FILOSOFIA E SOFIA DELLA MORTE

Premessa

Parlare del rapporto tra la filosofia ed il tema della morte significa, per ovvie ragioni, trattare l’evoluzione stessa del pensiero occidentale dall’antichità ai nostri tempi: è facile comprendere come questo sia un compito immane.

Pertanto ho ritenuto di svolgere la relazione toccando solo alcuni momenti storici di quel rapporto considerati dagli studiosi tra i più rilevanti al fine non solo di far comprendere la condizione attuale di quel rapporto ma anche di stimolare una feconda riflessione critica.

Per tal motivo l’esposizione non inizierà dal momento storico in cui sorge la filosofia nelle colonie greche dell’Asia minore, ma da quello antecedente, correntemente definito ‘mitologico-religioso’, in cui si avverte già l’esigenza di una riflessione razionale sui temi dell’esistenza.

Illustreremo poi le posizioni delle grandi scuole filosofiche della classicità e, a grandi linee, indicheremo i cambiamenti culturali che hanno influito, sino ai nostri giorni, sull’atteggiamento dell’uomo nei confronti della morte.

Per nostra scelta si è dato più spazio al periodo delle origini della filosofia (ed in particolar modo alla tradizione socratico- platonica) per illustrare una posizione teoretica poco conosciuta ma essenziale, quella per la quale, agli inizi, la filosofia fu intesa come una via alla ‘esperienza’ lucida ed intenzionale della morte e dunque non solo come una semplice ‘riflessione razionale’ su di essa.

Introduzione

La filosofia, com’è noto, è sorta nelle colonie greche dell’Asia minore tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a. C. attraverso il tentativo di elaborare una visione razionale del mondo in aperto e dichiarato contrasto col sapere mitico/fantastico.

Essa ha cercato, quindi, sin dall’inizio, di riflettere sui grandi temi dell’esistenza non più attraverso racconti irrealistici, bizzarri ed arbitrari, ma attraverso rigorose osservazioni e chiari procedimenti logici.

In tale nuovo e rivoluzionario contesto, da cui è poi sorta l’intera nostra civiltà occidentale, i filosofi hanno cercato, da Talete in poi, di individuare ‘razionalmente’ il Principio primo della realtà (l’Arché) e quindi di affrontare con maggiore chiarezza il Mistero della Nascita e della Morte, cioè il mistero stesso della Vita.

Quel che poco oggi si comprende, però, e che quindi va precisato e sottolineato, è il fatto che per i greci studiare la Physis (cioè la Natura generatrice) significava indagare non solo i meccanismi della struttura ‘materiale’ del mondo ma comprendere come in essa si manifesti e sia immanente anche una Forza vitale ed una Coscienza universali.

Così come l’uomo ha un corpo visibile ma anche una vitalità ed una coscienza invisibili si riteneva che il cosmo percepibile dai nostri cinque sensi fosse solo una superficie sotto cui è celata una realtà ben più complessa.

L’universo per i greci non è solo un insieme di corpi che si relazionano secondo leggi costanti e quindi razionalmente prevedibili, giacché, con piena ed incontestabile evidenza, in esso si manifestano anche forze non meccanicistiche quali quelle vitali degli organismi viventi e, nell’uomo, anche coscienziali.

Per questo correttamente gli studiosi definiscono i primi filosofi (che individuarono l’arché nell’acqua, nell’aria, o altri elementi materiali) come ‘ilozoisti’, cioè ritenevano che la yle, la ‘materia’,fosse compenetrata da una invisibile forza di vita (zoè), e che questa fosse collegata negli esseri, a sua volta, a differenti gradi di coscienza, dai più elementari ai più complessi, dalle piante all’uomo.

Quindi se è indubitabile che il metodo razionale della filosofia è storicamente anche alla base della nascita della scienza quale noi oggi la conosciamo, si deve sottolineare con forza il fatto che nella visione filosofica delle origini il mondo più che un grande Meccanismo è un grande Organismo, cioè un occulto tessuto di forze invisibili celato entro il corpo visibile delle cose.

La filosofia assunse così, sin dall’inizio, un duplice compito cioè sia quello (più noto) di guidare l’uomo alla conoscenza rigorosa delle leggi ‘meccaniche’a cui sono sottomessi tutti i fenomeni naturali, sia quello (molto meno noto ma essenziale e più importante per gli antichi) di introdurre l’individuo alla esperienza stessa del mondo invisibile.

La filosofia fu quindi, contrariamente a quanto correntemente si ritiene, più che un insieme di riflessioni razionali capaci di dar luogo ad una ‘oggettiva’ ed ‘universale’ scienza della Natura, un esercizio non solo ‘mentale’ ma ‘esistenziale’ volto alla scoperta della dimensione ‘sottile’ sia ‘vitale’ che ‘spirituale’ della realtà e quindi dell’uomo stesso.

La corrispondenza tra la struttura fisico-psichica dell’Uomo e quella dell’Universo fu quindi la base non solo della filosofia greca ma anche della medicina che da Ippocrate a Galeno cercò di comprendere sempre più chiaramente la correlazione tra Macrocosmo e Microcosmo ed elaborò a tal fine la celebre teoria degli umori e dei temperamenti.

 

La pratica filosofica che si sviluppò nel contesto della più celebre scuola ateniese, l’Accademia platonica, attraverso una linea di continuità che idealmente va da Pitagora a Socrate a Platone a Plotino, consisteva nell’usare la riflessione (il logos) e le sue procedure ( la dialettica) per operare sottilmente nell’individuo il distacco dell’anima dal corpo ancor prima dell’evento- morte.

Tale eccezionale esperienza aveva il fine di dare al ‘praticante’ la certezza dell’esistenza di una dimensione ‘altra’ dell’Essere, vale a dire del Sacro (tò hierón), del Divino (tò theion) e quindi di un destino oltremondano ( va precisato che ‘il divino’ o ‘il dio’ di cui parlano i filosofi greci ha ben poco a che vedere col dio personalistico, antropomorfico della religione ufficiale, ‘pubblica’, né, tantomeno è il dio di una rivelazione storica che per sua natura non può che essere parziale e limitato, cioè non universalistico).

Il mondo antico (e non solo quello greco) era convinto infatti che solo attraverso quella suprema condizione dello spirito, in cui la coscienza umana si congiunge e ‘riconosce’ nel divino, si consegue il vero fine della filo-sofia, cioè appunto, la Sofia.

La filo-sofia indicava infatti etimologicamente e concettualmente solo ‘l’Amore per la Sofia’ cioè per la Sapienza e non il suo conseguimento (il verbo philein vuol dire appunto ‘amare’).

 

In realtà il vocabolo aveva un duplice significato in quanto indicava sia l’aspirazione alla Sapienza che quella alla Saggezza: ‘sapiente’ è chi sa ben ragionare e conosce la natura della Realtà, ‘saggio’ è chi sa ben operare e comportarsi secondo misura e responsabilità.

 

La Sofia si conseguiva però solo con la realizzazione metafisica, cioè con la diretta conoscenza del mondo invisibile, della dimensione spirituale, divina da cui l’anima proviene.

 

In tale contesto la morte era considerata solo come il momento di un passaggio della coscienza individuale da un piano ad un altro della Realtà e dunque dell’ Esistenza.

 

L’evoluzione storica (o involuzione, a seconda dei punti di vista) della filosofia occidentale ne ha del tutto cancellato tale originaria funzione spirituale che si può definire ‘religiosa’ solo in un senso ampio e non confessionale poiché per i greci ‘il divino è in noi’.

 

E’ a tutti evidente che tale prospettiva è attualmente molto lontana dal prevalente pensiero materialistico/positivistico ( e per ciò stesso antimetafisico) e quindi anche da quel sentire che si può indicare come ‘generalmente diffuso’, o quantomeno ‘caratteristico’ del mondo contemporaneo.

 

La conseguenza di tale stato di cose è che la filosofia oggi in relazione al nostro tema si limita ad essere o una mera riflessione di tipo ‘esistenziale’ o un’insieme di considerazioni razionali ( di cui non si vuole assolutamente disconoscere l’importanza) sui temi della bioetica quali quelli dell’eutanasia, dell’accanimento terapeutico, della definizione di morte cerebrale, del testamento biologico e simili.

 

Naturalmente già prima del comparire della filosofia, sia in Grecia che presso le altre culture elaborate dall’umanità nel suo millenario percorso storico, le religioni avevano tentato di rispondere tramite i Miti ai grandi interrogativi che l’individuo si pone in quanto essere razionale e che quindi l’ homo sapiens si è posto nello stesso momento in cui ha conseguito consapevolezza di sé e del mondo.

 

E’ stato proprio il fenomeno della morte a stimolarlo a proporsi le domande più ardue. Quelle stesse domande che si pose, ad esempio, il pittore francese Paul Gaugin il quale, dopo aver subito la scomparsa della sua cara figliola Aline, scrisse su un suo celebre quadro del 1897 i fondamentali interrogativi esistenziali: ‘Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?’

 

Aristotele stesso riconobbe il fondamento e l’inizio della filosofia nel sentimento di stupore, da cui sorge il tentativo umano di comprendere il ‘perché’ delle cose.

 

Ad eccezione dell’uomo – affermava il filosofo tedesco Schopenhauer agli inizi dell’Ottocento nel suo capolavoro intitolato Il mondo come volontà e rappresentazione(I, 1) – nessun essere si meraviglia della propria esistenza… la meraviglia filosofica è condizionata da un più elevato sviluppo dell’intelligenza individuale. Tale condizione non è certamente l’unica, ma è invero la cognizione della morte, insieme con la vista del dolore e della miseria della vita, che ha senza dubbio dato l’impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esiste e perché sia fatto proprio così”.

 

Tutto ciò considerato, nella nostra breve relazione ci sembra opportuno distinguere quattro fasi e momenti della storia della cultura occidentale a cui corrispondono altrettante ‘visioni del mondo’ ed altrettanti modi di considerare il tema della morte.

Faremo così cenno:

  1. alla fase pre-filosofica della civiltà ellenica, che possiamo definire mitico-religiosa;
  2. a quella filosofica ‘classica’;
  3. a quella cristiano medievale in cui la filosofia perde la sua autonomia a vantaggio della ‘fede’e diventando ancillatheologiae;
  4. infine a quella moderna e contemporanea in cui la filosofia avendo recuperato la sua autonomia finisce però per trasformarsi progressivamente in pura metodologia della scienza, logica ed analisi del linguaggio.

Questo è il quadro storico generale in cui collocheremo concettualmente le nostre considerazioni.

 

 

La morte nel mito religioso greco

 

Psicologicamente l’uomo si è dovuto da sempre confrontare con la realtà della morte e, conseguentemente, con l’angoscia che ne deriva; per questo ha tentato di affrontare in ogni modo, con le sue deboli forze, il Mistero del Nascere, del Vivere, del Perire.

In tutte le culture umane, anche le più antiche e ‘primitive’, egli ha tentato di descrivere attraverso dei racconti fantastici (i ‘miti’, appunto) sia la struttura della Realtà materiale, empirica, sia quella di un’altra dimensione dell’Essere, quella ‘spirituale’, invisibile, quella del Dio o degli dei, a cui l’uomo si è sentito da sempre di appartenere in quanto ente dotato di coscienza.

 

Oggi tutti gli studiosi concordano nel non vedere più nei miti solamente un divagare fantastico, l’esprimersi di un arbitrio immaginifico, di una primitiva irrazionalità, incapace per il suo stesso metodo di dare risposte fondate ai quesiti che la mente umana si pone, quanto piuttosto un modo con cui le civiltà antiche si proponevano di insegnare profonde verità sulla vita educando così gli individui alla vita sociale.

 

Tutti i miti, naturalmente ciascuno a suo modo, ci raccontano di un mondo delle origini esistente in un tempo ancestrale in cui non c’era la morte e ci narrano anche di una colpa che ha condannato gli uomini e tutti gli esseri a questo ‘regno della sofferenza’ a vivere cioè nel mondo materiale del divenire, degli enti limitati dallo spazio e dal tempo (quello che in India è chiamato il mondo di Maya).

Tuttavia è sempre detto con chiarezza che ad esso si contrappone quello ‘divino’ dell’Essere, dell’Eternità, della Felicità a cui l’uomo aspira proprio perché da esso proviene la sua stessa coscienza.

 

Il mito, insomma, è spesso, a ben vedere, una riflessione ‘filosofica’ in nuce, che non ha la forma logico-discorsiva della filosofia ma che esprime le stesse verità di fondo (o, se si vuole ‘presunte’ verità) a cui la speculazione razionale può approdare.

 

Pensiamo, ad esempio, alla mitologia classica e alla riflessione che essa stessa implicitamente imponeva; pensiamo ad Esiodo, la cui opera, la Teogonia, è il più antico documento della cosmologia mitica presso i Greci.

Fu proprio il filosofo Aristotele a notare che Esiodo per primo tentò di identificare il Principio Unico di tutte le cose quando scrisse:

Primissimo fu il Caos, poi venne la Terra dall’ampio seno…e l’Amore che eccelle fra gli dei immortali” (Teogonia,166 sgg.).

Dunque già in Esiodo il tema è quello di individuare il Fondamento, la Condizione originaria da cui sono derivate tutte le cose, cioè il mondo quale noi attualmente vediamo, dominato da ferree leggi.

Il mito che ci parla del passaggio dal Chaos al Kosmos è un tentativo di spiegare come nell’universo dall’indistinto si sia passato al distinto e come le cose siano tra loro in relazione secondo leggi costanti.

Insomma il problema posto da Esiodo è già filosofico anche se la risposta è mitica.

 

In effetti tale Causa Prima fu indicata dalla prima scuola filosofica greca, quella ‘ionica’, senza ormai alcun riferimento ‘mitologico’ e definita appunto come l’Archè, che letteralmente significa ‘ la Realtà Originaria’ (archein significa appunto ‘essere primo’, ‘essere a capo’, ‘guidare’), concepita per questo anche come il ‘Divino’.

 

Naturalmente i miti non parlavano solo dell’origine del Mondo ma anche di quella dell’Uomo.

I Greci raccontavano che la sua mortalità ed i suo destino di sofferenza dipendevano dal fatto che egli discende dal titano Prometeo che lo ha plasmato dal fango a sua immagine e somiglianza insufflandogli poi il respiro ed il calore vitali. Poiché però i malvagi Titani erano stati espulsi dall’Olimpo ed oltretutto si erano cibati (mangiandone il corpo ed il sangue) di Dioniso, figlio di Zeus/Deus, gli stessi esseri umani avevano avuto in sorte una duplice natura: una loro parte (quella ‘titanica’) è malvagia ed una (quella ‘dionisiaca’) invece buona.

 

Di nuovo: la mitologia è solo il velo fantastico con cui si presentava il vero, si ‘spiegava’ il vero; ad esempio, in tal caso, l’origine del conflitto morale intimo in ciascun essere umano.

 

Tale mito ‘antropologico’ insegnava, inoltre, che noi siamo mortali ma aspiriamo ‘strutturalmente’ all’immortalità: c’è qualcosa in noi che ci spinge oltre lo Spazio ed il Tempo, vale a dire oltre la Morte ed è la nostra natura dionisiaca cioè di ‘figli di Dio’; Dioniso significa appunto Figlio di Dio (Divós Nysos).

Nel profondo siamo tutti figli di Dio, per questo possiamo dire che ‘Zeus è in noi’.

 

Ma quale mito greco ci racconta meglio la condizione umana di quello di Pandora?

Zeus, adirato per il furto del fuoco commesso da Prometeo per le sue umane creature, ordinò ad Efesto di creare la prima donna, che sarebbe stata nei progetti di Dio la rovina definitiva per il genere umano. L’ordine venne eseguito e venne plasmata Pandora (che in greco significa: colei che ha tutti i doni) una stupenda fanciulla alla quale gli stessi dei concessero ogni ricchezza e virtù. L’astuto Ermes venne incaricato di condurre la fanciulla al fratello di Prometeo, cioè Epimeteo (il cui nome significa: colui che riflette tardi) che sposò Pandora avendone figlia di nome Pirra (colei che sarà l’unica a scampare dal diluvio universale insieme al coniuge Deucalione approdando con l’arca costruita su consiglio del padre Prometeo sul Parnaso, l’unico monte non sovrastato dalle acque ). La novella sposa portò con sé un vaso che Dio aveva ordinato di tenere sempre chiuso ma la donna disobbedì ed aprendolo fece uscire da esso tutti i mali del mondo: gelosia, vecchia, malattia, pazzia ed infiniti altri che si abbatterono sugli uomini che sino ad allora erano vissuti in una condizione simile a quella degli dei.

Nel vaso, però, rimase la Speranza, poiché Pandora sigillò l’orcio prima che anche questa ne uscisse fuori.

Per questo si può dire che l’unico dono degli dei che è rimasto agli uomini è la Speranza: Spes ultima dea, diranno i Latini.

 

Il mito educava il popolo alla vita: l’uomo che accetta la ‘verità’ del mito (cioè la sua essenza meta-simbolica) non sarà mai tracotante, non si macchierà mai del peccato e della follia della hybris, accetterà la sua condizione esistenziale, il suo Destino e con ciò l’Ordine necessario del Mondo, comunque lo si chiami: Necessità, Volontà di Zeus, Moira, Ananche, Provvidenza…o Fato, come i Latini.

Quindi allorché gli antichi affermavano che neppure gli dei possono nulla contro il fato significava implicitamente dichiarare che il destino di morte è ineluttabile per ogni essere vivente.

 

Il mito nelle civiltà antiche aveva una funzione pedagogica: invitava ed ‘educava’ l’uomo ad accettare la realtà per quello che è, a rapportarsi saggiamente con essa, a non presumere troppo dalle sue forze, ad accettare ‘saggiamente’ la sua condizione esistenziale.

 

Per questo la religione greca, che raccontava e si fondava su tali racconti, aveva come massime supreme di saggezza quelle di Apollo, figura chiave della mitologia religiosa, scritte sul frontone del tempio di Delfi: “Conosci te stesso” e “Niente di troppo”, cioè conosci i tuoi limiti (sei un ‘mortale’ e non un dio ‘immortale’) ed evita ogni eccesso poiché la virtù è nel mezzo, nella giusta misura.

Tale saggezza ed equilibrio sono confacenti all’uomo in quanto tale poiché egli, finché è in vita, non è un animale/tutto corpo, né un dio tutto/spirito.

La conseguenza è che solo quando, con la morte, lo spirito si separerà dal corpo l’uomo potrà ritrovare la sua vera natura.

 

 

La lotta mitologica, poi, tra divinità buone e malvagie ‘spiega’ a suo modo la compresenza nel nostro umano mondo del bene e del male.

Anche in tal caso il mito con la sua assurdità introduce alla visione del vero…

Il racconto di Zeus che detronizza il mostruoso padre Chronos ha anch’esso, a ben vedere, un significato ‘razionale’.

Se Chronos rappresenta i più violenti istinti, la cieca brutalità, Zeus invece rappresenta la necessità dell’Ordine, della Giustizia, della Legge.

Zeus diviene il ‘padre degli uomini e degli dei’ perché rappresenta l’equilibrio, la misura razionale, la Giustizia e dunque anche la Virtù necessaria sia alla vita del singolo che della Polis.

Egli è il Padre nostro che è nel cielo: il suo nome infatti è di chiara origine indoeuropea e corrisponde all’indiano ‘dyaus pita’ (cioè, appunto, ‘dio padre’), al Deipatyros illirico, allo Iuppiter latino, derivante dalla formula di preghiera, quindi dal vocativo ‘dieu pater’.

In greco il genitivo di Zeus è Diós/Divós, e anch’esso deriva dal vocativo di Dieus, il quale termine è collegato a sua volta con la radice indoeuropea ‘div’ ( da cui in greco l’aggettivo ‘dios’ che significa: ‘celeste’, ‘divino’ ed in latino i due termini ‘divus’ e ‘deus’.

Dunque Deus è Zeus, cioè il Padre nostro (di tutti gli uomini) che si trova in Cielo.

Questo insegna il mito.

 

Certo il mito, parlando con metafore, simboli ed allegorie dei massimi misteri della vita, non quantifica i processi della natura, come farà invece la scienza nata dalla filosofia nei secoli successivi, ma ne indica la struttura, per così dire, esistenziale.

 

Tali verità, aspre e tremende per l’uomo circa questo nostro mondo, oltre che con i miti venivano sovente descritte e rappresentate con i simboli.

A rappresentare il perpetuo ripetersi delle generazioni i greci utilizzarono (come i buddhisti) l’immagine della ‘ruota’, nella loro lingua kýklos, ed usarono l’espressione ‘kýklos tés ghenéseos’, cioè letteralmente: la ruota della nascita (che corrisponde esattamente al samsara della tradizione indiana).

 

La ruota è un cerchio, una circonferenza che può essere tracciata solo in modo tale che l’inizio corrisponda alla fine e se la si segue in continuazione non si trova mai un estremo, un termine ultimo.

Ciò, fuor di metafora, significa che ogni cosa che muore rinasce in altra forma o in un’altra dimensione da sempre per sempre.

Così anche per l’uomo che quando muore in questo mondo rinasce in un altro mondo e quando muore in quello nasce di nuovo in questo.

Se con la morte, infatti, la coscienza si stacca, si separa, da questo mondo materiale, l’anima ‘nasce’ contemporaneamente, cioè ‘compare’, ‘risorge’ nella dimensione spirituale.

E quando poi, esaurita l’esperienza oltremondana, ritorna alla vita in questo mondo, si ‘re-incarna’ è costretta a ‘morire’ in quel mondo spirituale, cioè ad abbandonarlo ‘precipitando’ nel mondo delle forme materiali.

Questo è il ciclo della ‘metempsicosi’(metempsýchosis) o ‘metensomatosi’ (metensomátosis), termini che letteralmente significano che l’anima, alternativamente, va oltre (metà) il corpo con la morte ‘fisica’ e poi vi ritorna (la preposizione èn corrisponde al latino in) con la morte ‘psichica’.

 

Ed i miti orfici raccontavano appunto come tale ciclo si possa interrompere solamente ‘purificando’ l’anima, cioè scoprendo la propria natura spirituale, la propria essenza ‘divina’ ed attuandola con una vita virtuosa.

Un mito di origine orfica fu certamente quello narrato da Platone nella Repubblica circa il soldato Er, originario della Panfilia, il quale dieci giorni dopo essere morto in combattimento resuscitò e raccontò il suo viaggio nell’aldilà, nell’Ade (termine che significa letteralmente: l’Invisibile). Er raccontò dei luoghi oltremondani e dei giudici che si pronunciavano sulla vita dei defunti che mano a mano giungevano in quel luogo, avviando i giusti verso la loro destra e riservando agli ingiusti il lato sinistro; ai primi erano assegnata una vita serena e gioiosa, agli altri una fatta di sofferenze inflitte per le colpe commesse. Il soldato resuscitato raccontò anche come le anime, esaurito il loro periodo di esistenza oltremondana, fossero poi destinate a nuova incarnazione se non evoluti spiritualmente. Solo quest’ultimi possono infatti scampare all’amaro destino del ritorno sulla Terra.

 

Nella concezione ciclica del mito, sia cosmologica che antropologica, vale il principio sotteso che ‘nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma nella Ruota del Tempo’ per cui il Mistero della Vita è lo stesso che quello della Morte. Per questo chi non conosce la Vita non conosce neanche la Morte e viceversa perché ogni Inizio è anche, per altri versi, una Fine.

 

Simbolicamente la ruota del carro, quando tocca Terra, s’immerge nel fango, cioè nella Materia, ma poi, continuando il suo corso, si stacca da terra e si rivolge verso l’Alto, verso il Cielo per precipitare di nuovo nel Basso.

 

I racconti mitologici legati, poi, alle tre Parche non fanno altro che sottolineare ed insegnare la precarietà della condizione umana: Cloto, Láchesi ed Atropo, divinità oltremondane, presiedono al destino degli individui: la prima fila, la seconda avvolge il filo all’aspo, la terza lo recide imprevedibilmente.

 

Il mito insegna che (questa era l’espressione che le favole di Esopo presentavano alla loro conclusione: ho mýthos deloi oti) quando un individuo percepisce sino in fondo, cioè ‘esistenzialmente’ (non solo ‘mentalmente’!) tale orrenda condizione prova un radicale impulso ad uscire fuori da tale ciclo di sofferenza.

E’ la stessa esperienza paradigmatica vissuta dal Buddha nell’India del VI secolo a. C. e che gli ispirò la Via della Conoscenza e della Compassione.

 

Da questo lucido sguardo sul mondo, sulla sua vera natura, nasce spontaneamente, naturalmente, in un animo sensibile, il bisogno di orientare la coscienza verso un Altro Mondo (Schopenhauer, più di duemila anni dopo dirà che l’uomo è un ‘animale metafisico’) quello degli dei immortali e felici.

 

Il mito è già saggezza, sapienza, cioè sofia, in una forma ‘fantastica’ e, se si vuole, definibile anche come ‘popolare’, ‘artistica’ (“la religione, dirà Schopenhauer, è la metafisica del popolo”).

 

Un celebre frammento orfico afferma che ‘Dio è l’inizio, il mezzo, la fine’, dunque è l’Uno che tutto include: Vita e Morte, Bene e Male.

Del resto nella stessa sapienza indiana Dio è una Trinità (Trimurti): Brahma, Vishnù e Shiva poiché l’Assoluto ha un triplice aspetto: di creatore, conservatore e distruttore.

Nascita e Morte hanno la stessa origine; nel mezzo c’è …l’esistenza.

 

E’ abbastanza evidente che all’interno delle arcaiche elaborazioni fantastiche del mito, letteralmente assurde ed arbitrarie, si cela una prima basilare verità ‘razionale’ di natura esistenziale, dunque filosofica, formulabile così: ‘Tutto ciò che nasce è destinato ineluttabilmente a morire, a dileguarsi; per di più tale evento tragico quanto inesplicabile non solo è ineluttabile ma può verificarsi imprevedibilmente in qualsiasi istante della stessa esistenza’.

 

Una seconda fondamentale verità razionale è adombrata dal mito: la Forza misteriosa, invisibile, che genera gli esseri nel mondo materiale non si estingue mai con la fine di essi ma perpetuamente rinnova le generazioni: gli individui, le persone, compaiono e scompaiono e di essi si perde persino la memoria, invece la Vita che li genera ed annienta dura da sempre per sempre.

 

Una terza e terribile verità si nasconde nel mito ( si pensi a quello di Chrónos – cioè il Tempo- che divora i suoi figli): ogni ente per sopravvivere è costretto a nutrirsi del corpo di altri enti in una incessante e tragica lotta per la sopravvivenza; ogni essere vivente si nutre persino di quelli che lo hanno preceduto giacché essi, morendo sono ritornati ad essere Natura, cioè terra, acqua, aria e fuoco che in quanto cibo diventano il suo stesso corpo.

Il corpo con la morte si scompone nei quattro Elementi: la densa materia ritorna polvere, i fluidi del corpo ritornano acqua, l’aria dei polmoni si espande di nuovo nell’etere e il calore vitale ritorna al fuoco cosmico.

Una sola Forza, quindi, genera e distrugge, dà la vita e la toglie.

 

Tale Forza (variamente personificata nella mitologia religiosa) è, propriamente la Potenza (dynamis, enérgheia) della Natura e quest’ultima era chiamata dai greci Physis, con un sostantivo correlato al verbo phyo che vuol dire proprio ‘generare’. Analogamente i latini indicarono tale ‘Forza generante’ come Natura, dal verbo nasci che vuol dire ‘nascere’.

 

 

Il mito ‘insegna’, insomma, che la Natura è regolata da leggi inesorabili e da una successione ciclica degli eventi, essa è il Regno della Morte ma insegna anche che l’Uomo, pur soggetto alle leggi della Natura in quanto dotato di un corpo, ha nella propria coscienza un principio sovrannaturale che sopravvive alla sua dissoluzione e che appartiene quindi al Regno dell’Immortalità.

 

 

La morte nei Misteri greci

In realtà saremmo in errore se pensassimo che la Grecia prima che nascesse la filosofia, abbia conosciuto solo un approccio fantastico ed irrazionale al tema della morte.

Già nell’Ellade più arcaica si manifestarono infatti delle forme di ‘religiosità’ molto particolari, i cosiddetti ‘misteri’, che tentarono un approccio ben diverso al problema, approccio che noi oggi definiremmo ‘sperimentale’.

Ispirandosi alle dottrine e alle esperienze di antichi saggi estatici, i misteri elaborarono dei sistemi di attività spirituale il cui fine era appunto quello di offrire una esperienza della dimensione metafisica agli iniziati attraverso lo scioglimento provvisorio del legame tra il corpo e lo spirito.

Tale separazione era indicata col termine ékstasis il quale derivando dal verbo existánai che vuol dire ‘allontanarsi’ indicava propriamente l’atto dello spirito che si separa dal corpo.

 

I Misteri dicevano che per conoscere la Morte bisogna ‘provarla’, ‘sperimentarla’ già da vivo acquisendo la capacità di uscire lucidamente e deliberatamente dal corpo, anticipando quell’esperienza che ciascun uomo dovrà fare al termine della propria esistenza.

Poiché, però, quella straordinaria esperienza poneva l’adepto al confine tra la vita e la morte esse era e doveva rimanere rigorosamente ‘esoterica’, cioè riservata a persone dotate di una particolare capacità e qualificazione.

 

In effetti la convinzione che l’anima dell’uomo possa distaccarsi dal corpo già nella vita terrena è al fondamento della religiosità arcaica pre-filosofica dell’Ellade, cioè a quel periodo che gli studiosi indicano come caratterizzato dallo ‘sciamanesimo’. Con tale termine, originario della lingua tungusa siberiana, si fa riferimento ad un’epoca remota in cui vissero in Grecia alcuni ‘sciamani’, cioè veggenti, sacerdoti, maghi, guaritori che svolgevano il compito di fare da intermediari tra il mondo materiale e quello spirituale. Si tratta di straordinari personaggi, a metà strada tra la storia ed il mito, che si dimostrarono dotati di poteri sovrumani, divini, come quello della telepatia, dell’ubiquità, della preveggenza, della guarigione psichica, dell’estasi, della resurrezione ed apparizione post-mortem ed altri ancora. E’ molto significativo il fatto che le cronache che a distanza di tempo ne raccontarono le straordinarie imprese li abbiano appellati come ‘sofoi’, cioè sapienti, saggi, oltre che ‘filosofi’ e ‘teologi’: si tratta di ‘uomini divini’ (così, per lo più, venivano appellati) come Aristea, Epimenide, Abaris, Ermotimo ed altri.

E’ fondamentale ricordare che alcuni dei principali filosofi del periodo pre-socratico ebbero la stessa fama di maghi ed iniziati: ad esempio Empedocle e persino Pitagora, colui che, secondo alcuni, inventò lo stesso termine ‘filosofia’.

 

La convinzione mistica, cioè misterica, circa l’esistenza di un’anima capace di separarsi coscientemente dal corpo ancor prima della morte è dunque alla base della forma religiosa greca che più di tutte ha influenzato la nascita della filosofia.

Storicamente tre furono i principali culti misterici della Grecia: quelli di Eleusi, città non molto distante da Atene, quelli dionisiaci e quelli orfici (si ricordi che Orfeo stesso aveva, secondo la tradizione, miracolose qualità ‘sciamaniche’ e che si recò nell’Aldilà per riportare in vita la sua amata Euridice).

I Misteri ( mysteria) erano basati su una cerimonia, l’iniziazione (myesis – in latino initiatio, initiationis), attraverso la quale si riteneva che gli ierofanti (il termine ierophàntes vuol dire ‘colui che mostra il sacro’) riuscissero a portare l’anima degli iniziati (dopo una adeguata purificazione, kátharsis) ai piani spirituali più elevati.

In tal modo davano agli iniziati la certezza inoppugnabile dell’esistenza di un altro mondo, dissolvendo così nell’adepto il terrore ancestrale della morte.

L’iniziato (il ‘mýstes’, da cui deriva appunto il termine ‘mystikós’) conoscendo la propria occulta natura ‘divina’ conseguiva l’illuminazione (epopteia), raggiungeva l’ékstasis, si liberava dal ciclo della metempsýcosis, scopriva di essere parte della imperitura Coscienza Universale.

Per questo l’esperienza mistica era concepita propriamente come una esperienza di morte ma anche viceversa: l’esperienza di morte, cioè l’estasi dell’anima dal corpo, era ritenuta ‘strutturalmente’ una esperienza mistica.

Morte’ ed ‘estasi’ erano due diversi nomi per la stessa esperienza.

 

La suprema conoscenza mistica era appunto la Sofia.

 

Il miste, ritornato in vita dopo la cerimonia, dunque essendo un ‘ri-nato’, un ‘re-suscitato’, riviveva in tal modo la vicenda di Dioniso, uomo/dio morto violentemente ad opera dei crudeli titani e sepolto a Delfi ma ritornato alla vita ed asceso al cielo, divenendo, per volere di Dio, giudice dei morti.

 

Forse il testo più utile, anzi per molti aspetti ‘fondamentale, per comprendere la ‘natura’ dell’esperienza ‘epoptica’, è quello di Plutarco in cui il celebre storico che fa anche sacerdote di Delfi afferma:

 

L’anima al momento della morte, prova la medesima impressione provata da coloro che sono iniziati ai Grandi Misteri. La parola e la cosa si somigliano: si dice ‘teleutàn’ (morire) e teléisthai (essere iniziato). Prima vi sono delle cose a caso, penosi ritorni, inquietanti cammini interminati attraverso le tenebre. Poi, prima del termine, il fragore è al colmo, il brivido, il tremito, il sudore freddo, lo spavento. Ma poi una meravigliosa luce si offre agli occhi, si passa in puri luoghi e in praterie, dove risuonano voci e danze. Parole sacre e divine apparizioni ispirano un religioso rispetto. Allora l’uomo, perfetto ed iniziato, divenuto libero e passeggiando senza costrizione, celebra i Misteri con una corona sul capo, vive con gli uomini puri e santi, vede sulla terra la folla di quelli che non sono iniziati e purificati schiacciarsi e pressarsi nella palude e nelle tenebre e, per timore della morte, attardarsi nei mali, per l’errore di credere nella felicità di laggiù”.

(Plutarco, fr. 178 Sandbach= Stobeo 4, 52, 49; Colli, p.113)

 

E Apuleio fa dire ad un iniziato sostanzialmente le medesime cose collegando l’esperienza del distacco dell’anima dal corpo con la ‘visione’ mistica ottenuta con il santo rito. La teletè permette agli iniziati di non avere lo stesso terrore della morte che prova l’uomo comune poiché essi l’esperienza della morte l’hanno provata già da vivi e sanno che essa è solo un passaggio ed il preludio di una possibile felicità ultraterrena nel mondo degli dèi:

 

Raggiunsi il confine della morte, dopo aver varcato la soglia di Proserpina fui condotto attraverso tutti gli elementi, e ritornai indietro. A metà della notte vidi un sole lampeggiante di fulgida luce. Mi presentai al cospetto degli dèi inferi e degli dèi superni, e proprio da vicino li venerai”

(Apuleio, Metamorfosi, 11, 23; Colli, p. 113)

 

Il mutamento di coscienza che avveniva nell’iniziato era straordinario; egli viveva dopo quell’evento di nuove certezze. Un retore, parlando dell’esperienza che aveva provato ad Eleusi, affermò:

 

Uscii dalla sala dei Misteri sentendomi totalmente diverso” (letteralmente: “straniero a me stesso”)

(Sopatro, Reth. Gr., VIII, p. 114)

 

Ma i testi più autorevoli e famosi che ci parlano dell’esperienza epoptica sono quelli di Platone nel Fedro e nel Simposio. In un passo del Fedro il filosofo indica i due diversi destini degli uomini: quello delle persone comuni legate alla sola vita dei sensi e che ‘si nutrono del cibo dell’opinione’, cioè non giungono mai per quel motivo alla vera conoscenza della Realtà, e coloro che, invece, iniziati (attraverso i sacri riti o la filosofia), sono capaci di pervenire alla ‘pianura della verità’ poiché hanno nutrito la parte più elevata della loro anima, quella che ‘ha le ali’, cioè che tende alla dimensione metafisica. Esiste dunque per Platone una parte ‘inferiore’ dell’anima ed è quella legata alla vita del corpo, quella che si può intendere come l’insieme delle forze vitali, appetitive, istintive ed emozionali ma l’uomo ha in sé anche una parte dell’anima ‘superiore’. Questa parte più elevata s’identifica con la consapevolezza e l’alta razionalità e si esprime nella ricerca del Bene, del Bello e del Vero che sono i tre aspetti dell’Uno.

Così intesa, la filosofia, nutrita dalle aspirazioni più elevate, ha la stessa funzione del rito iniziatico: quella di guidare l’anima verso il divino e per questo si può definire ‘filosofia epoptica’. Ecco appunto quello che ci dice il testo:

 

Tutte le anime che non sono state iniziate provando un grande tormento si allontanano dalla visione dell’Essere e, essendosi del tutto distaccate dalla Verità si nutrono con il cibo della opinione (basata sui sensi). Ma a causa di ciò esse provano una grande e tormentosa difficoltà a vedere la pianura della verità e scoprire dov’è: il pascolo che si addice alla parte migliore dell’anima si trae appunto dalla prateria di lassù, e di questa si nutre la natura delle penne e delle piume da cui l’anima, resa leggera, viene sollevata”

(Platone, Fedro, 244 e – 245 a. Trad. dell’aut.)

 

In un altro celebre passo il fondatore dell’Accademia descrive con toni di mistico entusiasmo la condizione di beatitudine oltremondana degli iniziati che sanno elevarsi verso l’Alto grazie alla loro ‘purificazione’ ottenuta col distacco ‘rituale’ dal corpo. E’ questo corpo/carcere/tomba che ci vincola al mondo materiale, è esso che va trasceso:

 

E la Bellezza era fulgida a vedersi nel tempo in cui vedemmo, assieme al coro felice, la beata apparizione e visione, noi nel corteggio di Zeus e altri al seguito di un altro dio, ed eravamo iniziati in quella che è giusto chiamare la più beata delle iniziazioni, quel rito segreto che celebravamo, noi stessi integralmente perfetti e sottratti a tutti i mali che ci attendevano nel tempo successivo, mentre integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici erano le apparizioni – entro uno splendore puro – in cui eravamo iniziati e raggiungevamo il culmine della contemplazione: puri noi stessi, senza essere sigillati nella tomba che ora appunto portiamo in giro e chiamiamo ‘corpo’, avvinti strettamente a lui con l’ostrica al suo guscio”.

( Platone, Fedro, 250 b-c; Colli, I, p.103)

 

 

 

LA FILOSOFIA E LA MORTE

Per capire il rapporto tra la filosofia ed il tema della morte bisogna porre delle premesse generali, infatti, nel suo lungo procedere storico, essa ha visto il comparire di dottrine di orientamento generale molto vario e spesso estremamente divergente.

A nostro avviso le si possono raggruppare in quattro gruppi: alcune sono di indirizzo teistico/spiritualistico, altre di indirizzo ateistico/materialistico, altre ancora hanno esposto tesi agnostiche, altre ancora gnostiche.

In rapporto al tema dell’esistenza di un’anima capace di sopravvivere al processo di morte (come in rapporto analogo con il tema dell’esistenza di Dio) le posizioni si possono così definire concettualmente con le seguenti affermazioni:

1 – ‘esiste l’anima’ è la posizione teoretica più diffusa che da Pitagora e Socrate arriva sino a Plotino;

2 – non esiste alcuna anima (è la posizione tendenziale degli atomisti, da Leucippo e Democrito sino a Epicuro e Lucrezio);

3 – l’uomo non potrà mai sapere se esiste o meno un’anima ( è la posizione, grosso modo, agnostica che da Protagora giunge sino alla scuola scettica);

4 – l’uomo già in vita deve cercare di verificare da se stesso se esiste o meno l’anima ( è la posizione ‘sperimentale’dei Misteri e della filosofia ‘epoptica’ ( entro cui si possono collocare i filosofi del punto 1).

 

Le prime tre posizioni sono razionali/concettuali, dunque propriamente ‘filosofiche’ e rispondono alle tre possibilità ‘logiche’ dell’affermazione, negazione e dubbio. La quarta posizione, quella ‘gnostica’ (gnôsis in greco significa appunto ‘conoscenza’), quella dei Misteri, si pone invece sul piano della ‘sofia’ cioè della ricerca, della diretta e personale esperienza metafisica.

In tale ultimo caso si tratta, evidentemente, non di una metafisica ‘speculativa’ ma di quella ‘realizzativa’.

 

Non avendo lo spazio per trattare partitamente e dettagliatamente le varie scuole di pensiero, ci sembra opportuno illustrare nelle grandi linee la tradizione socratico-platonica, quella che più ha caratterizzato l’evo antico.

 

Il più insigne studioso italiano della filosofia antica, Giovanni Reale, ha sottolineato l’ assoluta corrispondenza tra le dottrine iniziatiche, ed in particolar modo quelle orfiche, e la filosofia socratico-platonica.

Fra le dottrine dell’orfismo antico – afferma lo studioso- o comunque anteriore a Platone sono da annoverare, con grande probabilità e, anzi, con quasi certezza, le seguenti, che ci interessano in particolar modo per intendere il Fedone, noto anche come ‘il dialogo sull’anima’:

  1. L’anima è un essere divino, un démone, caduto in un corpo a causa di una originaria colpa.
  2. Pertanto l’anima deve preesistere al corpo, e, in quanto divina, deve essere destinata a sopravvivere al corpo.
  3. Il corpo diventa, in quanto luogo di caduta e di espiazione, carcere e prigione dell’anima, luogo da cui essa deve cercare di liberarsi.
  4. La morte naturale non scioglie se non temporaneamente i legami dell’anima col corpo, giacché, sempre a causa di quella originaria colpa e nella misura in cui non si libera da essa, l’anima si reicarna in altri corpi, compiendo, così, un ciclo di nascite e morti…
  5. L’anima ha, però, possibilità di purgarsi dal peccato e di liberarsi dalle sue conseguenze, con opportune ‘purificazioni.
  6. Questa purificazione si ottiene non solo attraverso i sacri riti e le sacre cerimonie, ma anche attraverso severe regole di vita ascetica (che contemplavano – tra l’altro – l’astensione dalle carni).
  7. Nell’Ade l’anima subisce un giudizio, in base al quale riceve punizioni per le sue colpe, ovvero premi per le sue buone azioni; e le anime che hanno sorte più felice, sono quelle che si sono perfettamente ‘purificate’ “. (G. Reale, Fedone, introd., Ed. la Scuola, 1970, XIX-XX)

 

Originariamente, dunque, la filosofia, quantomeno quella più famosa e diffusa cioè quella socratico-platonica dell’Accademia, non pretendeva, come già si è accennato, di risolvere razionalmente gli enigmi dell’Essere, ma solo di preparare l’individuo a trascendere la mente, ad operare una catarsi che gli rendesse possibile l’illuminazione mistica, cioè il penetrare oltre il sensibile, contemplare il Vero oltre tutti gli schemi razionali, entrare ‘ intuitivamente’ nel Mistero ineffabile.

 

Il logos di cui parla gran parte della filosofia degli inizi, in effetti, non è solo l’attività di rigoroso pensiero applicata ai dati della sensibilità e quindi matrice del pensiero scientifico, ma è anche e soprattutto ‘consapevolezza’, ‘autoconsapevolezza’, intuizione ‘intellettuale’ (cioè ontologica, metafisica, non solo affettiva, emotiva, estetica).

Si riteneva che la pratica ‘filosofica’ della concentrazione, dell’astrazione, della meditazione, dell’azione razionalmente ponderata , allenano l’anima a distaccarsi dal mondo materiale e quindi sono pratiche catartiche, con intrinseche finalità metafisiche.

Anche la filosofia voleva arrivare, come i misteri, alla illuminazione, al risveglio mistico, alla epopteia.

Essa è concepita come un mezzo diverso da quello rituale, cultuale, ad esempio utilizzato in Eleusi, ma il fine è lo stesso.

Anzi, sembrerebbe che la filosofia si sia posta come l’essenza della prassi iniziatica, capace per questo di fare a meno dei gesti e delle pratiche religiose formali. E tale essenza è vista, individuata nella pratica introspettiva: l’uomo che cerca di conoscere se stesso, la sua ‘anima’, il suo ‘io invisibile’ è filosofo e mistico nel contempo, perché proprio nella interiorità separata dal sensibile l’individuo può trovare la sua divina essenza e attuare la sua ‘somiglianza con Dio’ (è il famoso tema della homoíosis theô):

In effetti il Socrate platonico nel dialogo intitolato Alcibiade primo dice molto esplicitamente:

 

Colui che ammonisce di conoscere se stessi (cioè Apollo, il dio simbolo della conoscenza spirituale) ci ordina di conoscere la nostra anima…Possiamo noi indicare nell’anima una parte più divina di quella ove risiedono la conoscenza ed il pensiero? Questa parte dell’anima è simile al divino e, se la si fissa, s’impara a conoscere tutto ciò che vi è di divino, intelletto e pensiero, si ha la possibilità di conoscere se stessi nel modo migliore”. (133 b-c)

 

Ciò spiega come Socrate pronunzi sul tema della morte due discorsi apparentemente divergenti.

In effetti il filosofo ateniese, che molti considerano il vero ‘padre’ della filosofia, dinanzi ai suoi giudici, nel 399 a. C., espresse le sue considerazioni ‘essoteriche’, cioè pubbliche, meramente razionali, sulla morte ma altre più interne, cioè ‘esoteriche’, in effetti le riservò ai suoi discepoli quando era ormai recluso nel carcere e prossimo al decesso.

Nelle sue pubbliche considerazioni a conclusione del processo, raccontate dal suo discepolo Platone nell’opera intitolata Apologia, egli affermò:

 

Il morire è una di queste due cose: o uno stato per cui il morto non è più nulla e non ha più sensazione di nulla, oppure è, come dicono certi, una sorta di cambiamento o di migrazione dell’anima da questo luogo terreno ad un altro. Dunque, se il morire vuol dire davvero assenza di percezione ed è paragonabile ad un sonno all’interno del quale non si vede più nulla neanche in sogno, è allora un guadagno meraviglioso. Penso che se qualcuno dovesse, dopo aver scelto nella sua mente tale notte in cui si è addormentato tanto profondamente da non sognare neanche e poi, dopo aver confrontato a questa notte i giorni e le altre notti della sua vita, dovesse, con ponderazione, dire quanti giorni e notti egli per tutta la vita ha trascorso più felicemente di quella, allora penso che questi, sia un uomo qualsiasi o addirittura il Gran Re di Persia, ben poche anche lui ne troverebbe di questi giorni e queste notti. Se allora questa è la morte, io posso serenamente affermare che è un guadagno, anche perché l’eternità della morte non appare per nulla più lunga di un’unica notte. Del resto, se morire vuol dire andare da un luogo ad un altro, ed è vero quello che si dice, cioè che là si ritrovano effettivamente tutti i defunti, qual bene maggiore di questo potrà esserci o giudici?… Ad un uomo perbene non può capitare alcun male né da vivo né da morto… Ma è ormai tempo di andare via, io a morire e voi a vivere: chi di noi vada verso la miglior sorte è oscuro a tutti, tranne che al dio.”( 40 c-e, 41 c-d)

 

Più intimo e profondo, e per questo appunto definibile come ‘esoterico’, è, invece, il discorso che Socrate rivolge appartatamente, nel carcere, ai suoi discepoli a poche ore dalla morte. Esso concerne il significato occulto della filosofia e della morte, evento a cui lui stesso si era preparato in vita con la costante ricerca del Bello, del Bene e del Vero, cioè dei valori dello Spirito:

 

Sembra che ci sia un sentiero (quello filosofico) che ci porti, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione: che, cioè, fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Infatti il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere. Inoltre, esso ci riempie di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, in modo che, come suol dirsi, veramente per colpa sua, non ci è neppure possibile fermare il nostro pensiero su alcuna cosa. Infatti guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null’altro se non dal corpo e dalle sue passioni. Tutte le guerre nascono per brama di ricchezze, e le ricchezze noi dobbiamo di necessità procacciarcele a causa del corpo, essendo asserviti ai bisogni del corpo. E così noi siamo distolti dalla filosofia, per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un momento di tregua e riusciamo a rivolgerci alla ricerca di qualche cosa, ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e, dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, sì che, per colpa sua, noi non possiamo vedere il vero. Ma risulta veramente chiaro che, se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza, dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime. E allora soltanto, come sembra, ci sarà dato di raggiungere ciò che vivamente desideriamo e di cui ci diciamo amanti, vale a dire la conoscenza suprema: cioè quando noi saremo morti, come dimostra il ragionamento, mentre, fin che si è vivi, non è possibile…E nel tempo in cui siamo in vita, come sembra, noi ci avvicineremo tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni col corpo e comunione con esso, se non nella misura in cui vi sia imprescindibile necessità, e non ci lasceremo contaminare dalla natura del corpo… Se queste cose sono vere grande speranza ha colui che giunge là dove io sto per andare, di venire in possesso, là appunto e pienamente, se mai in qualche luogo è possibile, di ciò per cui ci siamo dati tanto da fare nella vita passata; così che questo viaggio nell’al di là, che mi viene ora comandato, si compie con buona speranza, e per me e per chiunque altro ritenga di aver preparato la sua mente a questo in modo da averla purificata…(66 b-67d-e).

 

Detto ciò è possibile comprendere il motivo profondo della serena compostezza con cui egli si avvia alla morte bevendo la cicuta.

In realtà è proprio questa sua olimpica dignità il messaggio ultimo che Socrate affida ai suoi discepoli: l’uomo virtuoso e saggio, avendo già conosciuto il Dio in vita non teme neanche la morte; la sua è, come quella degli eroi una mors triumphalis.

 

Per chiarire meglio teoreticamente la posizione di Platone è opportuno sottolineare il fatto che egli indica nella Repubblica (VI, 511c-511e) quattro gradi della conoscenza umana che sono anche quattro gradi dell’evoluzione spirituale.

Essi sono divisi in due gruppi.

Il primo, indicato col termine doxa (opinione), si articola in due gradi ascensivi: a) la eikasίa (immaginazione), livello in cui non si sa distinguere la propria produzione immaginativa dalla realtà sensibile del mondo; b) il secondo, quello della pistis (credenza), livello in cui si ‘crede’ che il mondo sensibile sia l’unico possibile e articolato così come i sensi ce lo presentano.

Il secondo gruppo, indicato con il termine epistéme, indica invece i livelli superiori della conoscenza, quelli di un sapere già ‘illuminato’, in quanto svincolato dal mero dato sensibile, esso è definibile come ‘razionale’ o ‘scientifico’. L’ epistéme si articola in diánoia e nόesis: la diánoia (da diá, ‘attraverso’ e nous, ‘pensiero’) è quel grado della conoscenza che si ottiene ‘attraverso’ i procedimenti della logica discorsiva ( e che produce la scienza come conoscenza razionale del mondo), la nόesis è invece quel grado metafisico in cui lo spirito ‘intuisce’ direttamente le idee, cioè le strutture sottili, invisibili della realtà,in particolar modo le idee-valori del Vero, del Bene e del Bello.

Pertanto, se la conoscenza ‘dianoetica’ s’identifica con la conoscenza ‘scientifica’, quella ‘noetica’, priva di ogni mediazione ‘argomentativa’(espressa dalla preposizione diá), è la conoscenza ‘filosofica’ nel suo grado più elevato.

Di conseguenza è un grave errore quello di voler attribuire a Platone l’opinione che il grado massimo della conoscenza è quello della razionalità che procede come un ‘discorso’, cioè di tappa in tappa ed in modo faticoso e indiretto. Il ‘procedimento’ razionale per sua natura avanza di grado in grado derivando conclusioni da premesse, cioè attraverso passaggi argomentativi concatenati che però hanno sempre la loro origine nel limitante dato sensibile.

 

Chiarito tutto ciò va però detto che taluni equivoci interpretativi sono causati da un uso troppo estensivo del termine lόgos nel linguaggio filosofico greco.

Esso infatti viene usato sia per indicare la facoltà attraverso cui si ‘pensa’ e si crea la ‘scienza’ sia quella attraverso cui si ‘contempla’ la verità metafisica.

Opportunamente nella tradizione metafisica indiana vengono utilizzati due diversi termini per indicare la mente ‘discorsiva’ e la coscienza ‘intuitiva’: rispettivamente quello di manas e quello di buddhi.

Una distinzione lessicale presente, come s’è visto, nella teoria gnoseologica platonica attraverso il diverso significato ed il diverso valore dei termini diánoia e nόesis ma purtroppo non sempre rispettata nella tradizione speculativa greca.

 

L’ambiguità nell’uso del termine lόgos può essere ‘superata’ ed in qualche modo ‘spiegata’ -quantomeno nel contesto platonico – se si considera come si possa ritenere, col filosofo ateniese, che la facoltà del pensiero attraverso cui costruiamo la scienza del sensibile è la medesima che per suo intimo sviluppo può ‘maturare’ in una capacità ‘intuitiva’, ‘contemplativa’, cioè ‘teoretica’ in senso proprio in quanto capace di ‘vedere il divino’ (theόs – oráo).

 

E’ evidente infatti che i ‘gradi’ del conoscere implicano la possibilità di un graduale evolversi della facoltà conoscitiva umana generalmente intesa.

 

Dunque, se il lόgos ad un livello ‘inferiore’ s’identifica con la procedura razionale attraverso cui comprendiamo il mondo sensibile, il lόgos a livello ‘superiore’ sarebbe la ‘pura coscienza’ che è qualificabile come ‘superiore’ in quanto può essere anche coscienza del pensiero e delle sue procedure e pertanto ‘trascendente’ rispetto ad esso.

 

E’ solo tale ‘pura coscienza’ dotata di una capacità conoscitiva non mediata dai sensi che ha la capacità di conoscere le idee, gli archetipi del mondo sovrasensibile è cioè quel lόgos che si manifesta come ‘intuizione intellettuale pura’.

E’ bene ricordare che il termine italiano ‘intuizione’ deriva appunto dal latino in- tueri che significa appunto ‘osservare dentro’ e dunque indica opportunamente la facoltà umana di una realtà senza la mediazione di una procedura logica.

 

La convinzione di fondo della tradizione filosofica greca di orientamento metafisico ( ed è la medesima che si riscontra nella tradizione speculativa indiana) è che nell’uomo la ‘potenza dello spirito’, nel momento in cui sia svincolata dai suoi processi ‘ordinari’ relativi al mondo sensibile, acquisisce tutta la sua capacità ‘originaria’ d’intuire il sovrasensibile.

Di conseguenza ne proviene che, per arrivare a tale meta, la prassi, la ‘tecnica’, non può consistere in altro che nell’allenarsi a svincolare la consapevolezza dal mondo ‘esteriore’ ed abituarla a ‘sussistere’, a rimanere ‘unificata’, ‘concentrata’ senza dipendere più da ‘dati’ percepiti o pensati.

Di fatto è la stessa tecnica dello yoga orientale che per essere attuata più efficacemente va accompagnata dalla più rigorosa immobilità fisica, così come era solito fare Socrate, il quale, stando alle fonti, era capace di rimanere vigile ma insensibile al mondo esterno ed immobile per una intera giornata.

 

Non altro vuol dire quindi l’ammonimento socratico-platonico a ‘separare l’anima dalle cosesensibili e dal corpo’ per ‘isolarla’ e farla così ‘volgere verso il mondo intellegibile’.

 

Nel Fedone (67 c-d)si dice che con tale prassi si opera una ‘catarsi’ che è “la stessa dell’antica dottrina (chiaro riferimento alla sapienza sacra ed in particolare, forse, a quella misterica e orfico-pitagorica) e consiste appunto nel separare il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla (e ciò presuppone una costante prassi meditativa) a raccogliersi e a restare sola in se stessa (la ‘con-centrazione’ !) e a rimanere per il tempo presente (nella vita ‘terrena) e futuro (dopo la morte) sola in se medesima, sciolta dal corpo come da catene. Tale condizione infatti è importante mantenerla anche dopo il decesso poiché l’anima di chi rimane ‘attaccato’ al corpo, dice Platone, non riesce ad allontanarsi dal piano di esistenza da cui è appena ‘uscita’ e precipita in una condizione di angoscia e di turbamento.

 

In un altro passo dello stesso dialogo (79 d) è altrettanto chiara la natura di quel processo attraverso cui l’anima s’innalza al sovrasensibile: “Quando l’anima, restando in sé sola, volge la sua ricerca(cioè alimenta la sua ‘aspirazione’ conoscitiva senza più legarla al sensibile) allora si eleva(per un suo autonomo, spontaneo ed ‘ontologico’ processo di liberazione) a ciò che è puro, eterno ed immortale(cioè al ‘divino’) e avendo natura affine a quello (c’è dunque una identità sostanziale tra lo spirito umano e quello di Dio), rimane sempre con quello ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola…e questo stato dell’anima si chiama ‘sapienza’ (frόnesis, sinonimo di sofίa)”.

 

La sofίa è dunque l’intuizione mistica del divino ed a tale esperienza è naturalmente funzionale la filo-sofίa.

Per acquisire la sofίa bisogna che la coscienza raggiunga (attraverso una catarsi dialettica) una condizione ‘estatica’ che cioè sappia ‘separarsi’ dal sensibile ed il primo ‘grado’ di tale separazione è proprio la vita morale la quale comporta un effettivo distacco dalle pulsioni e dagli istinti del corpo/materia.

 

In tal modo essa può provare quella ‘divina ebbrezza’ che la tradizione misterica indicava come ‘manìa’, ‘entusiasmo’ e conseguire quella conoscenza illuminativa che la stessa tradizione indicava come ‘epopteia’.

 

E’ quindi perfettamente comprensibile come Platone, quando descrive quelle condizioni dello spirito e quei livelli di conoscenza usi sempre la terminologia del sacro tipica delle esoterismo, cioè della tradizione misterica, già ben definita nell’età arcaica dell’Ellade.

 

 

Ed anche Plotino, seguace di Platone e senz’altro il più grande metafisico d’ Occidente, capace di raggiungere l’estasi attraverso una concentrazione meditativa diverse volte nella vita, pochi istanti prima della morte espresse un’analoga convinzione. Egli infatti descrisse al suo discepolo Eustochio quale operazione interiore stesse facendo in quell’esatto momento:

 

Io mi sforzo di ricondurre il divino ch’è in me al divino che è nell’universo” (Porfirio, Vita di Plotino, 2)

 

Per quanto detto, la filosofia è, per i greci, una preparazione alla morte attuata in vita attraverso una trasformazione interiore.

 

Per capire ancor meglio tale prospettiva si deve tener presente il fatto che nella tradizione filosofica greca l’uomo si compone di tre elementi: il corpo (soma), l’anima (psychè) e lo spirito (nous).

L’io ordinario dell’individuo nella vita in questo piano di esistenza è fissato nel corporeo e dipende totalmente da esso sia perché percepisce della realtà solo ciò che è corporeo sia perché, nella prassi esso si orienta sulla base del principio materiale del piacere che vede come ‘bene’ e del dis-piacere che vede come ‘male’.

Altra è la vita del filosofo e dell’iniziato poiché in essi il principio dell’io tende a fissarsi, ad identificarsi con gli elementi più sottili ed invisibili della sua anima: da qui l’aspirazione al Bello (e dunque l’Arte), l’aspirazione al Bene (e dunque l’Etica) e infine quella più elevata perché onnicomprensiva, al Vero (e dunque la Filosofia).

Il Bello, il Bene ed il Vero sono tre aspetti dell’Uno, cioè del Principio primo (Dio, l’Assoluto, l’Essere o comunque lo si voglia chiamare).

Dunque ogni individuo per Platone è strutturalmente orientato verso la dimensione spirituale, l’uomo, diceva Schopenhauer è un animale ‘metafisico’.

Però dei tre elementi ( corpo, anima e spirito) solo il primo è percepibile dai sensi ‘esterni’, gli altri due possono essere percepiti solo dal ‘senso interno’ attraverso la pratica della introspezione attraverso la quale l’io si volge verso l’interno.

 

Se l’anima nella sua essenza è ‘divina’ cioè di natura metafisica (e questa è quell’anima che la filosofia greca definisce correntemente nous e che considera per usa natura ‘separata’, naturalmente ‘dal corpo’) esiste però un’altra dimensione ‘inferiore’ dell’anima, un tipo di anima (sarebbe più propriamente la psychè) più ‘somatica’, più connessa, cioè, al corpo, alle sue pulsioni, ai suoi bisogni. L’essenza di tale anima inferiore non è la consapevolezza, l’autocoscienza che appartengono al nous ma la vitalità, la quale è presente anche negli altri esseri viventi.

Questa va intesa come dýnamis, enérgheia cioè come una energia sottile che collega la coscienza al corpo denso, quella che gli indiani chiamano prana, i cinesi chi, i giapponesi ki.

Questa energia permea tutto l’organismo ed il suo scompenso determina le malattie ‘endogene’ che non hanno cioè una causa fisica esterna.

Per questo non si può veramente curare il corpo se non si cura anche l’anima nella sua duplice dimensione vitale e coscienziale: ogni pensiero, ogni emozione modificano il corpo ed altrettanto ogni modifica di questo comporta una qualche cambiamento nell’ anima, cioè, appunto, sia della sua vitalità che della sua coscienza. E poiché l’uomo ‘incarnato’ si compone di quelle tre dimensioni ( la somatica, la vitale, la coscienziale) e queste sono organiche ed unitarie, correlate cioè tra di loro, non si può guarire realmente un singolo organo se non si guarisce l’individuo (termine che vuol dire appunto ‘indivisibile) nel suo intero.

 

Se il medico vuole dunque curare il corpo, deve saper curare anche l’anima nella sua duplice dimensione di pensiero ed emozione: chi è capace di questo è il vero sofós.

Poiché però nella Grecia del periodo classico filosofia e medicina vennero sempre più distinte disciplinarmente (il che, da un punto di vista tradizionale è già sostanzialmente, per quanto detto, una involuzione) è chiaro che si riconobbe alla filosofia il compito ‘specifico’ di curare l’anima così come alla medicina il corpo.

I principi della iatréia (se vogliamo usare i termini greci) ‘olistica’ (ólos in quella lingua significa appunto ‘intero’) sono chiaramente espressi da Platone nel dialogo intitolato Carmide.

E’da notare che tale convinzione che noi giudichiamo così moderna ( in base alla quale l’organismo deve essere studiato in quanto totalità organizzata e non semplice somma di parti) viene riferita dal filosofo ateniese ad uno sciamano della Tracia, Zalmosside, un uomo ‘divino’ vissuto appunto in un’epoca ‘prefilosofica’ e dunque, a rigore, ‘prescientifica’:

A Socrate che si poneva il problema di come curare un forte mal di testa un medico trace infatti disse:

“Il nostro Zalmosside, che è un dio, vuole che come non si deve tener conto del capo, né il capo senza il corpo, così neppure si deve cominciare a sanare il corpo senza tener conto dell’anima, anzi questa sarebbe proprio la ragione per cui tante malattie la fan franca ai medici greci, perché essi trascurano il tutto ( oti tou olou ameloeien) di cui invece dovrebbero prendersi cura, quel tutto che è malato e dunque non può guarire in una parte. In realtà” soggiungeva “ogni cosa, il male o il bene, non irrompe nel corpo e in tutto l’uomo se non dall’anima, dalla quale tutto proviene, come dalla testa proviene tutto ciò che corre agli occhi; così che si deve cominciare a curare soprattutto quella, se si vuole che la testa e le altre parti del corpo stiano bene. L’anima, o beato” continuava “si cura con certi carmi magici che sono poi i belli discorsi, dai quali cresce nelle anime la saggezza. Quando questa sia cresciuta e sia là presente, allora è facile dare salute al capo e al resto del corpo”. E mentre il Tracio m’insegnava i rimedi e le parole magiche, soggiungeva: “che nessuno ti convinca a curare la propria testa con questa medicina, se prima non avrà affidato la sua anima alla cura dell’incantamento. Perciò anche ora” continuava “si fa questo sbaglio fra gli uomini che taluni cercano d’essere medici dell’uno o dell’altra cosa separatamente, o della saggezza o della salute”. (Carmide, 156e-157c)

 

 

E’ evidente che , nel suo procedere storico, la filosofia ha smarrito del tutto tale prospettiva metafisica, magica, mistica, iniziatica, vitalistica (comunque la si voglia definire) ma così facendo ha smarrito, per così dire, la sua ‘vocazione’, la sua funzione, com’è del tutto palese nel contesto contemporaneo, ma anche la medicina, analogamente, ha smarrito le sue basi sapienziali.

 

Per quanto detto non possiamo comprendere la nascita della filosofia con i parametri della modernità, sarebbe un errore metodologico gravissimo, anche se è quello che per lo più si compie, purtroppo, nello stesso contesto accademico.

 

Se, pertanto il Mito ha tentato di affrontare il tema della natura vera dell’Uomo, della Vita e della Morte nascondendo i grandi interrogatovi esistenziali dietro fantastici racconti, si può dire che anche la filosofia è sorta nello stesso modo, cioè dal confronto con la Morte.

 

 

La filosofia, dunque, abbandonando la forma del mito si pone sin dall’inizio gli stessi interrogativi e spesso ha dato nella sostanza le stesse risposte.

Eraclito, ad esempio, parlando degli esseri viventi e del loro destino sottolineò il nesso inscindibile tra la Vita e la Morte: “L’uno vive la morte dell’altro come l’altro muore la vita del primo”. Per lui tutta le realtà che è in un continuo divenire (panta rei, cioè ‘tutto scorre’) nasce da un conflitto universale (usa il termine polemos che significa ‘guerra’) tra gli opposti; egli infatti afferma: “ La stessa cosa sono il vivente ed il morto, lo sveglio ed il dormiente, il giovane ed il vecchio: questi infatti mutando son quelli e quelli di nuovo mutando son questi” (DK, 22, B 88). In realtà per Eraclito tutti gli opposti sono più propriamente, cioè razionalmente, solo ‘complementari’, parti, aspetti di un’unica inscindibile Suprema Realtà. Infatti dice: “Una e la stessa è la via all’in su e la via all’in giù”( DK B 60). E questa – della unità dialettica degli opposti – è una verità universale, che tutti gli uomini dotati di ragione non possono che condividere: “Ascoltando non me ma il logos, è saggio convenire che tutto è Uno” (DK B 50).

Anche per Parmenide Morte e Vita non sono scindibili, sono solo due aspetti del mondo delle forme sensibili, mondo irreale perché impermalente e transeunte. Se le forme, gli enti individuali nascono e muoiono non nasce né muore l’ Essere, cioè la Vita. La morte dunque non esiste se non dal punto di vista del relativo, del singolo, ma il filosofo cogliendo con la ragione la Totalità capisce che l’Universo, il Divino, è indistruttibile.

 

Ma la filosofia greca conobbe su questi temi anche una visione di tipo ‘materialistico’, come quella di Democrito per il quale il mondo è fatto solo di particelle indivisibili, ‘atomi’, che si aggregano e si disgregano dando luogo alla comparsa e alla scomparsa di tutti gli esseri. Nel solco di tale tesi si posero sia il grande poeta latino Lucrezio che il filosofo dell’età ellenistica Epicuro.

Per quest’ultimo l’uomo, per essere felice, deve allontanarsi dalla superstizione religiosa poiché gli dei o non esistono o, se esistono, sono del tutto indifferenti alle vicende umane, sia dal timore della morte perché se questa disgrega quel composto che è il corpo, impedisce al morto di avere qualsiasi sensazione, di provare quindi qualsiasi male. Nella sua celebre Lettera a Meneceo egli così ammonì il suo discepolo:

« Abìtuati a pensare che nulla è per noi la morte poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza è che per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita, non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere più. Perciò stolto è colui che dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa, ma perché addolora l’attenderla: ciò che infatti è presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il più terribile dunque dei mali la morte non è nulla per noi perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non ci siamo più…il saggio né rifiuta la vita né teme la morte perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere ».

 

Nello stoicismo il tema della morte è affrontato alla luce del concetto di virtù, per cui la morte in sé non è un male ma diventa addirittura un bene se la si affronta con virile coraggio e piena consapevolezza. Così la pensava il filosofo romano Lucio Anneo Seneca che in una delle sue Lettere a Lucilio scrisse:

La morte non è in sé né un male né un bene. Catone se ne servì per uno scopo nobilissimo, Bruto ne fece una cosa vergognosa. Ogni cosa che non ha in sé la bellezza, diventa bella se è accompagnata dalla virtù…La morte ci spaventa perché, mentre sappiamo che cosa c’è nella vita, ignoriamo quello che ci attende nell’al di là e abbiamo orrore dell’ignoto…Bisogna disprezzare la morte più di quanto si è soliti fare, perché su di essa abbiamo credenze molto errate…Ma anche quando ti sarai convinto che codeste sono favole…subentra un’altra paura: si ha paura del nulla non meno degli inferi. Con questi timori, che una lunga tradizione ci ha posto dinnanzi, affrontare la morte con coraggio non sarà una fra le azioni più gloriose che possa concepire la mente umana?” (Lettere a Lucilio, X, 82)

 

In casi estremi il saggio stoico doveva dare dimostrazione della propria spirituale superiorità rispetto al timore della morte preferendo il suicidio alla privazione della libertà per opera di un qualche tiranno o se lo si fosse costretto a fare cose contrarie alla propria coscienza, come accadde proprio a Seneca venuto in contrasto con Nerone.

 

Con il prevalere del cristianesimo nel medioevo il tema della morte ritornerà centrale poiché quella religione vedrà proprio nella costante riflessione su di essa lo stimolo ad una vita tutta orientata verso il Regno dei Cieli. Con la meditatio mortis l’uomo è indotto ad allontanarsi dai ‘beni di questo mondo’, a fuggire da questa ‘valle di lacrime’ ed aprirsi così alla Grazia di Dio.

Inoltre, nel credo cristiano, proprio il momento della morte è decisivo per il destino oltremondano perché la persona, che vive una sola vita, può spirare in una condizione di peccato mortale ed essere così dannato eternamente.

L’angoscia del morire e del giudizio di Dio diventano centrali a tal punto che nella stessa arte medievale diventano ricorrenti ( e a volte quasi ossessivi) temi come quelli del Trionfo della Morte e della Danza macabra.

 

Il cristianesimo però attende anche l’ Apocalisse, cioè la fine dei tempi, la Resurrezione dei morti ed il trionfo definitivo di Dio con il ritorno sulla Terra del Cristo giudice, evento questo che venne ritenuto imminente dalla prima generazione cristiana.

 

E’ bene ricordare che uno dei principali motivi per cui i filosofi ‘pagani’, come Celso e Porfirio, si opposero alla nuova fede venuta dalla Palestina fu proprio la credenza cristiana della resurrezione ‘corporale’ dei morti da loro ritenuta assurda e rozzamente ‘materialistica’. Ad essa contrapposero la credenza tradizionale del trasferimento della coscienza in un corpo ‘sottile’ (quello che Plutarco chiama l’augoidès, cioè il corpo ‘di luce’) a conclusione del processo di morte.

 

 

LA MORTE DOPO LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

 

Con l’Umanesimo ed il Rinascimento italiani finì il medioevo ed iniziò un processo di cambiamento radicale dell’intera cultura occidentale.

L’Umanesimo, che ha le sue origini nella seconda metà del secolo XIV, introdusse nell’intera Europa uno studio rinnovato del mondo classico rivalutando la figura dell’Uomo in polemica con la dimensione religiosa oltremondana tipica del medioevo. Esso operò una rivoluzione filologica che non solo ebbe il merito straordinario di recuperare molti testi della classicità considerati ormai perduti, ma anche di condurre in tal modo ad una lettura critica degli stessi Testi Sacri.

Tale rivoluzione letteraria ‘umanistica fu il fondamento non solo del Rinascimento italiano ma anche della rivoluzione scientifica dei secoli successivi.

Il Rinascimento (che dalla fine del secolo XIV si prolunga a tutto il XVI) fu così definito proprio per il suo programmatico recupero e rinnovamento della classicità (anche nella sua dimensione scientifica) e segnò in tal modo l’inizio della civiltà moderna.

In tale contesto rinacque anche una spiritualità di tipo universalistico che trovò le sue salde fondamenta nella tradizione platonico-plotiniana.

Pensatori come Marsilio Ficino ( che tradusse le Enneadi di Plotino), Giordano Bruno e Tommaso Campanella dietro forme cristiane ripropongono l’idea di una ‘prisca theologia’ cioè di una verità religiosa già presente tra gli uomini quando Gesù comparve in Galilea, minando così, ‘di fatto’, l’esclusivismo dogmatico cristiano e cattolico in particolare.

L’ideale di un ‘rinascimento’ del cristianesimo delle origini, portò a sua volta il luteranesimo non solo a condannare la corruzione ed il temporalismo papale ma anche ad affermare il principio ‘rivoluzionario’ del libero esame della Sacre Scritture, uno degli elementi fondamentali da porre all’origine della laicità europea.

 

Un cambiamento altrettanto radicale nell’ambito della cultura occidentale fu quello operato dalla cosiddetta ‘rivoluzione scientifica’, il cui ambito cronologico si pone tra il 1543, data di pubblicazione del capolavoro di Copernico intitolato La rivoluzione degli astri celesti ed il 1687, anno in cui Newton pubblicò l’opera su I principi matematici di filosofia naturale.

Con Cartesio la filosofia stessa iniziò a considerare l’uomo in maniera ‘meccanicistica’ e a considerare come ‘superstiziosa’ e ‘non scientifica’ ogni visione ‘vitalistica’ dell’uomo.

L’energia vitale e la coscienza stessa finiscono così in occidente per essere considerati come ‘epifenomeni del corpo’, cioè come sue manifestazioni secondarie e dipendenti.

Con ciò era aperta la strada la materialismo moderno.

 

L’esito naturale di tali cambiamenti fu il sorgere e l’affermarsi nel Settecento dell’Illuminismo, cioè di una filosofia che, assumendo come unica guida la Ragione, proponeva un cambiamento radicale e definitivo di tutto il sapere ( si pensi alla celebre Enciclopedia) e della stessa società ( si pensi alla rivoluzione francese del 1789).

Tali sostanziali mutazioni nel quadro culturale determinarono un duplice orientamento: da un lato il razionalismo sviluppò in modo straordinario le scienze della natura, dall’altro l’esigenza di introdurre la ragione nel campo religioso e metafisico condusse a vari tentativi di cambiamento e ‘modernizzazione’ delle credenze e strutture religiose tradizionali.

 

Per il primo aspetto si determinò in modo sempre più netto un indirizzo culturale ‘sensista’, ‘materialistico’, ‘positivistico’, ateo o agnostico in materia religiosa. In tale contesto il tema della morte viene ricondotto e volutamente limitato all’ambito biologico o, tutt’al più, psicologico e sociale.

Per il secondo aspetto l’istanza umanistica di libertà critica anche nel campo religioso e l’ideale di una fratellanza universale che eliminasse una volta per tutte le cause delle guerre di religione, indusse molti pensatori ad elaborare la dottrina del ‘deismo’.

Questa si può ricondurre ad un modo di concepire Dio riferendogli solo gli attributi compatibili con la ragione naturale, prescindendo da qualsiasi ‘rivelazione’ troppo spesso contraddittoria, assurda ed antropomorfica.

In tal caso si tenta di affrontare il tema della morte in modo molto diverso da quello ortodosso cattolico o protestante che fosse, cercando sia di ‘sdrammatizzarlo’ che di ‘razionalizzarlo’; infatti i deisti pur ammettendo l’esistenza di un’anima e quindi una sua sopravvivenza alla morte, affermano con nettezza che il giudizio oltremondano di Dio non può che tener conto delle azioni dell’individuo e non delle sue credenze.

 

Solo con la fine delle terribili guerre di religione tra cattolici e protestanti iniziò così a manifestarsi sempre più apertamente una spiritualità non confessionale e quindi anche un diverso modo di approcciarsi al tema della morte.

Nel Settecento Voltaire e Kant posero con nettezza il problema di una nuova religiosità compatibile con il libero esercizio ed i principi della ragione: il filosofo francese affermò la necessità di giungere al concetto di un Dio unico per tutti gli esseri umani, superando così ogni appartenenza confessionale collegata ad una qualche rivelazione storica per sua stessa natura limitata, esclusivista ed intollerante, il pensatore tedesco, a sua volta, pose a fondamento universale della religiosità il principio etico della fratellanza tra tutti gli esseri umani. Questo si traduce nell’imperativo categorico, cioè un comando interiore che prescrive di fare il bene per il bene stesso, senza finalità di natura egoistica, foss’anche la salvezza dell’anima.

 

Il teista – dice Voltaire nel suo celebre Dizionario filosofico – non sa in qual modo Iddio punisce, né come egli premia, né come perdona; perché egli non è tanto temerario da lusingarsi di conoscere in qual modo può agire Iddio: egli sa che Dio agisce, e che è giusto…Concordando in questo principio col resto dell’universo, egli non appartiene però a nessuna di quelle sette che si contraddicono tutte. La sua religione è la più antica e la più estesa, perché la semplice adorazione di un Dio ha preceduto tutte le dottrine del mondo… Egli ha dei fratelli da Pechino alla Cajenna, e stima tutti i saggi suoi fratelli. Egli è persuaso che la religione non consiste né nelle opinioni di una metafisica incomprensibile né in vane cerimonie, ma nell’adorazione e nella giustizia. Fare il bene è il suo culto; obbedire a Dio, è la sua dottrina. Il maometto gli grida: “Bada a te se non fai il pellegrinaggio alla Mecca!” “Sventura a te,” gli dice un colletto bianco, “se non fai un viaggio a Nostra Signora di Loreto!” Egli sorride di Loreto e della Mecca, ma soccorre il misero e difende l’oppresso.”

 

 

Con l’Ottocento ed il Novecento il tema della morte considerato nella sua dimensione metafisica è progressivamente scomparso dal dibattito intellettuale, essendo di fatto sorta in Europa una nuova ‘fede laica’ nella Scienza e nel Progresso tutta intenta a costruire una migliore condizione per gli esseri umani di ‘questo’ mondo.

Una parziale eccezione a tale orientamento è stato l’esistenzialismo, corrente filosofica sorta in Europa nel periodo collocato tra le due guerre mondiali.

 

Essa ha sottolineato, proprio contro il trionfante ed onnipervadente pensiero ‘oggettivistico’ della scienza, la irriducibilità dell’uomo a ‘cosa’, in quanto egli è ente consapevole e libero; inoltre, contro la tradizione metafisica occidentale (culminata nel sistema hegeliano) ha fatto valere il principio della coscienza ‘individuale’ in polemica con ogni prospettiva ‘totalizzante’ (si chiami questa: Dio, Assoluto, Spirito o quant’altro) che conduce alla svalorizzazione dell’esistente concreto, cioè la singola persona storicamente esistente.

 

Per l’esistenzialismo l’uomo, anche dopo la caduta delle tradizionali certezze religiose o metafisiche, non può fare a meno di confrontarsi con la ineluttabilità della sua stessa morte e con il relativo sentimento di angoscia.

Su questa linea di pensiero si collocano pensatori come Karl Jaspers, Martin Heidegger (nel suo testo fondamentale Essere e Tempo del 1927) e Jean Paul Sartre ( la cui opera fondamentale L’Essere e il Nulla data al 1943) i quali concordano, al di là delle diversità prospettiche individuali, sul fatto che la morte sia comunque ed irriducibilmente il termine ultimo (e dunque fondamentale in quanto imprescindibile) di ogni libertà umana e di ogni progettualità individuale.

In Heidegger è proprio la morte la ‘possibilità’ più propria dell’Esserci (cioè dell’individuo concretamente esistente) e quindi quella più “propria, incondizionata, certa, e come tale, indeterminata ed insuperabile” (Sein und Zeit, 52). In conseguenza di ciò per il pensatore tedesco solo il costante confronto con la morte può salvare l’uomo da una esistenza in autentica: “Il filosofo – afferma Heidegger – progetta la sua esistenza autentica come un ‘essere per la morte’ “.

L’esistenza ‘inautentica’, per contro, è quella dei più, definibile come banale, convenzionale, insignificante, meccanica, omologata all’opinione comune, passiva, priva di una vera consapevolezza.

 

Per una civiltà come quella contemporanea ormai universalmente improntata ai valori effimeri del consumismo edonista la morte è sostanzialmente un tabù ma per gli antichi, come s’è visto era la Maestra del Vivere tanto che uno dei precetti più ricorrenti della saggezza tradizionale invitava a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo della vita, quindi non solo con intensità e piena consapevolezza ma anche con senso di responsabilità nei riguardi di se stessi e degli altri, dunque con eticità, con la buona coscienza di chi si sforza di compiere il proprio dovere.

 

La filosofia ‘accademica’, per suo conto, opera ‘socialmente’ quasi esclusivamente nell’ambito delle problematiche della bioetica.

 

Non si può però ignorare che tale situazione in cui essa di fatto ha rinunciato del tutto a svolgere la sua originaria funzione di ricerca ‘metafisica’ sta determinando una reazione vivace in molti studiosi che si propongono, al contrario, di rivalutare le radici ‘mistiche e sacrali’ del pensiero antico.

Paradossalmente tale reazione è stata favorita proprio dal positivismo ottocentesco, il quale ponendosi programmaticamente solo sul piano dei ‘fatti’ ha determinata il nascere di una ricerca –definita’ metapsichica’ o ‘parapsicologica’- che proprio sul piani ‘empirico’ ha evidenziato l’esistenza di una serie di ‘fenomeni’ di chiara origine psichica i quali risultano inesplicabili da una scienza ‘materialistica’.

 

A ciò si aggiunga la nascita, nel contesto dello stesso positivismo della psicanalisi la quale ha ‘scoperto’ qualcosa che era in realtà ben noto nell’antichità cioè il fatto che eventi psichici (consci o inconsci) possono determinare cambiamenti somatici nell’uomo e ciò contro l’assunto positivistico di un’origine biologica di tutte le patologie psichiche.

Ciò implica, naturalmente, l’esistenza di un’anima quantomeno nel senso dell’anima ‘inferiore’ platonica, cioè di forze non meccaniche (percepite dall’uomo come emozioni, passioni, stati d’animo) che ‘scorrono’ più o meno perviamente nel corpo determinando salute e malattia.

Questo è il fondamento filosofico della medicina psicosomatica.

Com’è noto la tecnica ipnotica usata da Breuer e Freud (oltre che da Charchot ed altri) era ben nota alle culture più antiche che la usavano consapevolmente a fini terapeutici suggestionando l’anima per guarire con essa il corpo (del resto, come ben sapeva l’illustre padre della psicanalisi, nulla di diverso facevano Paracelso, Mesmer e Cagliostro…).

Lo stesso meccanismo dell’abreazione era noto e indicato, propriamente, col termine ‘catarsi’ giacché l’anima in quel modo si liberava di influenze sottili nocive che nell’immaginario icastico antico era personificato dai demòni che cercano di entrare nello spazio della coscienza umana.

L’anima in tal modo, liberata da fobie, ossessioni, rimorsi, ansie, sensi di colpa, angosce e quant’altro, ritornava ‘pura’ perché, si diceva, ‘una cosa è pura solo quando è se stessa’.

Tale condizione corrisponde ad un io è sereno, armonico, vitale, in cui non abitano forze perturbanti, ostili.

 

Attualmente una serie di correnti di pensiero sta rivalutando o comunque riconsiderando le dottrine antiche sulla struttura ‘sottile’ dell’uomo e sulla morte anche alla luce delle scoperte scientifiche contemporanee ed in particolar modo della fisica quantistica.

Se si vuole indicarne qualcuna delle correnti di pensiero più feconde e significative ci si può riferire alla scuola psicanalitica junghiana, alla psicologia transpersonale, alla filosofia ‘esoterica’.

Uno dei maggiori esponenti di quest’ultima, René Guénon, ha particolarmente sottolineato il fatto che la forma attuale della civiltà, basata su una generale e radicale negazione della dimensione spirituale dell’essere umano (e che quindi vede la morte sostanzialmente solo come un fatto biologico) è del tutto unica ed ‘anormale’ nel panorama millenario dello sviluppo della civiltà umana. Egli infatti scrive nell’opera in cui illustra i Simboli della scienza sacra:

 

La civiltà moderna appare nella storia come una vera e propria anomalia: fra tutte quelle che conosciamo essa è la sola che si sia sviluppata in un senso puramente materiale, la sola altresì che non si fondi su alcun principio d’ordine superiore. Tale sviluppo materiale, che prosegue ormai da parecchi secoli e va accelerandosi sempre più, è stato accompagnato da un regresso intellettuale che esso è del tutto incapace di compensare. Intendiamo qui, beninteso, parlare della vera e pura intellettualità, che si potrebbe anche chiamare spiritualità, e ci rifiutiamo di dare questo nome a ciò a cui si sono specialmente applicati i moderni: la cultura delle scienze sperimentali, in vista delle applicazioni pratiche alle quali esse sono suscettibili di dar luogo“.

 

Tale prospettiva radicalmente critica nei confronti del mondo moderno in nome di uno spiritualismo tradizionale (si badi bene di natura filosofico-esoterica e non devozionale-religiosa), ha inoltre ispirato pensatori come Julius Evola e Frithjof Schuon che si sono a loro volta avvalsi anche dei fondamentali studi storico-religiosi di Mircea Eliade.

 

Uno dei meriti più rilevanti della psicanalisi è quello di aver riproposto l’attenzione sul tema dell’anima attraverso il dibattito sul concetto freudiano di libido, su quello junghiano di energia vitale, su quello reichiano di orgone da cui si è sviluppata la bioenergetica di Lowen.

Nell’ambito della psicologia, ed in continuità con gli studi magistrali di Jung, gli studi moderni più interessanti sul problema sono, a nostro parere, oltre quelli ben noti di Hillman, quelli dello psichiatra cecoslovacco Stanislav Grof le cui opere, come ad esempio quella intitolata Il gioco cosmico della mente del 1988, illustrano una ricca gamma di esperienze interiori moderne che lo stesso studioso riconosce straordinariamente simili a quelle ‘remote’ raccontateci da Platone in occidente o dal Libro tibetano dei morti in oriente (in cui si descrivono gli stati post-mortem e le tecniche yoghiche necessarie per orientare l’anima nella nuova dimensione esistenziale).

Per tal motivo Grof propone un ‘nuovo’ paradigma ‘multidimensionale’ della realtà che, a ben considerare, è sostanzialmente identico a quello delle antiche tradizioni spirituali (ed in particolar modo quelle esoteriche) che interpretavano la morte come un ‘passaggio’ della coscienza umana ad altra forma di vita.

In conseguenza di tali tipi di studi si è sviluppata ed anche notevolmente diffusa negli ultimi decenni la cosiddetta ‘psicologia transpersonale’ ( la quale ipotizza l’esistenza di un inconscio superiore oltre quello inferiore scoperto da Freud) che ha i suoi maggiori esponenti, oltre che nello stesso Grof, in Charles Tart, in Ken Wilber e può annoverare tra i suoi ‘pionieri’ Roberto Assaggioli e Abraham Maslow. Una buona sintesi della prospettiva transpersonale è quella di Laura Boggio Gilot nel testo Forma e sviluppo della coscienza.

 

Nell’ambito, infine, delle ricerche parapsicologiche, a partire soprattutto dagli anni settanta del XX secolo sono state effettuate molte indagini circa le cosiddette ‘esperienze extracorporee’ (in sigla: O.B.E. = Out of Body Experiences) e quelle realizzate nel periodo di pre-morte (in sigla: N. D. E. = near death experiences) studi che hanno sviluppato quelli, ad esempio, dell’italiano Ernesto Bozzano il quale in merito scrisse due opere: Le visioni dei morenti e La crisi della morte. Pur essendo controversi i giudizi circa la ‘fondatezza oggettiva’ dei relativi resoconti che spesso riferiscono di uno spostamento della coscienza in altre dimensioni dell’Essere a seguito di eventi gravemente traumatici, rimane incontestabilmente interessante quantomeno la ‘realtà psicologica’ di quelle straordinarie esperienze la cui esistenza è stata documentata dalla ricerca antropologica presso tutte le più diverse culture umane.

 

In effetti esse sono straordinariamente analoghe a quelle vissute dai nostri antenati i quali, quindi, non a caso celebravano spesso il decesso allo stesso modo di una nascita.

Ciò comportava oltre che il considerare quel momento del trapasso come ‘sacro’ anche la opportunità (se non la necessità) di una partecipazione collettiva a quello che diveniva un ‘rito’, giacché l’anima doveva essere accompagnata nel transito al mondo spirituale dalla comunità per mezzo di un’aura protettiva, di serenità, di preghiera e meditazione.