SOFIA E FILOSOFIA

 tempio di delfi

Tempio di Delfi

Secondo Aristotele Il termine ‘filosofia’ sarebbe stato usato per la prima volta da Talete (626 – 548 ca. a. C.) da lui indicato come il primo esponente di quella forma culturale; altre testimonianze riferiscono che fu in realtà Pitagora (575 – 499 ca.) ad usarlo per primo, nel senso di una ricerca razionale e disinteressata del sapere.

Secondo una tradizione riferita da Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, Proemio, 12) e da Cicerone (Tusculanae disputationes, V, 3, 9) il primo ad autodefinirsi ‘filosofo’ fu appunto Pitagora che intendeva distinguere con ciò la limitata sapienza umana da quella degli dei che lui considerava i ‘veri sapienti’.

Un altro pensatore che utilizzò tra i primi quel termine fu Eraclito il quale affermò che “ è necessario che gli uomini filosofi siano indagatori di molte cose” (fr. B 35, DK). Con ciò non intendeva però riferirsi all’erudizione (polimathia, il ‘sapere molte cose’) che esplicitamente condannò ritenendo che la mera accumulazione di nozioni “ non insegna l’intelligenza” (fr. B 40).

Per Eraclito infatti ‘comprendere’ significa cogliere il principio unitario della multiforme realtà che lui indica col termine logos.

Attualmente la maggior parte degli studiosi ritiene che il termine non sia stato utilizzato correntemente e ‘tecnicamente’ dai presocratici del VII e VI secolo a. C. ma solo a partire dal V secolo, cioè all’epoca di Pericle, nel periodo della democrazia e dei sofisti, al tempo in cui si affermò la supremazia intellettuale di Atene.

A tale momento risale in effetti la chiara testimonianza di Erodoto secondo cui Creso, re della Lidia, così si rivolse al legislatore ateniese Solone: “Mio ospite, la fama della tua saggezza (sophies), dei tuoi viaggi, è giunta sino a noi. Ci è stato riferito che tu, ricercando la conoscenza (philosopheon), hai visitato molti paesi a causa del tuo desiderio di vedere” 1.

Per comprendere meglio la nascita di quel vocabolo è interessante l’ osservazione storica che fa l’illustre studioso Pierre Hadot: “In generale, da Omero in poi, le parole composte con il suffisso philo servivano a descrivere l’atteggiamento di chi faccia coincidere il proprio interesse, il proprio piacere, la propria ragione di vita con una determinata attività: philo-posia, ad esempio, sta ad indicare l’interesse o il piacere del bere, philo-timia, è la propensione ad acquisire onori; philo-sophia, sarà, dunque, l’interesse che si sviluppa per la sophia2.

Se i filosofi ‘naturalisti’ del VI secolo a. C. cercarono attraverso la filosofia, cioè attraverso un approccio di tipo razionale, di individuare l’Arché del mondo, cioè il suo Principio costitutivo (nel contempo fisico e metafisico) i sofisti nel V secolo intesero la filosofia come educazione alla retorica da impartire ai giovani che ambivano ad una carriera politica. In tal senso per essi il vocabolo era sinonimo di paideia, cioè arte della formazione.

Platone, a sua volta, usò il termine secondo una pluralità di significati ma ne assunse uno come fondamentale, quello di attività razionale volta alla conoscenza del mondo metafisico.

Egli in effetti indicò con esso non solo l’educazione in generale3 ma anche e soprattutto quella conoscenza dell’intellegibile (vale a dire del mondo spirituale così definito perché conoscibile solo solo con il logos) che qualifica il sapiente a governare la polis. E’ proprio questo innalzamento ‘dialettico’al mondo eterno dei valori che Platone definisce la “vera filosofia”4.

E’ famoso quel brano del suo Simposio dove la filosofia è paragonata ad Amore (Eros), figlio di Abbondanza e Privazione, mito con cui si sottolinea il suo carattere di ricerca, in quanto il filosofo non sa né è del tutto privo di conoscenza ma avverte entro di sé il bisogno radicale della Verità, il che presuppone che, in qualche modo, oscuramente, già la intuisca.

Aristotele elaborerà le indicazioni del suo Maestro e userà il termine per indicare di volta in volta o un sapere globale (capace d’includere organicamente e coerentemente tutti i saperi particolari), o la saggezza pratico-politica, o il tendere dell’uomo alla dimensione divina, o la ‘scienza dei principi primi della realtà’5. Egli definì, significativamente, come ‘filosofia prima’ la scienza che studia il Principio e per questo la identificò con la ‘teologia’ (che la tradizione chiamerà ‘metafisica’ dal titolo imposto dagli editori alle opere aristoteliche collocate ‘dopo’ – metà - quelle fisiche).

Quando il cristianesimo si diffuse individuò nella filosofia (almeno agli inizi) un nemico radicale della propria indimostrabile ‘fede’.

La religione venuta dalla Palestina contrastò non solo il metodo critico-razionale che la caratterizzava ma anche, e soprattutto, la tradizione di una spiritualità costruita autonomamente (in quanto il divino è considerato intimo all’uomo in quanto tale) ed in modo del tutto indipendente rispetto alla rivelazione ‘storica’ vetero e neo testamentaria.

Questa poi, come noteranno i pensatori Celso e Porfirio, era fondata proprio su una tradizione mitologica sostanzialmente analoga a quella greca contro cui si erano efficacemente esercitate le arti polemiche della filosofia sin dal suo inizio.

Il Dio cristiano era un dio storico, particolare, era ‘il dio d’Israele, quello rivelatosi ad Abramo, a Mosè, ma che i cristiani ritenevano ‘incarnatosi’ in Gesù e dunque non universalistico ma, al contrario, dichiaratamente particolaristico ed esclusivistico. Non a caso il primo dei comandamenti del dio della tradizione giudaico-cristiana era: ‘Non avrai altro dio all’infuori di me’.

Per il cristianesimo la ‘fede’ in quel ‘suo’ Dio era necessaria alla salvezza tanto che persino il filosofo che cerca il Vero e vive nel Bene è destinato alla dannazione se non accetta il Cristo e non obbedisce alla sua Chiesa accettandone i dogmi e seguendone le prescrizioni sacramentali: extra ecclesiam nulla salus.

Ma la lotta contro il libero sapere della filosofia non fu per il cristianesimo impresa facile e se in una prima fase prevalse la intransigenza di un San Paolo, il quale ammoniva: “Badate a non farvi ingannare con la filosofia”6 e di un Tertulliano che vedeva nella filosofia l’origine vera delle eresie, in una seconda fase (inaugurata dai padri della chiesa greca) si tentò di utilizzarla piegandola agli interessi apologetici della nuova fede.

Per questo la si definì come ‘serva’ della teologia, utilizzando una formula che connoterà tutta la storia della ‘filosofia cristiana’ la quale risulterà così condizionata e subordinata alla difesa dell’ortodossia dogmatica: philosophia ancilla theologiae7.

Solo con una lotta secolare durata lungo un arco di tempo che va dal Rinascimento all’ Illuminismo la filosofia recupererà la sua ‘natura’ di libera ricerca del vero attraverso l’esercizio razionale.

Tuttavia lo scorre della storia non è avvenuto senza lasciar tracce ben precise e la filosofia nella ‘modernità ha finito per riconoscersi solo nel sapere scientifico-naturalistico giacché la scienza ha avuto un ruolo fondamentale nella lotta contro l’oscurantismo dogmatico.

La stessa filosofia, identificatasi col sapere razionale/scientifico ha finito per negare la possibilità di una esperienza metafisica e di una dottrina corrispondente fino a ridursi (come, ad esempio, nelle correnti contemporanee dell’empirismo logico e della filosofia analitica) ad una dimensione puramente ‘metodologica’, cioè alla funzione di consapevolezza critica dei metodi delle forme ‘positive’ del sapere o a semplice analisi del linguaggio.

E’ questo il motivo per cui oggi la filosofia, allontanatasi dalla metafisica con cui tradizionalmente si è identificata, ha perso di fatto ogni significato ed ogni specifica funzione.

Ma tutt’altra cosa fu la filosofia al suo sorgere.

Naturalmente, prima che venisse ‘inventata’ la parola ‘filosofia’, essendo l’essere umano desideroso di conoscenza, si usava una qualche perifrasi per indicare tale suo intimo e connaturato bisogno.

Esisteva esclusivamente il termine ‘sofia’.

E’ pertanto evidente che, per intendere correttamente il significato ‘originario’ del vocabolo ‘filosofia’, bisogna preliminarmente analizzare il senso di quello a cui esso faceva riferimento come proprio specifico fine.

Due sono le valenze fondamentali del termine nella Grecia prefilosofica: quella di saggezza pratica e quella di sapienza conoscitiva, ed è evidente che molto spesso l’una veniva posta in connessione con l’altra.

Esaminiamole distintamente.

 

LA SAPIENZA PRATICA OVVERO LA ‘SAGGEZZA’

 Talete di Mileto il primo "filosofo"

Talete di Mileto il primo “filosofo”

Anteriormente ai primi filosofi erano stati i poeti, considerati depositari di un ‘ispirato’ sapere ‘mitico-religioso’, ad affrontare il problema dell’origine del Tutto da un unico principio.

Essi però utilizzarono una immaginazione simbolica che proprio la filosofia giudicherà inadeguata a quel fine.

Già Omero, comunque, si propone di scoprire la Legge Suprema che governa la nostra esistenza così come quella degli dei e la riconosce nell’imperscrutabile di Destino.

Così in Esiodo c’è il tentativo, con la Teogonia, di dare una spiegazione al problema della esistenza del Tutto attraverso una serie ordinata di generazioni divine che manifesta l’esigenza di una sistematizzazione ‘razionale’ del divenire cosmico.

Tuttavia, oltre al sapere mitico della poesia arcaica e a quello ‘esoterico’ dei ‘misteri’, la Grecia conobbe ed esaltò il valore della saggezza pratica soprattutto accomunando nella memoria ‘Sette Saggi’ (hoi heptà sofoí) cui si riferivano massime e sentenze ispiratrici di un corretto comportamento.

Nelle diverse fonti antiche le liste dei loro nomi compaiono un po’ difformi: quattro sono sempre presenti: Talete di Mileto, Solone di Atene, Biante di Priene, Pittaco di Mitilene.

Tale elenco fu completato da Platone (il quale fu il primo a parlarne nel Protagora8) con altri tre nomi, quelli di Cleobulo di Lindo, Chilone di Sparta e Misone di Chene.

E’ significativo il fatto che la loro sapienza venne collegata costantemente al tempio delfico, tanto che il motto celebre che lo caratterizzava: ‘Conosci te stesso’ venne anche da taluni attribuito allo stesso Talete9.

Con questo personaggio, inoltre, la tradizione creò un evidente legame tra la sapienza ‘arcaica’ e quella propriamente ‘filosofica’ essendo proprio lui, a giudizio di Aristotele, il primo filosofo. Tale connessione fu riconosciuta nel segno della conoscenza sacra ed ispirata di quel tempio da cui Socrate stesso iniziò la sua ricerca speculativa essendone stato giudicato il ‘più saggio degli uomini’.

Sempre sul tempio di Delfi era posta l’altra iscrizione ‘niente di troppo’ che riassumeva ‘laconicamente’ il criterio ideale di ogni ‘razionale’ e ‘religioso’ agire umano e che, nel contempo, fu il principio-guida della sofia dei Sette Saggi.

Risulta così palese che le due massime che costituirono la base della sofia e della posteriore filosofia greche erano attribuite in realtà alla sapienza di Apollo che si rivelava attraverso la Pizia.

Di conseguenza si può affermare che Sapienza e Saggezza avevano per i greci lo stesso divino, metafisico fondamento e manifestavano nel Pensiero e nell’Azione la vita dello Spirito.

A Talete (640 – 547 ca. a. C.) venivano attribuite altre massime e sentenze, come: “Non abbellire la tua immagine, sia bello invece il tuo agire”, “Non essere ricco tramite l’ingiustizia”, “Ciò che fai di bene ai tuoi genitori, aspettatelo nella vecchiaia dai tuoi figli”, “La non padronanza di sé è un danno”, “ L’ignoranza è un vizio”, “Mantieni la misura (metro chro)”, “Non fidarti di tutti”, “Molte parole non indicano mai molta sapienza”, “Meglio essere invidiati che essere oggetto di compassione”. Altre sue massime – e ciò non ci stupisce – sono di contenuto più speculativo che assertivo: “L’essere più antico è Dio, perché non generato. La cosa più bella è il mondo perché è opera divina. La cosa più grande è lo spazio perché tutto comprende. La cosa più veloce è l’intelletto perché penetra tutto. La cosa più forte è il Fato perché tutto domina. La cosa più saggia è il tempo, perché tutto rivela”.

A Solone , poi, celebre legislatore ateniese (640-559 a. C.) viene riferita proprio la seconda massima posta sul frontone del tempio di Delfi: “Nulla di troppo (medén àgan). Gli furono attribuite anche altre formule di saggezza come: “Non mentire ma dì sempre la verità”, “Impara ad ubbidire ed imparerai a comandare”, “Sii mite con gli amici ed alleati”, “Evita le cattive compagnie”, “Ai cittadini non consigliare ciò che piace ma ciò che è la cosa migliore”, “Bisogna scegliere la via di mezzo in ogni cosa”, “Uno Stato è ben governato quando i cittadini obbediscono ai magistrati e questi alle leggi”, “La cosa più difficile di tutte è cogliere l’invisibile misura della saggezza, la quale sola reca in sé i limiti di tutte le cose”, “Guardati bene dal dire tutto quello che sai”.

A Biante di Priene (590-530 ca. a. C.), oratore e poeta, si riferirono motti come: “La maggior parte degli uomini è cattiva” (hoi pleistoi kakoì), “Sugli dei afferma solamente che essi esistono” (perì theòn leghe os eisì theoi), “Ascolta molto”, “Non lodare un indegno solo per la sua ricchezza”, “Ottieni con la persuasione, non con la violenza”.

A Pittaco di Mitilene si riferivano sentenze e prescrizioni come: “ Cogli l’opportunità” (ghíghnoske kairόn), “Ciò che rimproveri agli altri, non farlo tu stesso”, “Insaziabile è il desiderio di profitto”, “Non sa parlare chi non sa tacere”, “Felice quello Stato ove non possano mai comandare i malvagi”, “La carica rivela l’uomo”.

Cleobulo di Lindo disse: “Cosa ottima è la misura” (métron áriston), “Si deve onorare il proprio padre”, “Bisogna star bene nel corpo ma anche nell’anima”, “Domina l’istinto del piacere”, “Non fare nulla in maniera violenta”, “Perdona molto agli altri, nulla a te stesso”, “Chi risparmia i colpevoli punisce gli innocenti”.

A Chilone di Sparta venne da taluni attribuito (come anche a Talete e Solone) il motto delfico “Conosci te stesso” (indubbiamente il più celebre di tutti) ma ne vennero attribuiti anche altri, come: “Non ridere di un infelice”, “Non permettere alla tua lingua di correre avanti al tuo pensiero”, “Domina l’ira”, “Non desiderare l’impossibile”, “Ubbidisci alle leggi” (nόmois peíthou).

A Misone di Chene si riferisce la prescrizione: “Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole”.

Il comune denominatore del sapere dei Sette Saggi si può individuare nel senso della misura, nella pratica del ‘giusto mezzo’ (mesόtes, la medietas dei latini), vale a dire nella virtù della temperanza implicante la moderazione dei desideri e il controllo delle passioni.

Tale equilibrio comportamentale nella cultura greca (anche in quella ‘arcaica’) non aveva solo un valore ‘morale’ ma anche ‘religioso’ perché si riteneva che rappresentasse nell’uomo e nel suo agire il corrispettivo dell’armonia cosmica, essendo l’uomo un ‘microcosmo’.

Prova ne è che le massime dei Sette Saggi erano scritte lungo il percorso che conduceva i pellegrini a Delfi.

 

LA SOFIA COME SAPIENZA TEORETICA

 

Dal punto di vista ‘teoretico’ il termine ‘sofia’, nella cultura greca, indicava essenzialmente la conoscenza del mondo nella sua dimensione ‘sacra’.

L’uomo, consapevole dei propri limiti, riferiva, infatti, la sofia agli dei e indicava come ‘saggi’ (sofoi)coloro che più di altri si avvicinavano alla conoscenza intuitiva del sacro e ne davano tangibile prova con le loro portentose doti.

Parlando di saggi, profeti e guaritori vissuti nell’età arcaica, quali, ad esempio Abaris, Aristea, Epimenide, il grande studioso tedesco Erwin Rhode ha colto perfettamente il significato più specifico ed eminente del termine ‘sofia’ nell’età della Grecia prefilosofica:

Ogni età ha il suo proprio ideale di ‘sapienza’. Ci fu un tempo nel quale l’ideale del ‘sapiente’, dell’uomo salito per sua propria forza ad intuizione e potenza spirituale superiori, si concretò in alcune grandi figure che parevano rappresentare compiutamente il più alto concetto della scienza e dell’efficacia del veggente estatico e del sacerdote purificatore. Notizie semifavolose, nelle quali tempi posteriori fissarono il ricordo di quel periodo precedente l’indagine filosofica della natura, ci parlano di grandi maestri dalla sapienza misteriosa, ai quali si attribuisce più tosto un potere magico che una coscienza puramente razionale dell’oscuro principio della natura” 10.

Dunque gli studiosi che indicano il significato originario della parola ‘filosofia’ solo nell’accezione ‘moderna’ di ‘amore per il sapere e per la saggezza’ che si manifesta attraverso un uso costante e sistematico delle facoltà razionali, interpretano il senso di quel vocabolo da una prospettiva riduttiva.

Ha poi certamente ragione l’insigne studioso Pierre l’Hadot che in tempi recenti ha affermato con forza il concetto che nella filosofia antica non si separava mai il saper pensare, che mira al conoscere, dal saper agire, che mira all’azione virtuosa, ma tale giusta considerazione, per quanto detto, non è sufficiente.

Infatti non tiene nel debito conto la dimensione ‘sacra’ della conoscenza che era insita nel concetto di sofia.

Il corretto pensare ed il corretto agire hanno, infatti, un unico fondamento nella dimensione metafisica.

In effetti, se è vero che nel mondo antico non si separava (per dirla con termini buddhisti) il Retto Pensare dal Retto Agire, è altrettanto vero che in un contesto in cui l’esperienza del sacro era riferita eminentemente ai Misteri, l’atto coscienziale capace di condurre alla Conoscenza metafisica, la Sophia, appunto, non era un Pensare ma un Vedere intuitivo.

In tale contesto vanno interpretati i due detti tradizionali riportati sul tempio del luogo più sacro della Grecia, Delfi: ‘Conosci te stesso’ e ‘Niente di troppo’.

Tali motti stavano ad indicare nient’altro che la necessità del senso del limite nell’uomo; vale a dire l’uomo non può con i suoi mezzi ordinari di conoscenza (e nei limiti ordinari c’è l’uso della razionalità con mero riferimento ai dati sensibili) giungere alla Verità incondizionata né avere un comportamento totalmente irreprensibile.

Ritenere che l’uomo possa avere la conoscenza del mondo divino con l’uso della mera ragione veniva ritenuta pura tracotanza, hybris.

Dunque è vero che il motto ‘conosci te stesso’ stava a significare la necessità della consapevolezza dei propri limiti (si pensi al socratico ‘sapere di non sapere’) ma bisogna sempre ricordare che tale condizione umana, nella cultura greca, non era considerata un limite assoluto ed invalicabile.

Infatti l’Ellade aveva una propria tradizione ‘sacrale’ illuminativa (considerata la più elevata), cioè i Misteri, che si proponeva di ‘indiare’ l’uomo stesso fino a farlo uno con l’Uno.

A tale condizione sovrumana di Conoscenza e di Beatitudine si poteva giungere attraverso la theoria, cioè – letteralmente – la ‘contemplazione mistica del divino’ (da theós, dio, e orào,vedo), ottenibile attraverso la separazione della coscienza dal piano sensibile e dagli stessi procedimenti ‘razionali’, logico-discorsivi.

Sapienza teoretica e Saggezza pratica erano tali solo se radicate nell’esperienza del divino, da tale esperienza traevano la loro stessa esistenza.

Pertanto il precetto di ‘conoscere se stessi’ stava a sottolineare non solo un limite intrinseco alla condizione umana ma anche la necessità e la procedura attraverso la quale possiamo superarne i confini.

Per ottenere ciò bisogna cogliere – introspettivamente – proprio nella coscienza quell’elemento divino che è, per definizione, sovrumano.

Il logos umano, nella sua essenza, è ‘consustanziale’ con quello di Dio.

Socrate in effetti precisa che il precetto delfico del dio Apollo si riferisce alla dimensione più interna della coscienza, quella ‘divina’.

E’ lo stesso grande Maestro ateniese a precisare che bisogna conoscere l’essenza dell’anima e non semplicemente: l’anima.

Tale precisazione implica l’esistenza di una dimensione ‘esterna’, ‘superficiale’ dell’io ( cui corrisponde la coscienza ordinaria, l’attività razionale e la personalità storica) ed un io ‘interno’, ‘profondo’, ‘sacro’, ‘intuitivo’ che ne è l’occulto e metafisico fondamento.

Nel dialogo intitolato Alcibiade primo, Platone fa dire a Socrate parole molto esplicite su tale tema:

SOCRATE- Potremmo forse conoscere qual è l’arte che migliora l’uomo stesso se non sapessimo chi siamo noi stessi?

ALCIBIADE – Impossibile.

SOCRATE – E può mai darsi che sia una bazzecola conoscere se stessi e che fosse uno sciocco chi scrisse quelle parole nel tempio di Pito (è il tempio di Delfi sorto nel luogo in cui Apollo sconfisse il mitico serpente Pitone) o è invece compito estremamente difficile e non da tutti?

ALCIBIADE – Talvolta, Socrate, mi è sembrata cosa da tutti, talvolta, invece, compito estremamente difficile.

SOCRATE – Beh! Alcibiade, può essere facile o no, ma per noi il problema si pone così: se noi conosceremo noi stessi, conosceremo forse anche la cura che dobbiamo prenderci di noi, se no, non la conosceremo mai.

ALCIBIADE – E’ così.

SOCRATE – Di’ dunque: in qual modo si potrebbe scoprire in che consiste il ‘se stesso’? Perché di conseguenza potremmo forse scoprire cosa siamo noi, ma rimanendo all’oscuro della prima cosa sicuramente sarà impossibile scoprire la seconda …Che cos’è dunque l’uomo?

ALCIBIADE – Non lo so.

SOCRATE – Però tu sai almeno che è qualcosa che si serve del corpo.

ALCIBIADE – Sì.

SOCRATE – Che mai altro si serve di questo se non l’anima?…Quindi colui che ammonisce di conoscere se stesso, ci ordina di conoscere la nostra anima… Possiamo noi indicare nell’anima una parte più divina di quella ove risiedono la conoscenza ed il pensiero? Questa parte dell’anima è simile al divino, e se la si fissa s’impara a conoscere tutto ciò che vi è di divino, intelletto e pensiero, si ha la migliore possibilità di conoscere se stessi nel modo migliore”11 .

Dunque, per conoscere l’essenza ‘divina della nostra psiche’, bisogna, secondo Socrate, ‘fissare’ l’anima sulla parte migliore di essa, bisogna identificarsi con il logos ed escludere l’influsso delle altre parti dell’anima, quelle connesse alla istintività e alla emozionalità( é evidente il riferimento implicito alla tripartizione della psiche trattata da Platone in diversi dialoghi ed esemplificata dal noto mito della biga alata).

Concentrare la coscienza su se stessa non può significare altro che ‘osservare’ i propri pensieri, le proprie emozioni, le proprie passioni distaccandosi così da essi, poiché l’atto dell’osservare è un prendere le distanze, un abbattere il sottile processo d’identificazione automatica dell’io col contenuto della sua esperienza, un atto di separazione, di trascendenza.

Tale prassi corrisponde esattamente a quella dello yoga orientale che prescrive ‘l’interruzione del flusso dei pensieri’ al fine del conseguimento della illuminazione spirituale.

Socrate non invita dunque al mero esercizio del logos nella sua ordinaria attività ‘critica’ volta al mondo esterno sensibile. Egli considera questo solo come un esercizio propedeutico ed utilizza il dialogo per insegnare, costruire ed incrementare tale processo.

Solo quando la potenza della concentrazione viene volta all’anima stessa, cioè al mondo interno, essa permette di ‘entrare’ in quel mondo divino che è il suo ‘vero’ mondo, perché essa proviene proprio da lì.

Attraverso l’esercizio filosofico l’anima uscendo fuori dal limite del corpo, e quindi dalle sensazioni e dalle passioni ad esso legate, perviene all’estasi unitiva con Dio ed in tale condizione si ‘riconosce’ come parte, frammento di Esso. Per questo la si potrà qualificare anche come di natura ‘simile’ o ‘identica’ ad Esso.

Dunque la ‘consapevolezza dei propri limiti’ prescritta dal dio di Delfi non venne intesa da Socrate ‘staticamente’ ma ‘dinamicamente’ come presa d’atto di una condizione da cui si può e si deve uscire: nella tradizione socratico-platonica la filosofia proprio ha tale scopo.

Ci fu addirittura qualcuno che già nell’antichità collegò tale orientamento metafisico di Socrate proprio ad un suo straordinario incontro con un saggio indiano giunto ad Atene.

Parlando infatti della dottrina platonica Aristocle c’informa che il musico Aristosseno testimoniava di un incontro tra Socrate ed un filosofo giunto dalle lontane terre dell’Indo; costui a Socrate che dichiarava di voler conoscere solo le realtà umane (anthròpina) argutamente replicò che esse non sono comprensibili se si ignorano quelle divine (theia), cioè il loro fondamento metafisico12.

Il tema dell’autoconoscenza come fondamento ed inizio di ogni sapere metafisico è esplicitamente ripreso da Plotino:

E su quale argomento – osserva Plotino – potremmo discutere più ampiamente ed esaminare meglio che su questo?… Iniziando questa ricerca, noi obbediamo al precetto del dio che ci comanda di conoscere noi stessi (hautous ghinoskein). Se vogliamo cercare e trovare ogni altra cosa, è giusto che ricerchiamo chi è colui che ricerca (zetein te ta alla kai eurein boulomenoi dikaios an to zetoun ti pot’esti touto zetoimen): desiderando così di cogliere l’amorosa visione delle cose supreme”.13

In effetti il precetto ‘Conoscere se stessi’ significò anche per Socrate conoscere l’essenza metarazionale che è in noi e ciò significa che bisogna usare la ragione (il manas direbbero gli indiani) per andare oltre di essa (sviluppando ‘dialetticamente’ la buddhi, termine con cui, in quella tradizione orientale, si connota la facoltà intuitiva metafisica).

Tale posizione è del tutto analoga a quella della tradizione esoterica indiana: si pensi al precetto del Buddha di ‘distruggere il demone della dialettica’ (e quindi superare tutte le ‘dottrine’ ed i sistemi ‘filosofici’) come condizione preliminare necessaria per accedere all’esperienza nirvanica.

La scuola socratico-platonica fu in sintonia con tale insegnamento per cui considerò l’esercizio filosofico come un’ascesi della ragione o, meglio, della coscienza, cioè una sua progressiva (dialettica) ‘separazione’ (il termine ‘ascesi’ proprio questo significa) noetica e morale della coscienza dal mondo del sensibile e del corporeo.

L’attività mentale, razionale e lo stesso esercizio del dialogo erano quindi considerati solo come il primo grado del distacco dell’anima dal piano della materialità, un primo modo di ‘separare’ la coscienza dal corpo e dalla dimensione ‘fisica’ a cui questo forzatamente ci riconduce.

Legandosi al corpo/materia, infatti, la coscienza rimane ‘prigioniera’ delle passioni che da esso sorgono e ‘identificandosi’ con la propria personalità storica contingente diviene del tutto incapace di ascendere alla dimensione sacra, al divino e di ‘riconoscere’, ‘ricordare’ la sua stessa profonda ‘essenza’.

Per questo Socrate e Platone intendevano il corpo ‘orficamente’, cioè secondo l’antica sapienza dei misteri, come la ‘prigione’ o persino ‘la tomba’ dell’anima.

Incarnandosi l’io si fissa in un corpo, precipita nello spazio-tempo, e ‘dimentica’ la sua origine celeste.

Chi ha ‘cura dell’anima’ (l’espressione è tipicamente socratica) deve invece saperla svincolare già da vivo dal corpo ed è proprio questo ciò che intendevano da sempre fare i Misteri greci.

Ma se il fine esplicito della filosofia socratico-platonica è identico a quello di Eleusi, la differenza, la ‘novità’, era nel fatto che mentre i misteri usavano un segreto metodo cultuale, rituale, per operare quel distacco, la filosofia pensava invece di poter giungere alla medesima meta con l’esercizio della ragione condotto sino al suo superamento, al suo trascendimento.

La ragione, infatti, divenuta consapevole dei suoi limiti, tace.

Rimane pura consapevolezza senza pensieri, cioè contemplazione.

In tal modo si apre all’esperienza mistica dell’ineffabile Uno.

Per questo Socrate dopo aver dialogato ‘filosoficamente’ era solito, secondo la testimonianza del suo discepolo Platone, appartarsi e immobilizzarsi per entrare più agevolmente nella sua interiorità.

Nella interpretazione socratico-platonica del fare filo-sofia questo è un punto fermo ed è questo il significato originario del termine ‘filosofia’.

La filosofia esiste in funzione della sofia, il sapere razionale è in funzione del sapere mistico.

La riflessione deve condurre alla contemplazione, il ‘pensare’ al ‘vedere’.

Dal mondo fisico l’anima deve ascendere al mondo metafisico, solo così si può conseguire la sofia.

Per questo Platone nel Fedone fa così parlare Socrate rivolto al suo discepolo: “ E che dici, poi, dell’acquisto della sapienza?14 Il corpo è di ostacolo, oppure no, se noi lo prendiamo come compagno nella ricerca di essa? Voglio dire questo: la vista e l’udito hanno per gli uomini qualche valore di verità? O non ci dicono continuamente anche i poeti codeste cose, e cioè che noi con gli occhi non vediamo nulla di sicuro e con le orecchie non sentiamo nulla di sicuro? Ma, se questi sensi del corpo non sono sicuri né chiari, tanto meno lo saranno gli altri, perché, a paragone di questi, tutti gli altri hanno un valore molto minore… Allora quando l’anima coglie il vero? Infatti, quando essa tenta di indagare qualcosa insieme col corpo, è evidente che è tratta in inganno da esso. E se mai c’è un mezzo attraverso cui qualcuna delle verità si manifesta all’anima, questo non è forse il ragionamento? Allora, l’anima non ragiona forse nel modo migliore, quando nessuno di questi sensi la turbi, né la vista, né l’udito, né il piacere, né il dolore, ma quando si raccolga sola in se stessa lasciando il corpo, e, rompendo il contatto e la comunanza col corpo nella misura in cui ciò è possibile, miri con ogni sua forza alla verità?”15

Tale auspicata ‘separazione dal corpo’ non va però intesa, come comunemente si fa, nel senso che per ragionare bisogna avere capacità di concettualizzazione, di concentrazione e quindi di distogliere la coscienza dai bisogni distraenti del corpo.

No.

La separazione dal corpo connessa alla concentrazione riflessiva del saggio che tutto s’interiorizza nell’esercizio della sua riflessione, va intesa ontologicamente e non solo gnoseologicamente o psicologicamente.

Il ‘concentrarsi’ proprio dell’attività logico-discorsiva (quella che Plotino indicò come la ‘unificazione dello spirito’) è solo un preliminare esercizio di distacco della consapevolezza dal mondo fisico, il primo grado di un processo di trascendimento del mondo materiale alla cui conclusione, nel grado estremo, c’è la morte. Questa, infatti, viene intesa orficamente, come separazione radicale ed irreversibile della psiche dal corpo/materia.

Socrate è molto chiaro: la vera conoscenza, la vera sofia, è possibile per l’uomo solo col totale distacco dell’anima dal corpo allorché l’anima ritorna al ‘suo’ mondo che può finalmente percepire senza l’ostacolo del suo ‘veicolo’ fisico.

In vita l’uomo può solo avere esperienze momentanee e parziali di tale distacco e quando ciò avviene si verifica l’estasi.

Chi pratica la filosofia, come chi si fa iniziare, fa quindi, per Socrate, un ‘esercizio di morte’.

Con ciò non si deve intendere che il filosofo o il miste devono ‘pensare alla morte’ e alla caducità della condizione umana ma che ‘operativamente’ ci si deve ‘allenare’al distacco del principio cosciente dal corpo in cui è confinato.

All’io prigioniero del corpo il mondo appare illusoriamente ‘reale’, anzi come l’unica realtà ma la sola coscienza razionale già di per sé pone in dubbio quella ingenua e fallace certezza che è propria dell’uomo comune.

Il ‘filosofo’, invece, staccando la sua coscienza dal corpo dapprima con la ‘riflessione’ e poi con la ‘contemplazione’ purifica l’anima e perviene alla Verità.

Tale ‘metanoia’(letteralmente significa: cambiamento di pensiero, da metà = oltre e noein = pensare) è la stessa propiziata dai sacri Misteri.

La filosofia è così concepita da Socrate e da Platone come uno strumento catartico, un esercizio, vale a dire un’ascesi.

La moralità predicata da Socrate ha tale fine trasformativo e noetico.

Egli dice infatti : “Sembra che ci sia un sentiero (è quello della filosofia…) che ci porti, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione: che, cioè, fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità…E la purificazione, come è detto in un’antica dottrina (quella appunto orfico-misterica), non sta forse nel separare il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla a raccogliersi e a restare sola in se medesima, sciolta dai vincoli del corpo, e a rimanere per il tempo presente e futuro sola in se medesima, sciolta dal corpo come da catene?”16

Sempre nel Fedone l’esito metafisico di tale tecnica di concentrazione/unificazione meditativa è detto in modo esplicito:

Quando l’anima, restando in sé sola, volge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immortale” (79 d).

Così si spiega quanto Platone ci riferisce circa il suo amato maestro quanto alla sua abitudine di isolarsi e di rimanere immobile in stato meditativo per periodi di tempo anche molto prolungati.

L’immobilità, l’isolamento, la quiete sono necessari per una pratica efficace della separazione coscienziale dal mondo esterno.

Dunque è evidente che per Socrate e Platone la pratica filosofica ha un fine mistico, deve condurre all’esperienza del divino, del sacro.

La riflessione si realizza nella contemplazione, la filosofia, appunto, nella sofia.

Tale processo ha una finalità religiosa (la conoscenza unitiva dell’Uno, di Dio, del Bene, comunque lo si definisca…) ma non presuppone nessuna fede: l’anima in sé, il logos in sé, sono divini.

L’uomo ‘conosce se stesso’, cioè la sua essenza, solo separando la coscienza dal mondo dei sensi edal corpo: attraverso l’esercizio di tale introspezione egli si avvia nel cammino dell’esperienza metafisica.

A questa l’uomo tende ‘naturalmente’, ‘strutturalmente’ perché egli – la sua essenza – non è il corpo ma l’anima che abita nel corpo e ne è ‘prigioniera’.

Insomma la ‘sofia’ che Socrate e Platone si propongono di conseguire è quella dei Misteri è la epopteia, cioè l’illuminazione ineffabile a cui tendono come meta ultima gli iniziati.

L’uomo che si spiritualizza si fa simile a Dio (l’espressione Platonica è omoiosis theo17).

Tale conoscenza non ha niente a che vedere con una conoscenza ‘razionale’ del mondo naturale e dello stesso uomo considerato nella sua naturalità. A tale dimensione naturale (in cui l’anima è misteriosamente precipitata entrando in un corpo) e solo ad essa l’uomo deve i suoi limiti.

Quindi, nella tradizione della mistica greca (non diversamente da quella orientale) due sono i movimenti e le operazione consequenziali che la coscienza deve porre in atto per affrancarsi e riscoprire la sua vera natura:

  1. La separazione, il distacco dal mondo corporeo, realizzando così la catarsi;
  2. La fissazione, la concentrazione della coscienza in se stessa, realizzando così lo stato contemplativo.

Sono, a ben vedere, le due operazioni sottili a cui sembra alludere il motto tradizionale alchemico ‘solve et coagula’.

La concezione per cui la filosofia sia da considerarsi come una via alla esperienza mistica ha caratterizzato la tradizione socratico-platonica anche oltre Plotino, sino alla fine dell’Accademia di Atene.

 

1 Erodoto, Storie, I, 30.

2 P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Torino, 2010, p. 19.

3 Platone, Timeo, 88; Teeteto, 143d.

4 Platone, Repubblica, 521c.

5 Aristotele, Metafisica, I, 981b 29.

6 S. Paolo, II Colossesi, 8.

7 La formula risale a Clemente Alessandrino, Stromata, I, 5.

8 Platone, Protagora, 343a.

9 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 40.

10 E. Rodhe, Psiche, II, p. 422.

11 Platone, Alcibiade primo, 129a-b, 129e-130a, 132c- 133b.

12 Cfr. F. Wehrli, Die Schule des Arist., II, Aristoxenos, fr. 35. Lo studioso R. Godel nello studio intitolato: Socrate et le sage indien (1953) sostiene che proprio a partire da quell’incontro il pensatore greco orientò il suo pensiero in senso metafisico sino ad elaborare una dottrina sostanzialmente identica a quella delle Upanishad la quale è basata appunto sulla identità sostanziale tra anima (atman) e Dio (Brahma).

13 Plotino, Enneadi, IV, 3,1,1.

14 In tale passo viene utilizzato il termine fronesis come sinonimo di sofia.

15Fedone, 65 abc.

16 Ibidem, 66 b, 67 c-d.

17 Platone, Teeteto, 176b.