su cui Ramana venne spesso interrogato, quello concernente il kundalini yoga. I praticanti di questa via realizzativa, com’è noto, tentano di condurre la forza sottile presente alla base della colonna vertebrale attraverso un canale psichico (sushumna) lungo cui sono collocati vari centri energetici, chakra, sino al cervello, per realizzare l’estasi unitiva, il samadhi. 

Il saggio di Aranuchala affermò che tale processo spirituale evolutivo avviene anche per colui che segue il metodo dell’autoindagine (che Ramana definisce jnani, cioè ricercatore nella via della conoscenza) ma in modo spontaneo.

Inoltre riteneva che la kundalini deve andare oltre il sahasrara, il loto più elevato, ridiscendendo giù per un altro canale psichico (nadi) che chiamò amritanadi sino a stabilizzarsi all’altezza del Cuore, ma nella parte destra del petto solo a tal punto l’estasi diventa permanente.

 

Sebbene lo yogi possa avere i suoi metodi di controllo del respiro per far ascendere kundalini nella sushumna, il metodo del jnani è unicamente quello della indagine. Quando la mente si fonde nel Sé per mezzo di questo metodo, la shakti (il potere spirituale), o kundalini, che non è separata dal Sé, sorge automaticamente.

Gli yoghi attribuiscono grande importanza al far salire la kundalini fino al sahasrara, il centro del cervello o il ‘loto dai mille petali’. Essi mettono in risalto l’affermazione delle scritture secondo la quale la corrente vitale entra nel corpo attraverso la fontanella e arguiscono che, siccome vyoga (la separazione dalla Coscienza Universale) è avvenuta in quel modo, anche lo yoga (unione) dev’essere raggiunto nel modo opposto. Perciò, essi dicono, per il compiersi dello yoga, dobbiamo riunire i prana (le forze sottili) per mezzo delle pratiche yogiche ed entrare nella fontanella.

I jnani d’altro canto evidenziano che lo yogi presuppone l’esistenza del corpo e la sua separazione dal Sé. Solo se si adotta questo punto di vista della separazione lo yogi può consigliare lo sforzo per la riunione attraverso la pratica dello yoga. In effetti il corpo è nella mente ed ha il cervello come sua sede. Che il cervello funzioni con luce presa a prestito da un’altra sorgente è ammesso dagli yoghi stessi nella loro teoria della fontanella. Il jnani inoltre argomenta: se la luce è presa in prestito, deve provenire dalla sua sorgente originale. Vai alla sorgente direttamente e non dipendere da risorse prese in prestito. Quella sorgente è il Cuore, il Sé.

Il Sé non viene da nessun altro luogo e non entra nel corpo attraverso la corona del capo. E’ così com’è, sempre splendente, sempre stabile, immobile ed immutabile.”[22]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


[1] Ramana Maharishi, Sii ciò che sei, a cura di David Godman, ed. Il Punto d’Incontro, 2007, p. 20.

 

[2] Ramana Maharishi, Sii ciò che sei, a cura di David Godman, ed. Il Punto d’Incontro, 2007, pp. 69-70.

[3] Ibidem, pp. 72-73.

[4] Ramana Maharishi, Sii ciò che sei, a cura di David Godman, ed. Il Punto d’Incontro, 2007, p. 25.

[5] Ramana Maharishi, Sii ciò che sei, a cura di David Godman, ed. Il Punto d’Incontro, 2007, p. 19.

[6] Ibidem, p. 64, 65, 66.

[7] Platone, Fedone, 67 c-d.

[8] Platone, Fedone, 79 d.

[9] Ramana, Sii ciò che sei…, pp.81-82.

[10] Plotino, Enneadi, VI, 9,7, 14-20. Purtroppo le correnti traduzioni di tale brano non consentono di comprendere appieno le indicazioni ‘tecniche’ del filosofo, per questo abbiamo preferito presentarne una nostra.

[11] Plotino, Enneadi, VI, 4, 16.

[12] Ibidem, II, 9, 2.

[13] Cfr. Porfirio, Vita di Plotino, 3.

[14] Ramana, Sii ciò che sei…, op. cit. p. 63 e p. 62.

[15] Ibidem, pp. 66-67.

[16] Ibidem, p. 84.

[17] Ramana, Sii ciò che sei…, p. 145e p. 147.

[18] Ramana Maharishi, Gli insegnamenti di Ramana Maharishi, a cura di Arthur Osborne, Ed. Ubaldini Roma, 1976, p. 124.

[19] Ibidem, p. 125.

[20] Ramana, Sii ciò che sei…, p. 115.

[21] Ramana Maharishi, Gli insegnamenti di Ramana Maharishi, a cura di Arthur Osborne, Ed. Ubaldini Roma, 1976, p. 137.

 

[22] Ramana, Sii ciò che sei…, op. cit., p. 177.