Psicologia e Filosofia per un nuovo Umanesimo:

dalla terapia all’autorealizzazione

 

di Attilio Quattrocchi

La psicologia moderna ha le sua antiche radici in quella riflessione sull’anima (la parola letteralmente significa appunto: studio dell’anima – psichè – attraverso l’attività del logos) che i greci iniziarono ad elaborare sin dal comparire della filosofia nelle colonie della Ionia tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a. C.
Tutti i pensatori greci hanno formulato una qualche dottrina sull’origine, la natura, la funzione ed il destino dell’anima ma, in linea di massima, sin da quei tempi antichi, il campo delle opinioni si divise in due parti radicalmente contrapposte: quella che attribuiva alla coscienza umana un’origine metafisica e quindi riteneva il collegamento di essa con il corpo un fatto non strutturale (il corpo nella tradizione orfico-pitagorica-platonica è il ‘carcere-tomba’ a cui lo spirito nella vita terrena è drammaticamente vincolato) e quella che, al contrario, intendeva l’anima semplicemente come “armonìa” del corpo e quindi tutt’al più come una realtà ‘energetica’ avente l’unica funzione di dare ordine ai processi organici e per ciò stesso destinata a dissolversi con la morte.
Questa contrapposizione dottrinale naturalmente è presente anche nella cultura contemporanea e non c’è da stupirsene: da sempre l’uomo in quanto ente consapevole di se stesso s’è posto una domanda a cui corrisponde un dilemma angosciante: qualcosa dell’essere umano, in particolare la sua stessa autocoscienza sopravvive a quella parentesi tra nascita e morte che noi chiamiamo ‘vita’?

Tale domanda implica il problema della ‘natura’ dell’anima, cioè di quella ‘realtà coscienziale’ che noi sentiamo di essere ed i cui processi sono ‘invisibili’ sul piano della oggettività.
Certo l’io, lo spirito è una realtà, lo è quantomeno come consapevolezza intima di un fluire di idee, stati d’animo, sentimenti, volizioni, desideri, immaginazioni e quant’altro…ma si tratta di una realtà sui generis in quanto di tale ‘mondo’ciascuno ha un’evidenza intima, tutta soggettiva. L’io degli altri ci è ignoto di per sé; tutt’al più lo possiamo dedurre dalla comunicazione e dall’azione, cioè dagli eventi ‘esterni’ attraverso cui l’io si palesa.
Siamo dunque nell’assoluta impossibilità di conoscere la natura dell’anima cioè la nostra stessa natura ed il nostro destino?
Dobbiamo parlare della psiche solo in ordine a processi, funzioni, strutture, comportamenti, relazioni sul puro piano ‘storico’ e ‘materiale’ ed escludendo così, una volta per tutte, qualsiasi discorso ‘metafisico’?

E’ fuor di dubbio che oggi, quantomeno nella cultura ‘ufficiale’ (che corrisponde a quella ‘accademica’) la ‘metafisica’ è stato bandita; anzi, si può dire che la cultura moderna e contemporanea è frutto e conseguenza di una distruzione ‘occidentale’ della metafisica iniziata con la Rivoluzione scientifica del Seicento, proseguita con il razionalismo del Settecento illuministico ed approdata già nella prima metà dell’Ottocento al positivismo il cui motto in Germania, non a caso, fu “Keine Metaphisik mehr! “( “niente più metafisica!”).
Non solo la scienza ma anche la filosofia ha avuto un ruolo fondamentale in tale radicale cambiamento culturale; cambiamento che con giuste ragioni può essere definito anche ‘estremo’ perché una qualche visione ‘metafisica’(pur con tutte le sue varianti…) è stata tradizionalmente alla base di tutte le culture pre-moderne.

Bisogna riconoscere a Kant il ruolo fondamentale da lui svolto a tal proposito.
Da quando il filosofo tedesco con la sua Critica della Ragion Pura dimostrò (riprendendo però, bisogna dirlo, antiche tesi scettiche) che l’uomo, a causa dei suoi limiti intrinseci, non può costruire una metafisica come scienza, l’opinione prevalente nella cultura occidentale è stata che è del tutto assurdo, o quantomeno inutile, porsi una domanda quale quella concernente una possibile natura ed origine metafisica dell’anima.
Dell’ < io penso>, affermò il filosofo tedesco, cioè della nostra autocoscienza non possiamo conoscere la natura profonda (nel suo linguaggio si dovrebbe dire la sua essenza noumenica) ma possiamo conoscere e studiare solo il suo modus operandi di centro di unificazione delle nostre esperienze interiori ed esteriori.

Su tale linea illuministico-razionalistica si sono così poste tutte quelle riflessioni che hanno tentato di studiare l’anima in una prospettiva puramente empiristica e positivistica, sul piano cioè di una osservazione ‘sperimentale’.
Fu, in fondo, anche questo lo scopo del filosofo scozzese David Hume che ritenne di aver scoperto (novello Newton!) le leggi che regolano le nostre ‘automatiche’ associazioni mentali tra le idee individuandole nei principi di connessione per contiguità spaziale e temporale, per relazione di causa-effetto e per somiglianza. Hume si convinse di aver individuato in tal modo il modo di connessione di una forza puramente ‘naturale’ che rappresenta per la mente ciò che la forza di gravità rappresenta per il cosmo.
E’ questo il motivo per il quale la psicologia ‘occidentale’ ha assunto progressivamente il solo compito -importante, ma pur sempre limitativo- di classificare e capire le connessioni tra i puri ‘fatti di coscienza’.
In realtà, a ben vedere, tale atteggiamento non è presentabile come una legittima estensione ed applicazione della prospettiva filosofica kantiana.
Anche a voler prescindere da quanto Kant ha poi scritto nella Critica della Ragion Pratica, nella Critica del Giudizio e nell’altra sua fondamentale opera La Religione nei limiti della sola Ragione, nella stesso testo dedicato alla Ragion Pura egli non esclude in assoluto la possibilità di una esperienza metafisica ma contesta solo il fatto che da esperienze metafisiche soggettive si possa dedurre una scienza, cioè una dottrina che pretenda di dare del mondo metafisico una descrizione esaustiva e concordemente accettabile.
Insomma il ‘sapere metafisico non potrebbe mai essere della stessa ‘natura ‘ di quello scientifico, poiché non ‘verificabile’ oggettivamente. In altri termini: la metafisica non può pretendere di conseguire lo stesso grado di persuasività che conseguono le scienze empiriche le quali possono porsi sul piano dei fatti riscontrabili, verificabili e sistematizzabili perché ‘oggettivi’, ‘misurabili’ e, spesso, ‘riproducibili’.
Secondo Kant, insomma, vale per l’anima quello che vale per Dio: possiamo anche averne una esperienza elevandoci ad una dimensione altra da quella puramente ‘materiale’(e ciò si può ottenere a suo avviso coltivando un abito morale) ma da ciò non possiamo dedurre una dottrina sistematica ed asseverativa. Dio e l’anima sono solo dei ‘postulati’necessari per spiegare la universalità della esigenza etica dell’uomo ma nient’altro che questo; di essi, dello loro ‘esistenza’e ‘natura’ non si può e non si potrà mai dare ‘dimostrazione’ e dunque ‘certezza’.
La posizione ‘scettica’ di Kant non consiste in altro, quindi, che nel ribadire il concetto antico (delfico e socratico) che all’uomo non è concesso squarciare con la ragione il velo del Mistero che lo avvolge.
Per il filosofo tedesco una metafisica che con procedimenti logico-discorsivi voglia discettare sul mistero è una pura insensatezza. Così viene colpita, a ragione e definitivamente, la metafisica ‘argomentativa’, ‘dialettica’, ‘raziocinante’, quella che storicamente –soprattutto in Occidente- ha preteso con una serie di ‘ragionamenti astratti’ di determinare le ‘essenze’, cogliere definitivamente la struttura del reale’, ma non viene contestata la possibilità di una esperienza metafisica che si ponga al di là della logica con cui costruiamo il sapere scientifico.
Non è un caso che già nel mondo antico, sia orientale che occidentale la possibilità di una esperienza metafisica, accompagnata dalla persuasione della impossibilità per l’uomo di elaborare una qualche ‘dottrina’ su di essa, diede origine alla cosiddetta ‘teologia negativa’, per la quale possiamo dire ciò che Dio non è, mai ciò che è; come disse Plotino: “La Realtà divina per sua natura è ineffabile”.

Quindi la posizione di Kant fu in realtà molto più sottile di quel che spesso non sia stato inteso: egli distingue tra una ‘razionalismo naturalistico’ ed un razionalismo ‘puro’: il primo è un falso razionalismo perché esclude a priori la possibilità di altre dimensioni dell’essere oltre quelle puramente ‘naturali’ e quindi non è consapevole dei limiti della nostra sensibilità e di quelli della stessa nostra ragione, per contro il ‘razionalismo puro’(l’unico che ha titolo per definirsi tale), pur riconoscendo il ruolo essenziale e imprescindibile della ragione nella costruzione del sapere umano, ciò nondimeno ne conosce i limiti e non cade in quello scientismo che è tanta parte della cultura ‘accademica’ dei nostri giorni.
Per Kant, dunque, non possiamo dunque parlare della metafisica come ‘dottrina’, cioè come ‘scienza’, possiamo però parlare della metafisica, oltre che come ‘esigenza’, anche come possibile ‘esperienza’ sovrarazionale, cioè come possibilità di percezione di una dimensione non ordinaria del Mondo, cioè dell’Essere.
La filosofia kantiana quindi non giustifica in realtà quella posizione del tutto ostile che la cultura occidentale ha assunto poi nell’Ottocento nei confronti della metafisica; la cultura positivistico-razionalista tentò impropriamente di farsi forte delle sue argomentazioni proprio per giustificare le sue pretese e preclusioni teoriche.

Alla cultura contemporanea, che ha seguito quel modello culturale così intransigente quanto ‘dogmatico’, va ricordato che la esperienza metafisica non può che riferirsi ad una conoscenza di natura intuitiva che ciascun individuo può avere nel suo intimo.
Inoltre non è giustificato il totale disinteresse della ‘cultura ufficiale’per la metafisica; interesse che dovrebbe quantomeno trovar ampio campo nell’antropologia e nella psicologia perché le ‘esperienze interiori’ non sono meno ‘esperienze’ di quelle ‘esteriori’ e anche la persona più scettica deve ammettere che esse, anche se non sono reali ‘ontologicamente’, lo sono almeno e comunque in quel soggetto umano che ‘costruisce la storia’.

Si può a tal punto comprendere il motivo per il quale proprio nel momento in cui la psicologia occidentale ha assunto programmaticamente un ‘puro’ carattere ‘descrittivo’ in analogia con quello delle altre discipline, ha ottenuto lo status di disciplina ‘scientifica’.
In termini molto semplici si può dire quindi che la psicologia come ‘scienza’ nasce in conseguenza di una autolimitazione, cioè nasce nel momento in cui rinuncia esplicitamente e definitivamente non solo a porsi quelle domande ‘filosofiche’ o ‘metafisiche’(il che è lo stesso, giacché da sempre la filosofia tende ad identificarsi con la metafisica) che l’avevano fatta nascere nel VII secolo a. C., ma anche ad indagare, pur con il necessario rigore, quelle ‘zone’ della coscienza umana in cui i collocano le ‘esperienze metafisiche’.
La psicologia occidentale non avendo colto le sottigliezze dialettiche di Kant, per il quale la scienza vale solo nel mondo ‘fenomenico’, ha finito per procedere verso una strada integralmente e pregiudizialmente positivistica, escludendo dal campo del ‘sapere’ tutti quei fenomeni e quelle esperienze interiori che non sono compatibili con una visione deterministico-meccanicistico-biologistica.
Per il positivismo è’ reale solo ciò che è quantificabile e sensorialmente percepibile (nel linguaggio di quella scuola di pensiero il termine ‘positivo’ significa appunto: reale, effettivo, sperimentale, efficace, fecondo, pratico, in opposizione a tutto quel che viene giudicato astratto, illusorio, metafisico, infecondo, inutile).

Ma, per nostra fortuna…, la realtà è più forte di tutte le dottrine: esistono fatti e esperienze che non sono ‘quantificabili’, ‘riproducibili’, ‘sistematizzabili’ ma che non…cessano di essere reali!
Per questo il quadro del sapere scientistico-positivistico è oggi in una condizione di palese crisi, e all’interno di questo quadro lo è anche la psicologia.
Tuttavia diverse ‘novità’ fanno ben sperare in una evoluzione della conoscenza umana che recuperi anche ciò che di valido era contenuto nella ‘sapienza antica’; anzi, tale processo di ‘recupero’ può andare a nostro avviso ben al di là di quello che comunemente si pensa.

Lo studio dell’anima nel mondo antico, invece, era strutturalmente connesso con la visione metafisica e partiva dalla considerazione che l’uomo è una realtà composita, multidimensionale, strutturata in corrispondenza con gli ‘stati molteplici dell’Essere’.
I greci parlavano generalmente di tre suoi elementi costitutivi: il corpo (sòma), l’anima (psichè) e lo spirito (noùs) che sono anche tre ‘modalità’ o ‘piani’ della Realtà: la modalità materia (hyle), la modalità vita (bìos), la modalità coscienza (pnéuma o lògos).
L’anima ( da ànemos, che in greco significa ‘respiro’) era propriamente, cioè in senso specifico, l’energia vitale che gli esseri umani hanno in comune con gli altri esseri viventi la quale si manifesta nell’organismo come forza dinamica, capacità percettiva, sensibilità istintiva, capace di regolare le funzioni organiche ed intimamente connessa con la vita emozionale.
Lo spirito invece era la consapevolezza stessa, la capacità logica di elaborare concetti, formulare giudizi e collegarli attraverso sillogismi, la fonte dell’autocoscienza, l’elemento distintivo e ‘divino’ peculiare dell’essere umano in quanto tale; in genere solo esso era considerato propriamente ‘metafisico’.
Queste tre dimensioni dell’Uomo e della Realtà hanno fatto sì che l’antichità classica (così come, mutatis mutandis, altre culture ancora più antiche di essa e persino di continenti diversi) abbia sempre accettato una dottrina implicante un rapporto analogico tra Mondo ed Uomo, tanto da definire quest’ultimo un Microcosmo, cioè un Piccolo Universo.
Con il corpo, si diceva, l’Uomo appartiene alla Materia universale, da cui fisicamente viene ed a cui fisicamente ritorna, con l’Anima appartiene alla Vita universale da cui viene ed a cui ritorna, con lo Spirito appartiene alla Coscienza universale da cui proviene ed a cui ritorna attraverso un percorso di numerose esistenze (metempsicosi).
Da tale visione scaturiva una dottrina (ben presente anche in Oriente) in base alla quale si sosteneva che quando l’anima e/o lo spirito si ammalano, cioè diventano ‘disarmonici’, determinano disfunzioni e malattie anche del corpo, motivo per cui era poco efficace una cura del corpo senza la scoperta della causa occulta di quella condizione, senza quindi la preventiva cura dell’anima.
A ciò valevano anche nel mondo antico pratiche di tipo magico o religioso, capaci comunque di ‘suggestionare’ positivanente l’animo del malato ispirandogli ‘fiducia’in una superiore forza di guarigione. Questa era ritenuta ‘immanente’, cioè insita nell’uomo come vis medicatrix naturae e quindi passibile di consapevole ‘attivazione magica’, altre volte, quando la si considerava ‘trascendente’, si riteneva di poterla egualmente suscitare attraverso una pratica d’invocazione religiosa (si pensi, ad esempio, all’importanza nel mondo antico del culto di Esculapio, il dio della medicina, rappresentato con una verga intorno a cui è attorcigliato un serpente…).
In particolare la medicina antica ha sempre affermato, ancor prima d’Ippocrate (considerato discendente di Esculapio), che le emozioni, soprattutto le più intense, sono quelle condizioni dello spirito che più incidono sulla salute, a volte con esiti anche mortali.
Se questi erano gli assunti più generali del pensiero antico sull’anima e sul suo rapporto con il corpo, è evidente che il positivismo si pone proprio agli antipodi d’essi.

Ma ogni dottrina deve sempre confrontarsi con la Realtà, per cui non è certo un caso se un qualche recupero delle dottrine antiche iniziò proprio nell’ Ottocento e nel contesto del trionfo culturale positivistico. Infatti numerosi studiosi, ponendosi appunto sul piano dei fatti, misero in evidenza tutta una serie di fenomeni non spiegabili con i consueti parametri scientifici e diedero inizio a quegli studi che vennero definiti di metapsichica o di parapsicologia.
E’ indubbio che molte di tali indagini, condotte con tutto il rigore delle procedure scientifiche, hanno incrinato sempre più il ‘paradigma’positivistico ed in particolare hanno posto in discussione quella prospettiva ‘riduzionistica’ che ha teso sempre a ricondurre i ‘fatti psichici’ univocamente ad eventi esterni ed in particolare a problematiche sociali, relazionali oltre che a modificazioni biologiche e fisiologiche.

A noi sembra che un punto di svolta nel processo di riavvicinamento tra psicologia e filosofia, così come tra scienza moderna e sapienza antica, sia da identificare con la comparsa della psicanalisi.
Dal punto di vista storico-culturale si può affermare che proprio il medico viennese spezzò il paradigma positivistico nel momento in cui dimostrò che non si potevano interpretare tutti i disturbi della personalità in chiave somatica. Tale atteggiamento ‘materialitico’ induceva in quel tempo, com’è noto, a non prendere in considerazione alcuni stati psiconevrotici, come l’isteria, semplicemente poiché non relazionabili con corrispondenti lesioni organiche.
L’esperienza clinica e gli studi di Freud hanno sistematicamente confermato, al contrario, il principio che ciò che accade all’anima accade anche al corpo e viceversa, per cui molte malattie psichiche o somatiche hanno un’origine puramente ‘coscienziale’.
Come diceva la sapienza antica: l’anima può far ammalare il corpo.
E’ significativo – anzi, ‘oltremodo’ significativo per noi – il fatto che le scoperte iniziali, quelle fondamentali della psicanalisi, siano avvenute quando furono affrontati casi clinici anche gravissimi con l’ipnosi, cioè con una tecnica di esplorazione dell’anima e di guarigione antichissima, considerata nel contesto del positivismo una pura superstizione, opera di assurda stregoneria e addirittura parte della ‘magia nera’.
Facendo ‘rivivere’ con l’ipnosi esperienze traumatiche, soprattutto infantili, Breuer e Freud riuscirono però nel loro intento terapeutico. Con il loro ‘metodo catartico’ facevano scaricare (abreagire) ai pazienti quelle profonde emozioni inespresse che avevano fatto ‘ammalare la loro anima’ e poi, spesso, anche il corpo.
In tal modo si determinavano inaspettate e ‘miracolose’ guarigioni ‘somatiche’ a cui interiormente corrispondeva un rinato senso di benessere emotivo e la percezione di una avvenuta ‘purificazione’.
I due studiosi austriaci compresero così che il riaffiorare del ricordo ha efficacia terapeutica solo se riporta alla luce della coscienza gli affetti e le emozioni (spesso molto dolorose e per questo rimosse e ‘censurate’ dall’io) provate proprio nel momento rievocato; una ‘fredda’ e pura ricostruzione degli eventi, infatti, non creava le condizioni della catarsi terapeutica.
E’ l’emozione che fa ammalare ed è solo l’emozione che può far guarire.
Il sintomo isterico o nevrotico che compare nella sfera somatica (che nel caso di Anna O., studiato nei Saggi sull’isteria, si manifestava anche in modi oltremodo drammatici come cecità, paralisi, idrofobia etc.) risultò così espressione del contrasto tra il conscio e l’inconscio, in particolare con quella parte del deposito mnemonico autobiografico in cui gli eventi traumatici vengono a depositarsi dopo essere stati espulsi/rimossi dalla coscienza di veglia.
Il sintomo è espressione insomma di una forza emozionale che vuole ‘emergere’ e che un io non sufficientemente ‘forte’ e ‘strutturato’ non è in grado di ‘reprimere’, di ‘soffocare’, di ‘eliminare’.
In tal caso gli eventi traumatizzanti non sono stati ‘metabolizzati’, ‘integrati’, ‘compresi’, portati cioè alla chiara luce della coscienza e depotenziati della loro carica emotiva.
Per un io ‘debole’ è così assolutamente necessario che – protetto in una situazione terapeutica – si esprimano e liberino compiutamente quelle emozioni che nel momento dell’evento traumatizzante non vennero manifestate e che per tal motivo finirono per essere ‘imprigionate ‘ nel corpo e nei recessi più oscuri dell’anima.
Freud scoprì proprio con l’ipnosi anche l’importanza della elaborazione simbolica delle esperienze traumatiche operata dall’io per difendersene e pose così una della pietre miliari della ricerca psicanalitica: risultò chiaro che per prevenire o guarire i sintomi isterici era necessaria non solo la reazione ed espressione affettiva (abreazione) ma anche la elaborazione conscia dell’evento traumatico (comprensione del significato).
Proprio per quanto detto, a nostro avviso, il compito ‘storico’ della psicanalisi, cioè la meta della sua evoluzione come ‘scienza dell’anima’ è quello di indicare i modi attraverso i quali un io possa acquisire quelle capacità di controllo sugli stati emotivi che non consistano evidentemente in una sistematica azione di rimozione e inibizione ma nella creazione di una condizione di forza e stabilità che sono propri di un io saldo e maturo.
Un io ‘integrato’ è un io che sa trascendere gli eventi, non ne risulta del tutto vincolato, trascinato, soffocato, perché sa porsi ‘al di sopra di essi , si ‘sente’ al di sopra di essi’: è un io che può rinsaldarsi non solo attraverso l’acquisizione di una saggezza esistenziale (si pensi agli ideali stoici dell’atarassia, cioè di una superiore imperturbabilità) ma che può trovare forza e luce attraverso di un allenamento alla trascendenza quale è una pratica meditativa.
Chi può oggi onestamente contestare, persino nell’ambito accademico, che non sia ormai dimostrato ‘empiricamente’, ‘oggettivamente’ il principio che le ‘disarmonie dell’anima’ provocano disfunzioni e malattie del corpo? Il fatto che la scienza non sia ancor oggi del tutto in grado di spiegare esaustivamente i meccanismi psichici e biologici di quei processi di guarigione e di risanamento non rende quegli eventi medici meno veri…C’è da sperare solamente che nuove scienze quali la psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) possano portare nuova luce in tale campo.
Del resto la stesa fisica che costruisce le bombe atomiche o porta l’uomo sulla luna è incerta ancor oggi sulla struttura e sulla vera natura della materia…

Anche la scoperta, però, dei processi somatici attivati dai nostri atti di coscienza non dovrà però mai far dimenticare la specificità della componente psichica, irriducibile a qualsiasi ‘meccanismo biologico’.
Quando, infatti, parliamo di ‘anima’ che fa ammalare o fa guarire, parliamo di una ‘realtà’ (qualunque ne sia l’origine e la natura profonda) che è connessa ad una dimensione di libertà, volontà, fantasia, memoria, creatività, eticità etc., cioè di una ‘realtà’ che pur essendo capace di determinare eventi ‘fisici’ non ha palesemente una ‘natura’ meccanicistica; l’anima, quantomeno entro una certa misura, si può autodeterminare secondo spazi e gradi di libertà ed autoconsapevolezza.
Non si dimentichi mai che la ‘realtà psichica’ (che si esprime attraverso l’arte, la filosofia, la religione, la socialità e quant’altro) ha caratteri propri e che realtà e materialità non coincidono.
In altri termini: la scienza medica e le ricerche fisiologiche potranno dirci in modo sempre più analitico quali sono i processi organici che ‘corrispondono’ e ‘conseguono’ad eventi psichici ma non potrà mai ridurre questi a quelli: se lo facessero si tratterebbe di un grave errore e di un paralogisma.
Ad esempio: se io provo, anche per il motivo più assurdo ed ingiustificato, un sentimento di rabbia, la strumentazione scientifica potrà, sì, evidenziare i cambiamenti organici che ne derivano, tuttavia tali cambiamenti non sono certamente la causa del sentimento ma solo l’effetto. E’ chiaro che se io voglio rimuovere i motivi ‘reali’, vale a dire ‘profondi’, di quella condizione organica dovrò preoccuparmi di capire e rimuovere la condizione emotiva determinante: non sarà sufficiente un medicamento che ‘smorzi’, ‘attenui’ o ‘elimini’ i soli effetti somatici.

Per nostra fortuna oggi tali considerazioni sono quasi lapalissiane e ciò è indice indubbiamente di un progresso storico nel campo della dottrina medica e di un diffondersi di tali cognizioni a livello di massa; tale progresso, tuttavia, è sostanzialmente solo un ritorno al passato.

Gli stessi sviluppi della psicanalisi sono andati, a ben vedere, nella direzione di una chiara rivalutazione del pensiero antico, il quale ipotizzò l’esistenza di una energia vitale circolante nell’organismo da considerare però, nella sua essenza, solo come parte di una Energia Vitale universale. In effetti il pensiero antico individuò proprio nell’Eros, forza attrattiva immanente a tutti gli esseri viventi, una delle più evidenti manifestazioni di tale pulsione vitale cosmica.

Freud si riferì proprio all’Amore inteso come forza basale e pulsione sessuale di tutti gli esseri viventi con il termine latino di ‘libido’.
Tuttavia si sono formate, ad opera dei discepoli del pensatore austriaco, diverse scuole ed uno dei principali motivi di differenziazione è stato significativamente connesso al problema di una definizione ‘ontologica’ del concetto di ‘libido’.
Anche se Freud tentò di attenuare la sua impostazione ‘pansessualista’ che a molti appariva troppo univoca e radicale egli rimase fermo sulle sue posizioni anche quando il suo principale discepolo, Jung la sottopose ad una critica corrosiva.
Jung propose d’intendere la ‘libido’ come l’energia della vita stessa , insomma quella che noi spesso indichiamo con il generico termine d’istinto. Tale energia per Jung viene appunto da noi esseri umani percepita come ‘desiderio’ ed ‘aspirazione’, suscettibili entrambi di comunicarsi ad una sfera qualsiasi dell’attività vitale dell’uomo e manifestarsi come fame, odio, sessualità, desiderio di potenza ecc. Lo stesso pensatore svizzero ha sostenuto inoltre, com’è noto, l’esistenza di un ‘inconscio collettivo’ da lui definito come “la poderosa massa ereditaria spirituale dello sviluppo dell’umanità che rinasce in ogni struttura cerebrale individuale” e chiamò ‘archetipi’ le immagini primordiali dell’inconscio collettivo, rintracciabili nelle più diverse tradizioni religiose, mitiche, folkloristiche, iconografiche.
A dir il vero Jung oscilla nella interpretazione di tali archetipi: a volte sembra interpretarli come astratte figure dell’inconscio, meri simboli la cui unica ‘realtà’ è ‘psicologica; altre volte sembra invece leggerli come forme di una energia cosmica, vere proprie realtà ‘ontologiche’ alimentate dallo psichismo umano da cui tutti noi dipendiamo.Con tale ultima interpretazione gli archetipi sembrano corrispondere in tutto e per tutto alle cosmiche potenze ‘numinose’ dei nostri antenati visto oltretutto che possiamo ‘evocarle’ esplorando le nostre profondità.
Proprio per tali prospettive ‘spiritualistiche’ e ‘misticheggianti’ (che naturalmente gli vennero contestate da Freud) Jung è però da considerare un geniale innovatore nel campo della psicanalisi; in effetti ha tentato di affrancarla da un compito puramente ‘terapeutico’ l’ha volta allo studio e alla interpretazione dei fatti culturali umani nelle più diverse dimensioni e forme, con ciò orientandola in senso ‘filosofico’. Per tali considerazioni molti studiosi lo considerano il padre della moderna psicologia transpersonale.

Anche Reich ha inteso l’energia psichica ( che lui chiama ‘orgone’) come ‘libido’, cioè come una pulsione orgasmica ma l’ha letta in modo più cosmico-animistico rispetto a Freud e soprattutto ha sottolineato il principio ed i modi con cui il suo naturale fluire od arresto negli organismi viventi può determinarne salute o malattia.

Insomma, se Freud ha ‘scoperto’ una verità antica, cioè che la coscienza di veglia, la coscienza razionale, è solo una parte, un modo di essere, della nostra psiche, se Jung ha cercato proprio nell’inconscio collettivo, cioè in una dimensione ‘transpersonale’ la radice della nostra personalità ‘storica’ (confermando la tesi antica che il nostro io è una ‘persona’, cioè secondo il senso latino del termine, una ‘maschera’ dietro cui si cela e va coperto il Sé autentico di ciascuno radicato in una Coscienza Universale), se, infine, Reich dimostra come la bioenergia circoli nell’organismo determinandone la salute o la malattia, è chiaro che la stessa scienza moderna deve ammettere quantomeno che molte intuizioni antiche non erano del tutto infondate.

In effetti la moderna medicina psicosomatica trova il suo fondamento proprio nel principio della corrispondenza, meglio ancora, della identità funzionale tra corpo e mente; potendo sostenere tale tesi su una base di una ampia ed inoppugnabile documentazione clinica e strumentale si può dire che abbia ormai trovato accoglimento indiscusso nel campo ufficiale della scienza.
In linea di massima la medicina psicosomatica ritiene che il passaggio dagli eventi esterni o interni scatenanti alla comparsa vera e propria della malattia avviene in cinque fasi (tante ne individua il prof. Pancheri nel suo trattato):
1) imprinting e registrazione nella memoria emozionale, a livello limbico-ipotalamico di stress infantili;
2) strutturazione di uno stile personale di risposta somatica o comportamentale agli stress;
3) riattivazione emozionale in presenza di nuovi stimoli, reali o simbolici;
4) manifestarsi di precursori della malattia (disfunzioni);
5) comparsa della malattia psicosomatica.

Anche l’ipnosi continua oggi ad essere utilizzata con grande efficacia nel campo medico; in taluni casi essa si è rivelata così efficace da essere utilizzata senza alcun supporto farmacologico nel caso di interventi chirurgici anche di non lieve entità per anestetizzare i pazienti ( si pensi alla capacità di desensibilizzare l’organismo attribuite agli antichi fachiri indiani).
In tempi recenti poi Coué (1857-1926) ha dimostrato come la suggestione ipnotica agisca sulla immaginazione che è la forza dominante del subcosciente, per cui nel contrasto tra la volontà lucida e l’ immaginazione questa si dimostra sempre più potente.
Poiché inoltre, secondo il Coué, la eterosuggestione agisce solo quando si converte in autosuggestione, si può sfruttare tale principio creando in noi scientemente, deliberatamente, sia immagini vivide di benessere sia ripetendo sistematicamente e con forza di convincimento formule ‘salutifere’.
Sarà poi l’inconscio stesso, secondo Coué, a trovare le vie ‘energetiche’ attraverso cui realizzare la suggestione positiva indotta.
In effetti dagli esperimenti di Charchot a quelli di Coué (per tacere di tanti altri) si è ampiamente dimostrato come l’immaginazione (stimolata anche dalla suggestione ipnotica) sia capace di ‘attivare’ ed ‘orientare’ l’energia psichica umana, cioè quella bioenergia che gli indiani chiamano da millenni: prana.
Gli stessi saggi indiani hanno da sempre affermato che il prana è guidato dalla immaginazione e che esso circola correttamente nell’organismo quando questo è capace di rilassarsi; ogni tensione, a loro parere, infatti, blocca l’energia pranica in una o più parti dell’organismo causando disfunzioni e malattie.
Tale principio è considerato di tale importanza che nel sistema dello yoga ‘fisico’, lo hatha yoga, la tecnica preliminare dell’allenamento alle varie posizioni ed alla stessa pratica meditativa è quella del ‘rilassamento’, il savasana, la ‘posizione del cadavere’.
Tutto ciò dimostra la fondatezza e la veridicità dell’antichissimo assunto secondo cui “la fede può guarire”; ciò vale a dire che qualsiasi solida e radicata immagine-credenza può guarire.
L’effetto placebo sta proprio lì a dimostrarlo ulteriormente.
Del resto l’atto di fede contiene gli stessi caratteri della induzione ipnotica terapeutica:
1) si realizza un forte aspettativa positiva (è possibile la guarigione);
2) si attiva una intensa carica emozionale (desiderio di guarigione);
3) si riduce il livello ‘critico-razionale inibitorio ( lo scetticismo ‘blocca’ l’attivazione immaginativa-magica: solo la ‘fede’ nel cambiamento lo rende possibile proprio perché lo fa ‘immaginare’);
4) si realizza una concentrazione ideativa che ha il senso di far convergere la forza vitale verso l’obiettivo terapeutico (monoideimo ideoplastico).

Anche Janet (1859-1947) con i suoi studi sulla dissociazione psichica scoprì, indipendentemente da Breuer e Freud, l’importanza terapeutica della reviviscenza ipnotica di emozioni antiche per il superamento dei vari sintomi isterici ed anticipò tutti quegli studi sulle tecniche di rilassamento che saranno più tardi sviluppati nell’autodistensione concentrativa di Schultz o Jacobsen, nell’autoipnosi frazionata o graduata di Kretschmer ecc.
Quanto all’efficacia sia analitica che terapeutica dell’ipnosi (anche se, com’è noto, essa venne abbandonata da Freud a favore del metodo dell’ ‘associazioni libere’) essa è ben documentata in tempi molto recenti dal ponderoso e rigoroso Trattato del prof. Granone e dalle opere di Milton Erickson ormai molto note anche in Italia.
Sulla stessa linea di una utilizzazione più raffinata dell’ipnosi si pone il training autogeno di Schultz o il rilassamento ‘dinamico’ (sofrologia) di Caycedo (tecniche elaborate entrambe sulle basi dello yoga plurimillenario…) o la Programmazione neurolinguistica (PNL).

I meccanismi che sono alla base delle disfunzioni e delle malattie psicosomatiche sono stati ottimamente studiati in epoca recente dal principale allievo di Reich, Alexander Lowen, il quale ha dato corpo ad una forma di psicoterapia corporea da lui definita analisi bioenergetica. Egli ha confermato l’assunto di base del suo maestro attraverso una pratica pluridecennale: le tensioni psichiche creano a livello somatico un vero e proprio blocco muscolare che impedisce il libero fluire dell’energia biologica non solo nell’area interessata al blocco ma in tutto l’organismo. Per tale motivo, a suo parere, la guarigione può avvenire solo con la scarica energetica della tensione muscolare, la quale consente ai muscoli di rilassarsi e all’energia di riprendere a circolare liberamente. Anche Lowen, come Reich, parla di una ‘corazza muscolare’ assunta da ciascuno di noi sin dall’infanzia come meccanismo individuale di difesa dai ‘pericoli’ del mondo esterno, per cui ha elaborato una terapia specifica che ha il fine di dissolvere quella corazza che a ragione può essere definita ‘caratteriale’. Questa, infatti, consiste in una organizzazione rigida della unità psicosomatica che si manifesta oltre che come contrazione muscolare cronica e mancanza di flessibilità del corpo, anche come rigidità psicologica e incapacità relazionale.
Lowen così attesta la realtà di quel meccanismo che è alla base della efficacia terapeutica della catarsi e dell’abreazione, meccanismo per nulla ignoto, aggiungiamo noi, alle culture antiche le quali con attività più o meno ‘ritualizzate’(danze, cerimonie, canti, gare agonistiche etc.) creavano occasioni cicliche di scarica e liberazione emozionale anche collettiva (si pensi alle cerimonie bacchiche o alla funzione della rappresentazione tragica secondo Aristotele).
Inoltre tutta l’antica medicina orientale è state sempre concorde nel ritenere causa della disfunzione e malattia una carenza o un eccesso di energia circolante nell’organismo ‘sottile’ dell’uomo (di volta in volta indicato come il corpo’eterico’, ‘astrale’, ‘luminoso’, ‘pranico’ etc.).
La teoria di Reich (propriamente definita: vegetoterapia carattero-analitica) ha ispirato gli studi e le dottrine di altri ricercatori, sono così comparsi in tempi recenti altri indirizzi terapeutici a mediazione corporea come la Gestalt di F. Perls, la Biosintesi di D. Boadella, la Core di J. Pierrakos, l’Orgonoterapia di F. Navarro.

Un’altra scuola psicoterapica che molto si è adoperata e si sta adoperando per collegare fecondamente la conoscenza psicologica occidentale ‘scientifica’ con quella orientale ‘metafisica’ è quella della psicocosintesi di Roberto Assagioli il quale si può considerare un pioniere in tal campo, avendo fondato sin dal 1926 a Roma un Istituto molto attivo e conosciuto anche negli USA. Assagioli capì prima di molti altri i limiti della psicanalisi freudiana e si propose di elaborare un metodo capace non solo d’illuminare l’inconscio ma anche di operare positivamente una sintesi armonica di tutti gli aspetti della personalità umana, sino ad aprirla alla esperienza del trascendente e del sacro.

Ma la scuola occidentale che più consapevolmente e programmaticamente si è proposta di esplorare l’inconscio ‘superiore’ dell’uomo è quella nota come psicologia tranpersonale, la quale si propone di aprire nuove vie oltre quelle della psicologia ordinaria, della psicanalisi, del comportamentismo (che limita il suo approccio al puro fatto ‘esteriore’ dell’azione umana), del cognitivismo (che intende ridurre i meccanismi della coscienza a quelli operanti in un computer…): tutte scuole, quest’ultime, accomunate, in fondo, da una visione biologistica, meccanicistica, materialistica e perciò stesso tendenti a vedere in ogni esperienza umana del sacro e del trascendente una qualche forma di patologia.
La psicolgia transpersonale (che si è sviluppata secondo una linea che va da Abraham Maslow a Roberto Assagioli, a Charles Tart, a Stanislav Grof, a Ken Wilber e che, in Italia, attualmente, trova la principale esponente in Laura Boggio Gilot) sta fruttuosamente sviluppando analisi comparative tra le antiche dottrine sapienziali elaborate nell’ambito filosofico, mistico, esoterico, religioso, soprattutto orientale, e gli studi psicologici più recenti sviluppati in Occidente.
Essa ritiene che la coscienza ‘normale’ sia in realtà uno stato di ridotta consapevolezza ed invita a realizzare ed esplorare, in piena consapevolezza, stati di coscienza che trascendono i limiti della ‘persona’ considerata nella sua ordinaria realtà bio-psichica.
Con ciò lo stesso stato di salute viene inteso in una prospettiva evolutiva, per cui l’armonia tra psiche e soma è da considerare non tanto come meta di una cura ‘medica’, quanto come premessa di una più elevata e piena attualizzazione delle potenzialità della coscienza umana.
La psicologia transpersonale può dare così un grande contributo al superamento delle divisioni e delle contrapposizioni tra religioni e filosofia, tra fede e ragione, tra scienze della natura e scienze dell’uomo, individuando un preciso percorso di crescita interiore capace di sviluppare nell’uomo l’intuizione metafisica, cioè la chiara capacità di percezione delle dimensioni spirituali della Realtà.
Storicamente il compito della psicologia transpersonale dovrebbe essere quello d’indagare l’inconscio superiore, dopo che dalla fine dell’Ottocento è stato esplorato quello inferiore; essa dovrebbe, insomma, portare la luce in quegli spazi ancora poco esplorati della coscienza che confinano con la genialità creativa e la piena realizzazione dei propri bisogni emotivi e razionali.
Essa sostiene che la patologia ha in realtà una duplice origine: può nascere sia per il ben noto conflitto tra il conscio ed i bisogni istintuali ‘organici’ dell’inconscio ‘inferiore’, sia dal conflitto tra il conscio ed il ‘superconcio’, l’io superiore. Quest’ultimo esprime profondi ed insopprimibili aneliti di Verità, di Bene, di Bellezza che sono ‘costitutivamente’ presenti- come ci ricorda Platone- nel profondo della psiche umana. In effetti, se tali ‘bisogni spirituali’ non vengono realizzati, possono indurre anch’essi disfunzioni e malattie sia mentali che fisiche.
L’incapacità dell’uomo a ‘realizzarsi’o anche e persino la sua sola difficoltà a dare alla propria vita un senso ‘evolutivo’, una prospettiva di positivo cambiamento che lo orienti anche al di là della ordinaria dimensione spazio-temporale, può essere causa non solo di uno stato di costante insoddisfazione, ma anche di ansie, angosce, nevrosi, depressioni, crisi esistenziali e quant’altro.
In realtà colui che cerca la propria autorealizzazione ( che vuol dire espansione, crescita della propria personalità) non dovrebbe vivere tale processo solo nella dimensione ‘orizzontale, vale a dire sociale e relazionale, ma anche nella dimensione ‘verticale’ della illuminazione pacificatrice.
In realtà il bisogno di autorealizzazione ha una sua intrinseca tendenza verso la dimensione ‘metafisica’, tendenza che esprime un anelito universale, presente anche in coloro che non ne colgono la profonda e reale essenza.
Conclusione
Per quanto detto, pur con estrema sintesi, circa il rapporto tra filosofia e psicologia nel mondo contemporaneo, a nostro avviso si può affermare che c’è un’assoluta necessità che la psicologia riassuma il compito ‘alto’ ed ‘antico’ di guidare l’uomo non solo verso l’armonizzazione biopsichica ma che si proponga anche di guidare evolutivamente il ‘paziente’ verso l’autorealizzazione di tutte le sue potenzialità spirituali.
Se la psicologia deve ritornare ad essere ‘filosofica’ e ‘sapienziale’ la filosofia però -analogamente e simmetricamente- torni a proporsi come una ‘terapia’ dell’essere umano integrale.
Filosofia e psicologia devono così non solo convergere ma integrarsi e fondersi nella realizzazione di un unico comune scopo: quello di dar vita, attraverso una scienza integrale, ad un nuovo (ed eterno…) umanesimo.